giovedì 5 aprile 2012

Al livello delle finestre: discutendo ancora di sciopero precario

da (s)Connessioni precarie
Il dibattito sulla riforma dell’articolo 18 e del mercato del lavoro mostra dei tratti paradossali. Ripetere che il governo dei banchieri e della cinica piangente è contro i lavoratori è del tutto inutile. Quello che ci interessa è ciò che accade fuori dai palazzi: parliamo dei sindacati e dei movimenti.
La CGIL della linea interventista firmata Camusso ha saggiamente proclamato uno sciopero senza proclamarlo: arte tutta italiana di agitare una minaccia virtuale, per ottenere evidentemente risultati virtuali. Quali? Come si vede in questi giorni di accordo quasi raggiunto, principalmente due: il primo è puramente politico e consiste nel rinnovato riconoscimento di Corso Italia tra i sindacati che contano, il ritorno delle consultazioni e dei ‘tavoli’ e di un ruolo guida nel gestire la minaccia sindacale; il secondo punta direttamente alla riforma, con la reintroduzione della parolina magica: reintegro. In questo modo, il governo dei tecnici ha dimostrato di ascoltare il paese, il sindacato di essere l’unico baluardo di difesa del lavoro. Persino il PD ha confermato di essere un partito di sinistra. In questo quadro, è evidente, la proclamazione dello sciopero generale ha funzionato, esattamente come un anno fa, come minaccia contro le componenti riottose del sindacato e contro tutta quella galassia movimentista che ruota intorno alla via lattea dello sciopero generale, più che contro il governo. Dal punto di vista politico, la vera Lady di ferro di questo paese è Susanna Camusso, che appropriandosi della parola liberatrice riesce a domarla e gestirla, allungando i tempi dello sfogo della tensione sociale. È un’abilità che va riconosciuta. E gli altri?
Per parlare della componente del sindacato che ha mantenuto alto il livello del conflitto, stupisce che la FIOM non abbia compreso che il vero attacco all’articolo 18 non sia avvenuto nelle discussioni sull’articolo 18, ma attraverso la crescita di un esercito di precari che ha reso ininfluente la distinzione tra le aziende con più o meno di 15 dipendenti e quella tra precari e garantiti. Gli operai metalmeccanici, del resto, sanno come sono fatte le fabbriche oggi. Il lavoro migrante mostra come si possa essere presunti lavoratori ‘garantiti’ e assolutamente ricattabili, come con il lavoro non si acceda a nessuna scala progressiva di diritti. Le esternalizzazioni, il lavoro somministrato, i diversi inquadramenti hanno svuotato la capacità operaia di attaccare, costringendo a una costante difesa e a dichiarare vittorie quando la sconfitta non è una rotta. Il risultato è la precarizzazione di tutto il lavoro nella fabbrica e intorno alla fabbrica, l’arbitrio padronale ormai dilagante, se si escludono alcune sacche che oggi tremano di fronte ai colpi della crisi e alle minacce di tagli del personale. Sarebbe ora di riconoscere che Marchionne non ha sfondato il muro del suono, ma ha portato in FIAT la condizione generale del lavoro. Facciamo un piccolo esempio: la New Co. di Pomigliano è stata costituita per licenziare e riassumere il personale sotto diverse condizioni contrattuali, liberandosi nel frattempo dei dipendenti fastidiosi. Ebbene, non ci vuole molto per vedere che questa è la normalità di migliaia di piccole e grandi cooperative di servizi, trasporto, logistica e welfare diffuse sul territorio e che spesso eseguono anche pezzi di produzione nelle stesse aziende metalmeccaniche. La formula del socio di cooperativa è utilizzata per mascherare il rapporto di lavoro, mentre funziona normalmente il dispositivo dei fallimenti pilotati, con cooperative che sono fatte fallire per riassumere il personale con un trattamento salariale inferiore.
Quanto ai movimenti, andrebbe chiarito un equivoco di fondo: il caudillo non c’è più, e questo va considerato quando si evocano il 14 dicembre o il 15 ottobre. Due date importanti, che non possono però riassumere la potenza e l’immaginario del conflitto e incollarle a una forma determinata, della quale si sono mostrati anche i limiti. E bisogna saper registrare il mutamento sapientemente indotto dall’ingresso del governo tecnico che, tecnicamente, elimina l’usurpatore da disarcionare, per proteggere i rapporti sociali che sostengono le politiche di austerity. Queste passano per la precarizzazione del lavoro e delle esistenze, di cui i movimenti dovrebbero farsi carico nella capacità di parlare di ciò di cui non si parla, di intervenire dove non s’interviene, di organizzare l’inorganizzabile. Questi tre momenti andrebbero presi insieme e non, come invece usa fare, separatamente. Non ha più alcun senso oggi denunciare le malefatte governative e rendere pubblica la condizione precaria: i precari e le precarie conoscono la loro condizione e non hanno bisogno di sentire qualcuno che parli di loro. Forse si attendono un’indicazione politica, l’avvio di percorsi di connessione e organizzazione capaci di rendere esperienza collettiva una condizione comune che divide, per farne una forza.
Di questo bisognerebbe parlare, rifiutando politicamente e non solo a parole la subalternità e la riproduzione del meccanismo della rappresentanza, talvolta nascosto anche nella sua più feroce critica: non esiste oggi la possibilità di rappresentare sul piano simbolico la precarietà, per colmarne la mancanza nei sindacati e nei tavoli delle trattative. La precarietà non è più una condizione potenziale negata, ma è uno stato di fatto che si dà nella quotidianità del lavoro e dei rapporti sociali. La presa di parola delle e dei precari, dunque, non potrà avvenire reclamando un posto a tavola, ma solo contro quei tavoli e i luoghi che essi rappresentano. I tavoli sono luoghi di compensazione e mediazione delle tensioni. Quella tensione e quella mediazione che i precari e le precarie hanno l’interesse a far saltare perché lì la loro condizione può solo essere istituzionalizzata, normalizzata e definitivamente estesa a tutto il lavoro. Essendo così, il balletto sull’articolo 18 potrà anche terminare con un suo parziale mantenimento: riattaccare la targhetta fuori dalla porta del lavoro non servirà a molto, perché la precarietà entra dalle finestre.
Dire che la presa di parola della condizione precaria deve avvenire contro i tavoli della trattativa, significa allora indicare un diverso piano d’intervento: fare altro, non dichiararsi contrari ai loro risultati. Per lottare contro la precarietà bisogna volare alto, almeno al livello delle finestre, e liberarsi dalla stretta che, tra l’evocazione di uno sciopero generale e di un assedio, lascia incollati i precari alle loro condizioni di lavoro e impedisce di immaginare nuovi strumenti per inceppare la catena dello sfruttamento, che è la medesima che assicura i profitti dei precarizzatori. Tra i sindacati e i movimenti c’è la precarietà come stato di fatto. Contro questa condizione occorre il coraggio di costruire strumenti nuovi e organizzare l’inorganizzabile: per questo continuiamo a parlare di sciopero precario.