giovedì 22 marzo 2012

People have the power. Movimento No Ponte quale futuro?


di Luigi Sturniolo
Sabato 24 marzo alle 9.30 il Movimento No Ponte ha indetto una Assemblea pubblica presso la Stazione Marittima di Messina. Come collegare le lotte a partire dalla Val di Susa e costruire una economia del Comune solidare e sostenibile?
Il movimento No Tav è un movimento politico, così come il Governo Monti ha carattere politico. Il paradosso di quest’ultimo risiede nel fatto che la sua natura tecnica viene sbandierata come formula di garanzia laddove l’attuale fase storica è contraddistinta dalla crisi della tecnica. Fukushima può essere considerato l’epifenomeno di un’applicazione della tecnica che ha fatto cortocircuito con l’ambiente e con l’uomo. Allo stesso modo la necessità di applicare artifizi matematici per tenere in vita la convenzione economica segnala la fine degli automatismi basati sullo scambio capitalistico. Il Governo Monti è un paradosso perché espressione di una crisi e medico della stessa. Il Governo Monti è la rappresentazione dell’affermazione della tecnica al tempo della sua crisi. L’essere chiamato a rappresentare la conoscenza oggettiva l’avrebbe voluto capace di certificare la giustezza delle proprie scelte sulla base della dimostrazione scientifica. E invece l’esecutivo tecnico in Val di Susa si è incagliato. E lì ha fatto quello che tutti i poteri fanno per dimostrare la propria ragione: ha esercitato la forza. E l’ha esercitata con grande dispendio di risorse.
Il movimento No Tav è un miracolo perché, quando nessuno se lo aspettava, ha dimostrato che il popolo può vincere. O almeno può battersi avendo ancora qualche possibilità di vittoria. Esso ha fatto del territorio la propria forza. Il territorio, messo a profitto dalle politiche delle grandi opere, diviene così luogo della resistenza. La Val di Susa non è cascata nel tranello basato sullo scambio devastazione/flussi di denaro. In Val di Susa il popolo ha il potere perché applica il metodo che tutte le resistenze praticano per vincere: la conoscenza del territorio, la sua familiarità, l’imporre all’avversario un tale dispendio di energie e risorse da rendergli sempre meno conveniente l’intrapresa. Tutti i ragionamenti sulla necessità del dialogo nascono da questa evidenza. Un dialogo un po’ peloso, certo, perché basato sul principio che, comunque, l’infrastruttura vada realizzata. Più che un dialogo, quindi, una propaganda, una pratica di convincimento, un tentativo di cooptazione (rimpinguato, adesso, da qualche decina di milioni di euro in opere compensative). Non una messa in discussione dell’opera, non una trattativa nella quale le forze in campo pongono sul tappeto le proprie argomentazioni e le proprie carte. Non una tregua, quindi, ma un dialogo con i blindati per strada.

Tra i fautori del dialogo ci sono una serie di intellettuali e giornalisti di sinistra. Evidentemente animati da buone intenzioni e capaci di cogliere le ragioni dell’opposizione all’opera, ma ancor di più impegnati a trovare un varco affinché i movimenti della società possano trovare dei canali di rappresentanza delle istanze anche all’interno di una gestione retta dal riconoscimento dell’oggettività della tecnica. La paura probabilmente è quella di un sommovimento tellurico che abbia come ricaduta il ritorno alla guida del paese di quella che alcuni hanno definito bene come una gestione pornografica del potere. Ma forse c’è il non detto della paura di una moltiplicazione delle istanze “valsusine” che, attraverso la loro incompatibilità, pongano una domanda di trasformazione radicale dell’esistente e, soprattutto, di messa in discussione delle ricette di risposta alla crisi interpretate dall’attuale esecutivo tecnico. Ciò che questi intellettuali, forse, non comprendono appieno è che non c’è una grande discontinuità tra l’approccio berlusconiano alla politica delle Grandi Opere e quello del nuovo esecutivo. O meglio, se una discontinuità c’è, questa è segnata dalla consapevolezza dell’impossibilità di continuare ad alimentare all’infinito i mille rivoli di sperpero delle risorse pubbliche e dalla necessità di un’ulteriore accentuazione di quella verticalizzazione delle scelte che già era un tratto caratteristico della Legge Obiettivo (quella che ha contrassegnato i 10 anni scorsi e che dietro il trucco del Project Financing ha consegnato miliardi di euro ai grandi contractor delle infrastrutture, senza peraltro che di opere vere ne siano state realizzate molte). Ciò che non viene messo in discussione di certo è chi ci guadagna (le grandi imprese che si dividono gli appalti pubblici) e chi ci perde (il territorio e i suoi abitanti). La novità è il tentativo di introduzione dei meccanismi finanziari a sostituzione di risorse pubbliche non più adeguate ad alimentare sufficientemente le opere (o meglio, i percorsi, il cammino, gli iter delle opere).
