di Andrea Fumagalli*
A più di una settimana dalla conclusione della ristrutturazione del debito greco, può essere utile, a mente più serena, ripercorrere e valutare le tappe che hanno portato ad un vero e proprio default controllato
Il 9 marzo scorso si è chiuso l’operazione di scambio (swap) di titoli di Stato greci che ha coinvolto i creditori privati. Da un punto di vista tecnico, la maggior parte degli investitori istituzionali e privati, che hanno dato la propria adesione, hanno accettato di cambiare i propri titoli con nuovi titoli di minor valore: in particolare, i vecchi titoli di stato sono stati scambiati con:
a. nuove obbligazioni con scadenze comprese fra il 2023 e il 2042 dal valore nominale complessivo pari al 31,5% dei titoli originariamente in possesso (quindi una svalorizzazione del 68,5%);
b. un warrant (titolo finanziario particolare) emesso dalla repubblica ellenica con importo nominale pari al 31,5% (quindi una svalutazione ancora del 68,5%) e scadenza nel 2042 che darà diritto al pagamento di interessi annuali nel caso in cui la Grecia dovesse osservare il previsto percorso di crescita del Pil.
c. nuovi titoli zero coupon emessi dall’Efsf (Fondo europeo di stabilità finanziaria) con scadenze a 12 e 24 mesi aventi un valore nominale pari al 15% (perdita dell’85%).
In conclusione si è trattata di una riduzione del valore dei titoli di stato greci mediamente pari al 73% del valore nominale. Il risultato è stato un taglio netto del debito greco privato da 206 a 107 miliardi di euro, pari a più di un terzo del debito complessivo.
Tale riduzione ha prevalentemente interessato le grandi banche europee. L’adesione degli istituti di credito all’offerta di concambio è stata, comunque, massiccia. Le 450 aziende rappresentate dalla Institute for International Finance hanno accettato tale taglio su un patrimonio complessivo vicino ai 110 miliardi di euro. Come dire che dalla sera alla mattina hanno cancellato 80 miliardi dall’esposizione di Atene In realtà quasi tutti gli istituti avevano già svalutato in bilancio tra il 50 e il 70% il valore dei loro bond ellenici e di conseguenza lo swap greco ha ridotto ulteriormente il valore patrimoniale dei titoli in questione solo del 10-20%. Tra gli italiani le Generali hanno perso 328 milioni, Intesa Sanpaolo 593 e Unicredit 316 (dati: http://www.iif.com).
Se ci si limitasse a queste brevi osservazioni (come hanno fatto alcuni organi di stampa) potrebbe sembrare che l’onere della ristrutturazione del debito greco tramite il default controllato ricada quasi completamente sulle spalle dei mercati finanziari. Le cose in realtà non stanno affatto così. Vediamo perché.
In primo luogo, occorre notare che il sacrificio vale la candela. Un default disordinato avrebbe non solo azzerato (in sostanza) il valore dei bond greci, ma soprattutto falcidiato quello dei titoli di stato degli altri paesi a rischio come Italia, Spagna e Portogallo. Un’ipotesi da incubo visto che solo le prime 20 banche continentali, per dare un’idea, a dicembre scorso, avevano in portafoglio 381 miliardi di titoli dei cosiddetti Piigs.
In secondo luogo, contemporaneamente alla ristrutturazione del debito greco, le banche europee hanno ottenuto prestiti dalla Banca Centrale Europea per un valore di circa 530 miliardi di euro ad un tasso d’interese minimo, intorno all’1% (con un tasso d’inflazione che si aggira intorno al 2,5-2,8%, per un valore rale negativo): una somma di liquidità che si aggiunge ai circa 480 miliardi già stanziati nello scorso mese di novembre. Di fatto, le banche europee e i principali investitori istituzonali possono contare su nuova liquidità superiore a 1000 miliari di euro!
Tale somma di denaro solo in minima parte è stata utlizzata per finanziare attività di investimento. L’ultimo Bollettino della Banca Centrale d’Italia ha evidenziato come le condizioni di credito per le imprese, soprattutto quelle di piccole dimensioni, si siano fatte critiche, incrementando forme di restrizione crditizia (credit crunch), nonostante che le principali banche italiano abbiamo usufruito prestiti dalla Bce per un valore pari a 220 miliari di euro (cfr. Bollettino Economico della BdI, Numero 67, Gennaio 2012). Risulta allora evidente come questa liquidità sia stata riinvestita nei mercati speculativi, in particolare nell’acquisto di titoli di stato italiani, spagnoli, irlandesi ecc., oggi acquistabili a prezzi molto ridotti. Non stupisce a fronte di questa situazione il fatto che i differenziali tra i tassi d’interesse (spread) si siano ridotti e gli indici azionari abbiano ripreso a salire.
In terzo luogo, occorre ricordare che il Fondo Europeo Salva Stati e il FMI come contropartita delle politiche di austerity hanno concesso un nuovo prestito di circa 130 miliardi di euro alla Grecia, esclusivamente finalizzato a garantire (dietro commissariamento europeo del bilanco pubblico greco) il pagamento degli interessi promessi sui nuovi titoli di Stato allo stesso sistema bancario.
Sulla base di queste considerazioni, si può facilmente comprendere come lo swap greco, apparantemente sfavorevole alle banche europee, sia stato in realtà una grande affare. Tutto bene, dunque? Niente affatto. Non ci si può infatti dimenticare che nel corso del 2011 e nell’ultima manovra finanziaria di gennaio 2012 (http://uninomade.org/politiche-dausterity-e-ristrutturazione-del-debito-in-grecia/), il popolo greco ha visto un tracollo delle proprie condizioni di vita: taglio di un terzo degli stipendi e un’età pensionabile che sale di dieci anni, disoccupazione giovanile record, che supera il 50%, svendita del patrimonio pubblico, aumento dell’Iva al 23%, taglio dei sussidi sociali, ecc., ecc. Questo il prezzo che i cittadini greci hanno pagato per la crisi che ha investito il paese. Un prezzo che è stato, quindi, imposto per una triplice finalità: garantire il pagamento degli interessi ai creditori che accettano la svalutazione dei titoli di Stato in loro possesso; consentire il nuovo finanziamento da parte del FMI e del Fondo Europeo Salva Stati; infine il commissariamento da parte del FMI dei conti pubblici statali, in altre parole la perdita della sovranità fiscale nazionale.
Il default controllato della Grecia ci insegna due cose: che un debito pubblico può essere ristrutturato se è organizzato dall’alto. E che ora si apre la battaglia perché il defaut possa essere agito dal basso. Al riguardo, lo strumento del’audit diventa imprescindibile come strumento di agitazione del conflitto.
*UniNomade