giovedì 5 settembre 2024

LA DEMOCRAZIA ILLIBERALE

 - Suzanne Schneider -

 Israele come modello per le destre globali 

Per i conservatori di tutto il mondo, il deficit democratico di Israele è una peculiarità e non un difetto, un modello costituzionale alternativo che sfida l’universalismo liberale

In mezzo alla carneficina di massa e alla fame dei palestinesi a Gaza, è facile dimenticare il dramma politico nel mezzo del quale si trovava Israele appena un anno fa. Dopo essere salito al potere a dicembre 2022, il nuovo governo di estrema destra guidato da Benjamin Netanyahu aveva proposto una serie di riforme giudiziarie e amministrative che hanno provocato un’ondata di proteste contro il governo. Giornalisti allarmati, ex funzionari governativi statunitensi e israeliani, e le principali organizzazioni ebraiche americane hanno emesso avvertimenti cupi sul regresso democratico. Sembrava che Israele stesse andando verso una deriva autoritaria, simile a quella dell'Ungheria.

Questa interpretazione non è mai stata del tutto convincente. Mentre centinaia di migliaia di israeliani marciavano per salvare la democrazia, la maggior parte di loro si rifiutava di affrontare, o addirittura di riconoscere, l'occupazione. Un paese che mantiene un sistema di cittadinanza diseguale per israeliani ebrei e palestinesi — e che priva del diritto di voto circa il 35% della popolazione nei territori che controlla sulla base della loro identità etnica — non rientra nella definizione convenzionale di “democrazia”. Ma esiste un'idea alternativa di democrazia in voga tra i tra i sostenitori della destra globale, costruita intorno al diritto di discriminare e di privilegiare le esigenze della nazione rispetto a quelle degli individui in generale e delle minoranze in particolare. È questa versione della democrazia che ha prevalso a lungo in Israele e che i sostenitori dello Stato ebraico offrono ora come modello per i leader reazionari di tutto il mondo.

Aiutata da nuove reti istituzionali che stimolano la diffusione di idee e pratiche di destra tra conservatori israeliani, ungheresi e americani, la destra sionista ha acquisito peso ideologico e riconoscimento globale unendo il diritto legale alla discriminazione con una difesa del particolarismo nazionale, della tradizione e di altri "valori conservatori". I paladini della democrazia autocratica affermano di rappresentare un'alternativa venerabile sia al liberalismo che al fascismo; la loro visione politica si può meglio definire come etno-autoritaria. Un problema (come gli israeliani hanno iniziato a sperimentare durante la repressione delle proteste contro il governo lo scorso anno) è che gli stati costruiti intorno all'eliminazione dei nemici del popolo finiscono con il divorarsi da soli.

Sulla scia dei raccapriccianti attacchi di Hamas del 7 ottobre, la campagna di rappresaglia di Israele è riuscita a trasformare in tempi record una diffusa solidarietà internazionale in condanna. Con un numero di vittime palestinesi che, al momento della stesura di questo articolo, superano le 32.000 (il 15 agosto le autorità sanitarie di Gaza hanno diffuso la cifra di 40000 morti, ndr), la maggior parte delle quali donne e bambini, e altre centinaia di migliaia di persone sull’orlo della fame, l’assedio di Israele non ha né eliminato Hamas né liberato tutti gli ostaggi detenuti a Gaza. Anche sostenitori fedeli di Israele, come il senatore di New York Chuck Schumer, hanno iniziato a vacillare, chiedendo al Senato nuove elezioni per estromettere Benjamin Netanyahu.

In questo contesto, la relazione stretta che il Likud, il principale partito di destra di Israele, ha coltivato a lungo con i partiti conservatori di tutto il mondo si è rivelata di fondamentale importanza. Non si tratta di relazioni interstatali ufficiali – nonostante siano spesso coinvolti capi di statocxome Viktor Orbán dell’Ungheria - ma di relazioni inter-fazionali tra la destra israeliana e le sue controparti negli Stati Uniti, nel Regno Unito, nell'Europa centrale e persino in paesi del Sud globale come l'India e le Filippine. Per rispondere alla critica di Schumer, ad esempio, Netanyahu si è rivolto direttamente  ai repubblicani del Senato, una mossa che fa eco al suo intervento al Congresso nel 2015, su richiesta dell’ex Speaker della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti John Boehner.

