\ LOTTE SOCIALI E RIVENDICAZIONISMO di toni casano


La crisi è divenuta categoria ideologia, non più condizione transeunte congiunturale. Essa assurge a fonte della dottrina neoliberale-neoliberista e che vedrà nella reaganomics, di concerto con il thatcherismo, la base della concrezione imperante.


Di fronte ad ogni nuovo insorgere di movimenti di lotta che ciclicamente riproducono il conflitto sociale, molti osservatori (anche militanti di parte) ci avvertono - non sempre senza ragioni - delle delusioni possibili, dei facili entusiasmi e degli abbagli in cui il pensiero critico incorre sistematicamente, dopo le grandi narrazioni dello scorso secolo, nell’attribuire una qualche portata costituente alla soggettività del momento. Fra le cause di questa diffidenza si individua nel “rivendicazionismo” la malattia esiziale che così come avrebbe condotto nell’oblio le molte soggettività dell’ultimo novecento parimenti condurrebbe nello stesso crinale i protagonisti dei questi giorni. In altri termini, il movimento attuale, per ambire ad un ruolo storico dovrebbe essere capace di andare oltre la “lista della spesa”, altrimenti ineluttabile sarà il suo destino.
In una recente intervista Marco Revelli ha giustamente marcato una netta distanza con quanti -anche a sinistra- hanno assunto l’atteggiamento ipercritico sulle forme di insorgenza poste in essere dal movimento di questi mesi, semplicisticamente definito “studentesco”. Ci si interroga su qual è la soggettività, o meglio la “debolezza” politico-progettuale che “inevitabilmente” sfocia nella deriva inconcludente della piazza. “Tutti pronti a scandalizzarsi per il minimo gesto di devianza come se ci muovessimo in un ambiente politico-istituzionale perfetto, corretto, eticamente inappuntabile”. Concordando con Revelli noi non sappiamo se questo movimento, al di là della volontà dichiarata di proseguire le iniziative indipendentemente dalla approvazione della Riforma-Gelmini, abbia una soggettività spendibile per il futuro, nel senso che possa inaugurare una nuova stagione conflittuale che preluda a nuovi scenari politici e più avanzati assetti sociali.
Di sicuro però sappiamo che questo movimento, con sempre più consapevolezza rispetto ai soggetti passati, ha maturato e prodotto forme di partecipazione dal basso e di autorganizzazione (si pensi anche alla gestione diretta del confronto politico intessuto con la FIOM e alla stessa manifestazione nazionale autoconvocata del 14 dicembre), lasciandosi alle spalle - non sappiamo ancora quanto definitivamente - ogni formalismo politicista residuale novecentesco - in primo luogo il rapporto c.d. “avanguardia/massa”. In sostanza quanto determinatosi nella dinamica interna del movimento -i circuiti di comunicazione, le forme e gli spazi decisionali, l’elaborazione e le riflessioni collettive, ecc.- è forse ancora più importante e significativo di quanto invece rappresentato sul terreno della piattaforma rivendicativa.
Ma oltre alle critiche del disincanto che mettono in guardia dai facili entusiasmi - le riduzioni delle voci di spesa dei bilanci condannerebbero all’inefficacia i ciclici movimenti conflittuali caratterizzati da un patologico rivendicazionismo massimalista - v’è anche una critica ben più radicale e di segno opposto: il rivendicazionismo in realtà renderebbe sempre possibile l’omologazione dei movimenti che lo sostengono, anzi per altri aspetti affina il processo del controllo dominante cooptando all’interno dello spazio istituzionale la forma rappresentativa della soggettiva conflittuale, come appare evidente in tutto ciò si riflette nella storia del movimento operaio ufficiale della seconda metà del secolo scorso. Tuttavia bisogna riconoscere che se i rischi dell’omologazione sono sempre in agguato, ciò che resta non soggiogabile però è tutta quella fase costituente autonoma del processo interno alla formazione dei movimenti, incessantemente riproducibile in ogni nuova determinazione, la quale sembra raccogliere nella genealogia dei soggetti passati quella rottura originaria che lega la memoria carsica dell’antagonismo sociale.
Il punto di riferimento genealogico a noi più vicino non può che non essere quello delle lotte degli anni Sessanta/Settanta. Siamo in una epoca -quella che abbraccia la composizione di classe dall’operaio professionale all’operaio massa- in cui le lotte operaie portarono alla determinazione delle grandi conquiste sia sul terreno economico sia sul piano della legislazione sociale. Ora è chiaro che dalla fine del patto fordista – quella che fu la mediazione alta tra capitale e lavoro - e con la deregulation liberista, oramai imperante da decenni, i margini delle politiche economiche volte alla regolazione del mercato con la stimolazione della domanda aggregata (sostenuta dalla spesa pubblica) si sono sempre più ristretti. Anzi uno Stato sempre meno interventista (e soggiogato dalle dinamiche globali dell’accumulazione che sfuggono alla leva fiscale) ha favorito l’allargamento della forbice distributiva: in questo senso si parla del capovolgimento della piramide del reddito, ovvero (senza entrare nel merito tecnico degli indicatori) i due/terzi della base reddituale sono appannaggio della ristretta corporazione del capitale (per dare l’idea, dagli amministratori delegati dei grandi apparati azionari ai manager del sistema bancario e finanziario) ed 1/3 al grosso della popolazione.
