La sbagliata e insensata riforma dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori poggia su (e trae origine da) volute storture della realtà del lavoro in Italia e dei suoi riflessi sulla produttività del Paese.Le ragioni della riforma del mercato del lavoro nascono dagli impegni internazionali presi dall’Italia (rectius: dal capo del Governo allora in carica, Silvio Berlusconi) in/con l’Europa (sarebbe meglio dire dalle imposizioni franco-tedesche) e da asserite ragioni economico-produttive interne: l’Italia deve essere più concorrenziale e appetibile per gli investitori stranieri e le aziende “interne” devono poter reggere alla sfida del mercato globale in un periodo (tardivamente conclamato) di recessione.
Più problemi, un’unica soluzione: l’abolizione delle tutele fornite ai lavoratori dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Niente di più falso e sbagliato.
Il messaggio mediatico governativo e confindustriale che bombarda l’opinione pubblica è quello, falso, che in Italia, a causa dell’art. 18, non si possa licenziare e che questo sia il freno ad investimenti e assunzioni.
A questo punto è necessaria una precisazione che riguarda le ipotesi di applicazione della norma in argomento e la sua portata operativa.
L’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori è norma che si applica in ipotesi di intimazione di licenziamento individuale privo di giusta causa e/o giustificato motivo: la sanzione comminata è quella del reintegro del lavoratore con obbligo di corresponsione in suo favore delle retribuzioni maturate dalla data di licenziamento a quella di sua effettiva reimmissione in servizio.
È falso il messaggio secondo cui le aziende non possano licenziare: le aziende possono licenziare ma nel rispetto delle norme che presidiano il rapporto di lavoro, ovvero per accertate violazioni di obblighi contrattuali da parte del lavoratore o per fondate ragioni tecniche, organizzative e produttive.
Se si licenzia “bene” - ovvero si provvede alla risoluzione del rapporto per motivi fondati e non pretestuosi o fantasiosi - non è dato comprendere quale pregiudizio possa arrecare all’azienda la tutela in argomento: la questione vera è che la lobby confindustriale vuole essere libera di potere decidere della vita o della morte lavorativa del dipendente senza troppi fronzoli o formalismi ed il Governo e l’Europa intendono assecondare queste aspirazioni e derive ultra liberiste.
È altrettanto falsa l’equivalenza meno tutele, più lavoro.
Al di là del disvalore etico e sociale di una tale affermazione, nessuno è in grado di provare, almeno con un minimo di rigore economico-industriale, che i meccanismi di flessibilità in uscita dei lavoratori dalle aziende sia volano per nuove assunzioni.
E ancora.
L’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori è applicabile esclusivamente ai dipendenti di aziende che impiegano nello stesso comune, in una o più unità organizzative, più di quindici dipendenti ovvero un numero superiore a cento nell’intero territorio nazionale.
Le imprese di tali dimensioni in Italia sono meno di 114.000 - per lo più dislocate nel centro-nord - e impiegano circa il 40% dei lavoratori dipendenti privati italiani: tale dato percentuale, è opportuno specificarlo, non tiene conto dei rapporti di collaborazione autonoma, dei lavori a progetto e del popolo delle finte partite iva, riferendosi solo a lavoratori con contratto di lavoro dipendente.
Tali percentuali, ancora, “risentono” della forte presenza nelle aziende di lavoratori entrati in servizio in epoca precedente alle riforme Treu e Biagi del 97 e del 2003, ovvero prima dell’esplosione delle possibili ipotesi di ricorso, legale e non, a forme contrattuali flessibili e atipiche rispetto all’idealtipo del lavoro a tempo indeterminato che caratterizzava sino agli anni ‘90 il nostro mercato del lavoro.
L’art. 18, dunque, non tutela “i lavoratori” ma solo “quei lavoratori”, per lo più con una maturata anzianità di servizio, dipendenti di aziende di medio-grande dimensione: per “gli altri” lavoratori, la tutela riconosciuta in caso di licenziamento illegittimo è quella, solo indennitaria, prevista della legge n. 604/66, ovvero il riconoscimento di un importo compreso tra 2,5 a 6 mensilità (sino ad un massimo di 10 per lavoratori con rapporto ultra quindicennale) dell’ultima retribuzione goduta.
Questi pochi numeri dovrebbero fare inorridire ogni qualvolta le OO.SS., riferendosi all’abolizione dell’art. 18, parlano di un ritorno alla schiavitù.
Se lo schiavismo passa, o meno, dall’applicazione di quelle tutele, più del 60% dei lavoratori italiani dipendenti di aziende private non è mai uscito dalla schiavitù: forse è arrivata l’ora che anche le OO.SS., in special modo i Confederali, facessero un esame politico dei propri fallimenti istituzionali per aver sempre tutelato, e spesso male, solo gli interessi dei pagatori delle loro deleghe sindacali e di non aver spiegato ai lavoratori, tutti, l’importanza del referendum del 2003 per l’estensione dell’ora difese tutele a tutti i dipendenti di imprese di qualsivoglia dimensione.
Come ben sanno i tecnocrati al governo, la competitività di un Paese, e la sua capacità attrattiva di investimenti, si misurano, invero, attraverso le dotazioni infrastrutturali, la certezza del diritto (soprattutto in materia fiscale), la snellezza burocratico-amministrativa, la velocità di risoluzione delle controversie (siano esse commerciali o del lavoro), il costo del lavoro.
Nessuno di questi temi è stato messo in campo per il rilancio produttivo, e quindi occupazionale, del Paese.
Nessuna politica per il rilancio infrastrutturale e per l’eliminazione del gap Nord-Sud (un esempio per tutti: al Nord la TAV e le autostrade a tre corsie, in Sicilia le ferrovie di epoca garibaldina e quattro ore e mezza di auto per arrivare da Ragusa a Palermo), nessun intervento per semplificare la giungla amministrativa, fiscale e delle migliaia di norme disorganiche cui un imprenditore è chiamato ad attenersi nell’esercizio della propria attività, per risanare una giustizia in ginocchio per le croniche carenze di mezzi ed organico con abnormi carichi di lavoro e tempi medi di durata di giudizio tra i più lunghi in Europa (e non solo!), per ridurre l’insostenibile pressione fiscale e previdenziale che grava sul lavoro dipendente che si traduce in salari tra i più bassi d’Europa e costi aziendali per impiegato tra i più elevati.
Per il Governo Monti la soluzione dei problemi italiani non passa dal modello keynesiano di rilancio dell’economia, dall’intervento dello Stato per il potenziamento delle carenze infrastrutturali (con riflessa creazione di nuova occupazione), dalla semplificazione legislativa, dal potenziamento degli uffici giudiziari o dalla riduzione del cuneo fiscale e previdenziale.
La soluzione ad ogni male italico - oltre che attraverso l’esponenziale e antidemocratico aumento della pressione fiscale indiretta per ridurre il costo del rimborso del debito pubblico - passa davvero dall’abolizione de “il male”, l’art. 18, ovvero delle tutele individuali dei lavoratori dipendenti in caso di licenziamento privo di giusta causa e/o giustificato motivo?
Ritengo necessario che le forze sociali si mobilitino affinché i partiti in Parlamento non assecondino lo sfascio sociale voluto dal Governo.
In caso contrario, la parola non può che tornare al Popolo sovrano attraverso il lancio di una campagna referendaria per l’abolizione della varanda riforma e delle altre norme liberticide che presidiano da un quindicennio il mercato del lavoro e l’avvio di una raccolta firme per la presentazione di una proposta di legge di iniziativa popolare per l’estensione delle tutele dell’art. 18 a tutti i lavoratori privati.