Sebbene gli sforzi del Likud per coltivare rapporti con attivisti e intellettuali di altri paesi vadano avanti da decenni – presumibilmente a partire dalla relazione reciprocamente vantaggiosa tra il fondatore del partito Menachem Begin e il tele-evangelista Jerry Falwell negli anni '80 – la destra israeliana ha iniziato solo di recente ad offrire il particolare marchio di illiberalismo dello Stato ebraico come modello globale. Intellettuali e attivisti di destra hanno dato una nuova interpretazione al sistema politico e legale discriminatorio di Israele—nato dalla costruzione dello stato tramite conquista e spossessamento—elevandolo come alternativa al modello costituzionale liberale incentrato sui diritti e sulle libertà individuali. Yoram Hazony, autore de Le virtù del Nazionalismo e presidente della Edmund Burke Foundation, promotrice della National Conservatism Conference, scriveva in un articolo del 2015: “La costituzione universale di Rousseau e Kant è l'unica costituzione 'politicamente corretta' permessa da una certa corrente di pensiero politico radicale occidentale che attualmente è diventata di moda in Occidente”. “Questa pericolosa tradizione”, prosegue"ha fatto profondi progressi in Israele. E con essa il sospetto che il regime israeliano non sia una 'vera democrazia' e non sarà legittimo fino a quando non sarà trasformato in uno 'stato dei suoi cittadini'." Per Hazony, il deficit democratico di Israele è una peculiarità, non un difetto—un modello costituzionale alternativo che sfida l'universalismo liberale.

Degno di nota è il fatto che Israele sia uno dei soli quattro paesi al mondo a non avere una costituzione scritta. La Dichiarazione d'Indipendenza israeliana affermava che una costituzione sarebbe stata adottata entro il 1° ottobre 1948, ma né la Prima Knesset né alcun successore ha mai provveduto alla sua attuazione, nonostante ci siano stati diversi tentativi. In effetti, David Ben-Gurion, il primo ministro di Israele, era fermamente contrario all'adozione di una costituzione sia per motivi pragmatici che teorici: “Sapevo che lo Stato di Israele sarebbe nato in circostanze storiche speciali, e che avrebbe avuto dei compiti particolari che quasi nessun’altra nazione ha,” ha dichiarato in un discorso tenuto alla Knesset nel luglio 1949. “Di conseguenza, sono giunto alla conclusione che, in materia di costituzione e leggi, non possiamo attenerci alla pratica convenzionale.”

L'unica costituzione che Ben-Gurion avrebbe supportato era quella limitata a dettagliare gli elementi procedurali dello stato ("come vengono selezionati i rappresentanti della nazione, quali sono i loro poteri, come viene scelto il governo, come viene formato il governo", e così via). Si opponeva a gran voce al modello costituzionale liberal-democratico, che stabilisce diritti fondamentali e protezioni legali che non possono essere rovesciati tramite il normale governo maggioritario.

Allo stesso modo, respingeva l'idea che un'autorità suprema avesse la prerogativa di esercitare la revisione giudiziaria, scrivendo che "non c'è ragione logica per cui dovremmo [...] delegare al tribunale l'autorità di invalidare le leggi se queste leggi si oppongono alla costituzione." Infine, alludeva all’uguaglianza giuridica solo per liquidarla: "La costituzione francese parla di uguaglianza e fraternità, ma senza definire alcuna sanzione. Se un uomo non è uguale al secondo nella realtà, una frase del genere non significa nulla. È solo un bello slogan”.  Ben-Gurion era consapevole che le disposizioni costituzionali riguardanti l'uguaglianza davanti alla legge non erano la stessa cosa dell'uguaglianza effettiva, ma il suo slittamento retorico era efficace. Se le democrazie liberali non potevano garantire quest'ultima, perché preoccuparsi della prima?

Ben-Gurion non ha mai fatto riferimento diretto alla guerra per la Palestina (che è stata combattuta in varie forme dal novembre 1947 alla primavera del 1949 e ha portato non solo alla creazione di Israele ma anche all'espulsione di circa 750.000 palestinesi) né ai 150.000 palestinesi che sono rimasti all'interno dei confini del nuovo stato dopo l'armistizio. Ma non è difficile immaginare come questi fattori abbiano influenzato il suo rifiuto dei modelli costituzionali liberali.

Nell'autunno del 1948, un sionista di origine tedesca di nome Leo Kohn, che in precedenza aveva pubblicato uno studio sulla costituzione adottata dallo Stato Libero d’Irlanda, stava apportando gli ultimi ritocchi ad una proposta simile. La sua bozza di costituzione stabiliva un’uguale protezione davanti alla legge; proibiva la discriminazione sulla base della razza, della religione, della lingua o del genere; istituiva uguali diritti civici e politici nell'impiego e nelle cariche politiche; e proibiva l'espropriazione di terreni o proprietà "tranne che per scopi pubblici", a condizione di un pieno risarcimento. In breve, si trattava di una costituzione liberal-democratica, esattamente quanto Ben-Gurion rifiutava.