Dalla crisi strutturale dello Stato-piano (cioè di quel sistema istituzionale di produzione pianificata che integrava impresa pubblica e impresa privata -“ciò che è bene per la FIAT è bene per l’Italia”, si diceva allora-, incentrato sulla manovra di politica economica e sul processo di accumulazione regolato dal riequilibrio keynesiano) s’è determinato il passaggio in cui la crisi diviene condizione feconda della ristabilizzazione della catena di comando non più articolata su scala nazionale, bensì planetaria. Lo Stato-crisi si presenta come disarticolazione delle sovranità, avrà il compito di gestire all’interno del proprio spazio giuridico le strategie dell’accumulazione globalizzata sviluppate dalle entità sovranazionali indipendenti dalla statualità e dentro cui si misurano e si scontrano gli interessi delle corporazioni nazionali o neo costituite in ordine di secondo grado (per es. Unione europea).
La crisi quindi è divenuta categoria ideologia, non più condizione transeunte congiunturale. Essa assurge a fonte della dottrina neoliberale-neoliberista e che vedrà nella reaganomics, di concerto con il thatcherismo, la base della concrezione imperante. Infatti la crisi è una costante che accompagna il corso degli ultimi decenni, nonostante sul piano della finanziarizzazione il c.d. “turbocapitalismo” ha fatto registrare indici di crescita esponenziali mai conosciuti prima dalle composizioni tecniche-qualitative del capitale industriale: il nuovo sistema dell’accumulazione globalizzata sembra reggere le cadute economiche vorticose e poter ripartire con più virulenza proprio perché della crisi ne ha fatto una fonte costitutiva. Non è un caso che di tutti i fattori della economia quello che non cresce più in valore –anche nei momenti virtuosi del ciclo- sia quello del “lavoro” o che addirittura si depaupera sempre più ad ogni battito d’ali del “crollo” che è oramai funzionale alla messa in valore della crisi.
Gli indicatori economici e sociali ci segnalano chiaramente quali sono gli effetti -e su chi soprattutto si ripercuotono- del crollo funzionale. In tutto il mondo occidentale incombe il rischio di una disoccupazione di massa, ed in alcuni paesi come il nostro questa attraversa drammaticamente le fasce della popolazione giovanile: un futuro non solo precario ma ancora più incerto in assenza totale di prospettive. Quali risposte dare al dramma vissuto dalle nuove generazioni? Ci dicono gli economisti che le politiche di pieno impiego non sono più praticabili e che la disoccupazione è una condizione subordinata all’allargamento economico del mercato verso altre attività sociali, come per esempio quella di cura (che ha già visto ampi spazi di attività riconvertiti all’economia di mercato), o nella in valore di quei beni che in atto sfuggono alla legge dello scambio, ovvero la privatizzazione dei beni comuni per valorizzarli sottraendoli per l’appunto alla comunità. Ma non solo. Ci dicono che sarà necessario pure procedere ad un riassetto del mercato del lavoro che garantisca da un lato più flessibilità e produttività e dall’altro più competitività e mobilità. Non solo quindi la forza lavoro dovrà essere più redditizia per l’investimento di capitale, ma dovrà entrare in competizione tra le singole unità in modo da garantire ora all’una ora all’altra l’impiego nella produzione.
Parlavamo prima della questione sull’inversione reddituale coincide anche con una politica sindacale imperniata sul metodo della concertazione che di fatto ha favorito il contenimento della crescita salariale e sostenuta sul fronte istituzionale da una Sinistra che in nome della modernità ha favorito l’espansione della precarietà (pacchetto-Treu) senza pensare ad una rete di tutela e protezione sociale che vige in tutti i paesi avanzati europei. Nel quadro del processo di unificazione monetaria europea l’assenza di lotte rivendicazioniste, relativamente sia al salario diretto che a quello differito, ha sostanzialmente fatto arretrare il quadro della legislazione sociale e il peso contrattuale (con la progressiva svalutazione del potere d’acquisto delle retribuzioni) che il ceto politico di sinistra era stato capace di ritagliarsi tanto all’interno dello spazio della rappresentanza istituzionale quanto nello spazio di mediazione tra le Parti sociali, facendo avanzare progressivamente le condizioni generali delle società consolidatesi nelle democrazie occidentali. L’attestazione sul limite delle resistenze concertative, come nel caso dell’inflazione programmata, quale indice di riferimento introdotto e sostenuto dai governi di centrosinistra sul terreno dei rinnovi contrattuali allo scopo di contenere la crescita salariale, nell’intento di incassare un qualche minimo risultato “realisticamente” perseguibile, ha significato non solo una sostanziale rinuncia ad un politica rivendicazionista ma anche l’aver subito una selvaggia e sistematica aggressione dei diritti sociali tutelati dalla welfare policy.