Il progetto di sostituzione della Legge Obiettivo con un nuovo apparato normativo è stato delineato, In Italia, in un Rapporto intitolato “Le infrastrutture strategiche di trasporto” prodotto dalle Fondazioni Astrid (diretta da Franco Bassanini), Italiadecide (diretta da Luciano Violante) e Res Publica (diretta da Eugenio Belloni, ma con direttore scientifico Giulio Tremonti) e presentato nell’estate scorsa. L’intenzione era evidentemente influenzare già le scelte del Governo Berlusconi (e qualche modifica, come la riduzione delle opere compensative, già a quei tempi venne introdotta), ma il pressing più forte viene esercitato adesso sul Governo Monti. E, naturalmente, essendo il piano incentrato su un processo di finanziarizzazione delle opere infrastrutturali, sta andando avanti visto gli uomini che lo sostengono in prima persona: Franco Bassanini (presidente della Cassa Depositi e Prestiti), Corrado Passera (ex amministratore delegato di Banca Intesa San Paolo) e Mario Ciaccia (ex amministratore delegato di Biis, la Banca infrastrutture, innovazione e sviluppo di Intesa San Paolo). Di recente, prima un convegno organizzato alla Bocconi nel quale è stato presentato un ponderoso studio della Banca d’Italia dal titolo “Le infrastrutture in Italia” e poi un incontro del Ministro allo Sviluppo Passera e del suo vice Ciaccia con tutti i soggetti interessati alle cantierizzazioni sono stati i passaggi seminariali e politici propedeutici alla presentazione (il periodo annunciato è aprile prossimo) della nuova legge riguardante le infrastrutture.
Una parte del progetto è finalizzato ad una razionalizzazione delle risorse e ad una velocizzazione delle procedure a discapito dei controlli democratici. Ad esempio, viene previsto che il passaggio al Cipe avverrà solo nella fase dell’approvazione del progetto preliminare (a meno di modifiche sostanziali in fase di progettazione definitiva). Per fare un esempio della ricaduta di una tale norma si pensi che oggi si teme che l’approvazione del progetto definitivo da parte del Cipe possa autorizzare la rivendicazione di penali da parte del General Contractor per la progettazione e costruzione del Ponte sullo Stretto. Un aspetto molto inquietante riguarda i poteri relativi alla localizzazione delle opere. Nelle intenzioni dei proponenti, per le opere che verranno classificate come interregionali tutto verrà deciso dal Governo centrale e le regioni (i Comuni non lo avevano già con la Legge Obiettivo) non avranno più alcun potere decisionale (che rimarrà invece per le opere a carattere regionale). A garanzia di una riduzione dei costi complessivi dell’opera verrà prevista (cosa già approvata da Tremonti e già verificata nel caso del Ponte sullo Stretto) una riduzione sostanziale della spesa in opere compensative. In Val di Susa si parla, infatti, di 20 milioni di euro (una miseria rispetto al costo complessivo dell’opera). Si pensi che i meccanismi precedenti avevano indotto le amministrazioni dello Stretto a presentare progetti di opere compensative per circa 800 milioni di euro. Per favorire la bancabilità delle opere viene consentito di realizzarle a pezzi. Per la Val di Susa è, infatti, prevista la realizzazione del tunnel e si lascia ad una eventuale necessità del mercato, generata dalla ripresa economica, la prosecuzione dell’opera (a dimostrazione che i cantieri si auto-legittimano perdendo ogni rapporto con le esigenze del territorio e dei cittadini). Tra gli aspetti procedurali (ma che hanno una forte ricaduta economica) c’è la riduzione dell’impatto dell’overdesign (della sovrapposizione delle norme), attestandosi, evidentemente, su quelle più economiche (si pensi qui al problema della sicurezza nei cantieri).