Tuttavia, nel dicembre dello stesso anno, il governo israeliano promulgò il Regolamento d'emergenza sulla proprietà degli assenti, creando un meccanismo legale per giustificare l'esproprio a danno dei palestinesi. Questo stratagemma designava come “assente” ogni persona non ebrea che avesse lasciato la sua casa e fosse entrata in “territorio nemico”, (che comprendeva gran parte della Palestina mandataria). Tra il 29 novembre 1947 e il 1° settembre 1948, attraverso l’applicazione del Regolamento, si è quindi verificata l’espropriazione massiccia di case e terreni palestinesi: "più di 10.000 attività commerciali, 25.000 edifici (che ospitavano a loro volta 57.000 abitazioni familiari) e quasi il 60% di tutta la terra fertile del Paese", secondo la storica Shira Robinson. Tutto ciò avvenne sulla scia dell'Operazione Hiram, una campagna militare per la conquista della Galilea centrale e settentrionale, che comportò un'altra serie di espulsioni coadiuvate da circa una dozzina di massacri nei villaggi palestinesi. Gli abitanti arabi che riuscirono a rimanere in loco furono presto sottoposti alla legge marziale, una condizione che sarebbe durata fino al 1966.

Come potrebbe uno stato che si trova su territori palestinesi confiscati sancire il diritto alla proprietà? Come sarebbe possibile, per uno stato che vede la minoranza araba presente al suo interno come il nemico, assoggettandola quindi ad un rigido sistema di legge marziale, garantire un’eguale protezione di fronte alla legge ai i suoi cittadini? Questi due aspetti non potrebbero mai conciliarsi all'interno di uno stato coloniale che privilegia il nazionalismo rispetto alla democrazia. Ben-Gurion ha espresso chiaramente questo concetto: "Preferisco essere governato da ebrei cattivi piuttosto che sottostare alla legge di raffinati non ebrei in una democrazia popolare o in un qualsiasi altro tipo di democrazia."

Per i primi decenni della sua esistenza, il deficit democratico di Israele poteva essere considerato una questione circumstanziale. Si diceva che lo stato ebraico, vivendo in un quartiere difficile, dovesse affrontare problemi che altre democrazie non conoscevano. Secondo questa logica, le violazioni dei diritti umani come la detenzione amministrativa e le demolizioni di case erano rese necessarie da uno stato di emergenza permanente. Questa giustificazione ha iniziato tuttavia a vacillare quando Israele ha firmato trattati di pace con l'Egitto e la Giordania, avviato negoziati con la Siria e ottenuto il riconoscimento da parte dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Inoltre, l'invasione disastrosa del Libano nel 1982 da parte del governo Begin e lo scoppio della Prima Intifada nel 1987 hanno galvanizzato gruppi liberali come Peace Now e stimolato discussioni intellettuali che si interrogavano se fosse arrivato il momento di mandare in pensione l’ideologia sionista e abbracciare l'equità sociale e legale. Dopo la serie di negoziati con l'OLP che hanno portato agli Accordi di Oslo, si era diffusa la speranza che Israele potesse finalmente uscire dallo stato di emergenza e diventare la democrazia liberale che Kohn aveva immaginato decenni prima.

Quest’aspirazione ha tuttavia scatenato una mobilitazione reazionaria. A metà degli anni '90, la società israeliana era divisa in due ampi schieramenti politici: quelli che trovavano insostenibile lo status quo e che supportavano non solo il processo di Oslo ma anche la “rivoluzione costituzionale” di Israele, – un paio di Leggi Fondamentali del 1992 che utilizzavano il sistema giudiziario per rafforzare i diritti e le protezioni individuali — e quelli che, seguendo un Netanyahu in ascesa, si sono irrigiditi sul nazionalismo, sugli insediamenti e sull'ineguaglianza permanente come essenza dello stato ebraico.

Il campo liberal-democratico è venuto a essere strettamente identificato con la giurisprudenza di Aharon Barak, che è stato membro della Corte Suprema dal 1978 al 2006 e presidente della Corte dal 1995 in poi. Barak sosteneva che le Leggi Fondamentali di Israele — quattordici disposizioni chiave che dettagliavano le procedure statali e garantivano alcuni diritti individuali, alcuni dei quali possono essere annullati solo con una maggioranza qualificata — dovrebbero essere considerate come una costituzione de facto. A seguito delle Leggi Fondamentali del 1992, Barak sosteneva che la Corte Suprema avesse il diritto di esercitare il controllo giudiziario e annullare leggi che violavano il principio di uguaglianza.

