LO SPAZIO LIBERATO COME
ISTITUZIONE DEL COMUNE
\riaffermare la
socialità alternativa estendendo il perimetro sull’intero territorio
metropolitano ed avviare un processo di conversione degli spazi in luoghi vertenziali
dove far convergere le lotte. facendo emergere le nuove soggettivazioni
Ripensare
una politica antagonista, capace di creare conflitto e all’altezza dei tempi
che viviamo, significa innanzitutto ripensare gli spazi dove pratichiamo la
nostra politica. Purtroppo, l’atto di pensare nuovi modi fare politica
prescinde da questo dato di fatto (che, a parer mio, costituisce una necessità)
e l’analisi, anche laddove è acuta, resta in superficie e si scontra con la
gestione pratica “tradizionale” degli spazi. Insomma, il nocciolo duro col
quale bisogna combattere è la retorica, ormai incorporata da molt* compagne e
compagni, secondo la quale gli spazi siano immutabili e sempre uguali a se
stessi. O in altri termini, che i centri sociali debbano rimanere così come
sono, con la loro impostazione, la loro retorica, la loro organizzazione.
Peccato che, però, proprio il continuo modificarsi dei centri sociali sia il
motivo per cui questi rimangono ancora oggi gli spazi privilegiati per pratiche
autorganizzate e conflittuali nei territori.
L’analisi
contenuta ne Il Comune come modo di
produzione, che è in effetti una vera e propria genealogia dei centri
sociali1, traccia
l’evoluzione dei centri sociali dagli anni ’70 ad oggi – e prova a proseguire
questa linea, colma di discontinuità e salti, in una tendenza futura.
Ripercorrendo tale genealogia, ci troviamo fondamentalmente davanti a quattro
generazioni:
1. La prima generazione, situata «tra la
fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, può essere intesa come una sorta
di riconfigurazione dei Circoli del proletariato giovanile», di cui un
importante esempio rilevato dagli autori è quello del CSOA Leoncavallo di
Milano (1975);
2. La seconda generazione, situata negli
anni Novanta, in cui si situa il CSOA Forte Prenestino a Roma con le sue
autoproduzioni e i suoi festival, oltre che ad esempio il CSOA Corto Circuito –
altro spazio chiave in quella federazione che, a partire dal 1990, prenderà il
nome di Grande Raccordo Autoproduzioni;
3. Inoltre, a partire dagli anni Duemila, si
registra una terza generazione (si fa riferimento al Cantiere di Milano e a ESC
Atelier di Roma) che organizza le prime università popolari oltreché centri di coworking e altre esperienze di
condivisione di pratiche e saperi;
4. Infine, vi è la quarta generazione – a
partire dagli anni della crisi economica – in cui «la costruzione di commons metropolitani […] si
combina con il moltiplicarsi di sperimentazioni che mobilitano i lavoratori
della conoscenza su un terreno più specifico: quello dei teatri e dei cinema
occupati e delle fabbriche recuperate [un esempio per tutti è il Teatro Valle, NdA]2» .
Questi
passaggi, queste quattro generazioni, non sono stati possibili solo grazie
all’impegno della militanza di tanti e tante, ma soprattutto grazie alla logica
dello stare dentro le trasformazioni della società. Infatti, gli autori
motivano i vari passaggi proprio a partire dalle trasformazioni delle pratiche:
«dalla resistenza ai cambiamenti socioeconomici […], si passa alla
costruzione diretta di un’esistenza alternativa sociale possibile», poi la
centralità del «tema della produzione autonoma dei saperi e
dell’autoformazione, che si intreccia strettamente con la tematica della
riappropriazione delle istituzione del welfare»3 e poi ancora il
passaggio dallo spazio occupato allo spazio liberato.
Dunque,
ad oggi, la sfida da affrontare è quella della «conversione dei centri sociali
che, da luoghi di socialità alternativa, possono a tutti gli effetti diventare
camere del lavoro e case del mutuo soccorso»4. Non pensare e praticare questa conversione significa
marginalità ed estinzione, come suggerivano Sica e Raparelli due anni fa… e in
questi due anni ne abbiamo vista di marginalità, fin troppa in alcuni centri
sociali. La conversione non è semplice, perché non è un atto, ma un processo di
costruzione e di continua modificazione del percorso. Costruire camere del
lavoro e case del mutuo soccorso, come ESC Atelier a Roma e (seppur
differentemente) Je so pazzo a Napoli hanno dimostrato, apre la breccia che
negli anni molti spazi hanno contribuito a costruire separandosi dai territori.
Seppur sia una forma di autodifesa, questa chiusura che viene da lontano non è
riuscita né a costruire quella separazione di classe di cui si parlava anni fa
né una sorta di riserva in cui i/le militanti giocano a fare da indiani –
perché, presente o meno in città, silenzioso o rumoroso che sia, uno spazio è
sempre sotto minaccia di sgombero. Una cosa, però, questo chiudersi su se
stess* ha fatto: generare una paranoia diffusa tra compagne e compagni verso
pratiche che potessero investire i territori creando partecipazione, condivisione
attraverso un’apertura verso la città-metropoli. È ora di praticarla, questa
apertura, visti i tempi che corrono e soprattutto col ministro degli Interni
che ci troviamo.
L’apertura,
dunque, una sfida che se giocata bene si traduce in partecipazione e
politicizzazione, produzione di conflitto e promozione di pratiche di
autorganizzazione e autogestione. Sennò…
non ci si pensa, da comunist* si accetta la sfida del proprio tempo e si
alzano le barricate, ma sempre ricordandosi di non alzarle – un’altra volta –
tra noi e quelli che con noi dovrebbero lottare. Quest’apertura, che pare così
dolorosa, che è così mal vista e addirittura temuta da molt* – beh, è proprio
il momento di praticarla. Pur riconoscendo di averlo sentito centinaia di
volte, anche nelle peggiori delle occasioni, bisogna «fare rete», costruire
campagne di rivendicazione da sperimentare e declinare differentemente in ogni
territorio in cui si è presenti in base alle proprie capacità e alle proprie
affinità. E per fare questo, che i centri sociali non si chiamino più “centri
sociali” o almeno smettano di ripetere le stesse storie da anni: di laboratori
in cui sperimentare nuove forme di vita, nuovi modi di produzione – spazi
liberati dal capitale che si interroghino e pratichino una società
post-capitalistica, di questo abbiamo bisogno.
Solo
mettendo al lavoro la cooperazione, condividendo saperi e pratiche, promuovendo
autoproduzioni – solo così possiamo tradurre la volontà di cambiare questo
mondo di merda in potenza di cambiamento. Non si tratta più di immaginare una
società altra né di praticare un infinito corpo a corpo dal quale uscire sempre
e soltanto rotti, ma ancora una volta invece si tratta di entrare dentro le
contraddizioni, studiarle, viverle, farle esplodere.
Note
bibliografiche
1)
Facciamo,
qui, riferimento al paragrafo I centri
sociali come commons urbani in C. Vercellone, F. Brancaccio, A.
Giuliani, P. Vattimo, Il Comune come modo
di produzione, Ombre Corte, Verona 2017, pp.88-101
2)
Op.
cit., pp.88-96
3)
Ib.
4)
F.
Raparelli, C. Sica, “Incrociamo le braccia,
incrociamo le lotte”. Lo sciopero sociale e la nuova grammatica dei movimenti
in A. De Nicola, B. Quattrocchi (a cura di),
Sindacalismo sociale, DeriveApprodi, Roma 2016, p. 85