L’arretramento sul terreno del rivendicazionismo ha quindi contribuito a svilire la capacità conflittuale stessa dei movimenti che facevano riferimento all’organizzazione novecentesca, né i vari tentativi riorganizzativi che si sono prodotti -tipo il sindacalismo di base- hanno riempito i vuoti politici della nuova rappresentazione, rimanendo ancorati entro l’orizzonte tradizionale. Di fatto i nuovi soggetti non hanno trovato ancora un loro statuto politico né i vecchi si riconoscono appieno nelle tradizionali soggettività rappresentative. Anche se oggi sembra darsi una nuova possibilità, poiché per la prima volta dopo tanti anni i movimenti sembra abbiano ritrovato nuovi codici di comunicazione veicolabili su scala globale. Riusciamo in trasparenza ad intravedere quella circolarità antagonista che si era smarrita, seppur in qualche modo l’antagonismo in questi anni non sia mancato, caratterizzandosi in grandi momenti conflittuali che però procedevano per salti verticali a cui seguivano vorticose cadute in picchiata.
Alla luce della crisi globale i movimenti stanno cercando di trovare nuovi percorsi di unificazione, non a caso in questi giorni è rimbalzato nelle singole realtà il dibattito promosso dal gruppo UNITI CONTRO LA CRISI, un gruppo informale le cui molteplici anime pongono la necessità di ripensare un’alternativa al modello di sviluppo dominante, partendo dalla fondazione di una costituente dal basso. In sostanza è proprio la saldatura di questi movimenti -tra i soggetti che hanno animato il conflitto dentro il luogo principale della produzione intellettuale diffusa (l’Università) e i protagonisti della resistenza operaia contro la FIAT- e l’aver colto il nesso mistificante che contrappone l’organizzazione del lavoro salariato con la massa di non-lavoro sociale produttivo, ovvero l’infinita attività creatrice generata dalla cooperazione messa in opera nelle sue forme materiali/immateriali dalla società globalizzata.
Si badi, qui non si tratta di un recupero di quello che era stato il rapporto istaurato nell’autunno caldo, sintetizzato nello slogan “Studenti Operai uniti nella lotta”, il quale presupponeva ancora la centralità operaia nei processi di ricomposizione organica della classe. Qui siamo già ben oltre. V’è il riconoscimento di quel proletariato giovanile che aveva, sul fine degli anni settanta, preso coscienza di sé e che attraverso l’affermazione del lavoro cognitivo –una condizione produttiva ancora formalmente escludente, ma nella materialità sempre più determinante- irrompeva con forza sugli scenari novecenteschi del movimento operaio ufficiale: già nella cornice dell’operaio sociale erano stati anticipati segmenti analitici dei processi cognitivi sociali della produzione, traccianti da cui hanno attinto a piene mani le scienze sociali, mentre allora venivano guardati con sufficienza dall’alto –in particolare- da una visione oggettivistica del marxismo, di una letteratura che, al massimo, era stata capace di innovare il paradigma con la teorizzazione dell’autonomia del politico, cioè un surrogato desoggettivizzato della tradizione operaista.
Vogliamo concludere ribadendo che anche la rivendicazione materiale per il soddisfacimento dei bisogni è una condizione essenziale del conflitto. La qualità politica delle lotte si misura nella capacità di articolare piattaforme tendenti a superare il piano giuridico ottriabile, quello concessivo, per affermare invece sul piano della cogenza fondamentale il riconoscimento dei diritti soggettivi e delle prerogative inalienabili. Perciò la difesa dei diritti non è semplicemente un’attestarsi su posizioni del passato. Come stanno dimostrando gli operai metalmeccanici e la loro soggettività politica (la FIOM) ciò che è in gioco non è semplicemente la difesa del posto di lavoro, perché se così fosse il marchionnismo avrebbe sgombrato il campo da ogni ostacolo.
Con la vertenza-FIAT (che va ben oltre il comparto dell’auto proponendosi come nuovo modello di relazione contrattuale) il rivendicazionismo sta recuperando -nello spirito- quella fecondità che aveva caratterizzato il conflitto dell’operaio-massa nell’epoca fordista: ieri, con la crescita salariale come variabile indipendente dal capitale e la conquista degli spazi di autonomia in relazione al riconoscimento delle tutele collettive e dei diritti soggettivi; oggi, con la difesa e l’estensione di quei diritti e soprattutto con il riconoscimento di nuovi a cominciare dal reddito di cittadinanza -come diritto soggettivo che esula dal rapporto economico dello scambio- puntando decisamente ad una nuova costituzione dei rapporti produttivi su cui innestare processi di sviluppo che tengano conto delle sostenibilità ambientali e della qualità della vita. Ma ciò che sembra sempre più assumere maggiore consapevolezza nelle soggettività molteplici che si dispongono su questo nuovo terreno di edificazione politica è l’individuazione della centralità dei beni comuni, un ruolo fondamentale per chi pone la necessità di un modello alternativo, un tema e terreno di scontro politico fondamentale per chi pone la necessità di un modello alternativo di società.