Fin qui la parte normativa. Ma ciò che caratterizza fortemente la new wave delle Grandi Opere è il processo di finanziarizzazione. La consapevolezza della scarsezza di risorse pubbliche e l’impossibilità di alimentare ulteriormente il debito pubblico (o almeno la necessità di posticiparlo nel tempo) viene affrontato attraverso l’attivazione di meccanismi che riescano a catturare i risparmi di lungo termine (Fondi Pensione, Fondi Sovrani, Risparmi postali, Assicurazioni Vita …). Questi, a detta di un interessato al settore come Franco Bassanini (Presidente della Cassa Depositi e Prestiti, cioè dei risparmi postali dei cittadini italiani), sarebbero alla ricerca di canali d’investimento non troppo redditizi ma sicuri, essendo stati messi in crisi dalle recenti norme che hanno investito la finanza. A sostegno di una tale ipotesi viene proposta l’istituzione di Project Bond garantiti da risorse europee. Un ulteriore vantaggio dovrebbe venire da facilitazioni di ordine fiscale che aumenterebbero ulteriormente l’appetibilità di tali investimenti. Si tratta, evidentemente, di una evoluzione delle partnership pubblico-privato e del Project Financing ulteriormente spostati a vantaggio dei profitti privati e tradotti, questa volta, in meccanismi finanziari che, in ultima istanza, vanno a gravare sui risparmiatori, sulla loro nuda vita e sul debito pubblico. Si pensi, da questo punto di vista, a chi appartengono le risorse presenti nei Fondi Pensione o nelle Assicurazioni Vita e al fatto che i risparmi postali sono garantiti dallo Stato. Inquietante, inoltre, è la somiglianza tra le obbligazioni legate ai mutui casa e quelle pensate per le infrastrutture. Le prime, infatti, erano pacchetti di mutui a diverso rating (a diversa capacità di solvenza). Nel caso dei Project Bond  il prestito cui si accederebbe per finanziare le infrastrutture sarebbe suddiviso in più tranche di rischio e la Bei si farebbe carico di finanziare la parte più rischiosa. I Project Bond, in sostanza, servirebbero a coprire la fase della costruzione (quando ancora non ci sono ritorni dai pedaggi). Le Obbligazioni di progetto sarebbero così più affidabili, ma la non redditività delle opere (che è poi il motivo per il quale il Project Financing in Italia non ha funzionato) lascia prospettare possibili bolle future. Ai Project Bond riguardanti le grandi infrastrutture si aggiungono, poi, i bond legati alle infrastrutture locali. Il modello è evidentemente rappresentato dai Municipal Bond americani che molti osservatori annunciano già come molto meno sicuri di quanto vengano sbandierati. Questi titoli sono, inoltre, portatori di un co-interesse di una parte dei cittadini nella realizzazione delle opere che altera le dinamiche di discussione e di conflitto che si determinano nei territori intorno alla realizzazione di un’infrastruttura.
Contro una tale prospettiva che rischia di alimentare ulteriormente il debito pubblico (utilizzato come una falce per tagliare salari, diritti e welfare) e nuove bolle speculative (nel mentre accentua decisionismo ed autoritarismo) è necessario costruire prospettive alternative. Se per una lunga fase la risposta dei territori è stata rappresentata da una resistenza alle devastazioni, l’evoluzione dei movimenti ha trasformato la lotta in una disputa sulle risorse e sul loro utilizzo. E’ evidente, però, che i processi di finanziarizzazione delle infrastrutture e la crisi ormai catastrofica della rappresentanza politica impongano una riflessione non soltanto sul dove vengono effettuati gli investimenti, ma anche sul come essi vengono praticati e sul come vengano decisi e gestiti. Il protagonismo dei movimenti, che ha in Val di Susa la sua espressione più felice, ha la necessità oggi di sostanziare un pensiero del territorio come luogo comune, come spazio sottratto alla monetizzazione della devastazione, dove sperimentare pratiche di democrazia radicale che consentano una partecipazione collettiva e orizzontale alle scelte. Pratiche di democrazia radicale che abbiano la capacità di gestire le risorse finanziaria necessarie ad infrastrutturare il territorio secondo i bisogni che esso esprime. Nessun pauperismo o ritorno alla frugalità, dunque. Semmai ampio spazio lasciato all’autogestione e all’autorganizzazione, oggi usate e buttate nelle reti della produzione sociale e nelle politiche della sussidiarietà.