Per esempio, nel casoKa’adan v. Israel Land Authority (2000), la Corte ha stabilito che era illegale per lo stato discriminare tra cittadini ebrei e arabi nell'allocazione delle terre statali. Facendo diretto riferimento al principio di uguaglianza, il Giudice Barak ha citato il caso Brown v. Board of Education per affermare che “una politica di separazione ma uguale” è “intrinsecamente disuguale”. Nel concreto, la Corte ha rappresentato un freno estremamente debole al potere statale, ma casi di spicco come Ka’adan hanno contribuito alla rappresentazione della Corte Suprema come un nemico del popolo ebraico da parte della destra.

Nel 2015, Hazony scriveva che l’obiettivo di una rivoluzione costituzionale era di “oscurare, attenuare o dissipare il concetto tradizionale di Israele come Stato nazionale del popolo ebraico, al fine di rendere il Paese conforme alla teoria della costituzione universale”. Secondo Hazony, le radici di questa spaccatura erano già formate negli anni '70, quando “accademici e giuristi israeliani di spicco” iniziarono a sostenere che esisteva una contraddizione tra nazionalismo ebraico e democrazia. “Tali argomenti iniziarono a fare breccia tra i leader politici israeliani—alcuni dei quali, come l'ex Ministro dell'Istruzione Shulamit Aloni, erano disposti a sostenere pubblicamente che l'idea di Israele come stato del popolo ebraico è ‘anti-democratica, se non razzista.’”

Vista da questa prospettiva, le Leggi Fondamentali del 1992 rappresentavano una rottura nella tradizione politica sionista: “Una sentenza della Corte Suprema che dichiara esplicitamente che l'uguaglianza (e non anche sicurezza, libertà, benessere del popolo ebraico e altri valori) è il fine generale della legge israeliana, e invocando esplicitamente casi americani come Brown vs. Board of Education per dichiarare la disuguaglianza illegale in Israele, equivale all’annuncio di un nuovo ordine costituzionale.” Se venisse intesa come una disposizione costituzionale, notava Hazony, la sentenza invaliderebbe una serie di leggi — dal sistema scolastico segregato di Israele alla Legge del Ritorno e alle “politiche di sicurezza mirate a proteggere gli ebrei in tutto il mondo.”

Sostenuti dalla tesi che i tribunali stessero minando il lavoro delle IDF e delle altre forze di sicurezza durante la Seconda Intifada, gli attacchi al sistema giudiziario accelerarono nel 2007, quando l'ex Ministro della Giustizia Daniel Friedmann lanciò diverse iniziative per limitare il potere della Corte. Centrale in questo sforzo è stata la trasformazione della natura dei giudici — la maggior parte dei quali proveniva dall'élite laica ashkenazita dello stato — attraverso un'attenta selezione che sarebbe risultata familiare a chi è abituato ad osservare la Federalist Society. Nel 2019 l'ex Ministro della Giustizia Ayelet Shaked — che durante il suo incarico nominò quattro giudici conservatori alla Corte Suprema — si vantava di come le pratiche di selezione avessero portato a una “rivoluzione conservatrice” all’interno dei tribunali di tutti i livelli (oggi, gli analisti divergono sul numero esatto di magistrati liberali all’interno della Corte Suprema, ma concordano che si aggiri tra i cinque e i sette dei quindici totali). Lungi dal rappresentare un'importazione ungherese, la riforma giudiziaria del 2023 è stata il culmine di questa lunga lotta contro la democrazia liberale israeliana, di fatto nata già morta.


Il reciproco rapporto di ammirazione tra Orbán e Netanyahu è iniziato nel 2005, quando si sono incontrati per la prima volta a Gerusalemme. Orbán, allora leader dell'opposizione in Ungheria, e Netanyahu, che ricopriva il ruolo di ministro delle Finanze, hanno legato grazie ad una comune antipatia per i loro critici liberali e di sinistra. A quanto si dice, Orbán considerava lo sprezzante Netanyahu non solo un partner ideologico, ma anche un esempio da seguire. Per citare Andras Dezso, “quando Orbán e Netanyahu hanno perso le elezioni parlamentari nel 2006, Fidesz e Likud erano già riconosciuti come partiti fratelli”.

Come delineato da Szabolcs Panyi in un reportage pubblicato dal centro di giornalismo investigativo ungherese Direkt36, questa partnership è ideologica tanto quanto strategica, ed ha portato vantaggi considerevoli ad entrambe le parti. L’Ungheria ha cambiato radicalmente direzione nelle sue politiche relative al Medio Oriente, diventando il più accanito sostenitore europeo di Israele, ponendo per esempio il veto alle risoluzioni di cessate il fuoco e alle sanzioni dell'UE (di recente, nel caso riguardante i coloni in Cisgiordania). Inoltre, Orbán ha contribuito a rafforzare i legami dello stato ebraico con il più ampio Gruppo di Visegrad, che include Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca, stati che sono a loro volta diventati alleati affidabili. Da parte sua, Netanyahu ha aiutato Orbán a farsi strada all’interno dell’establishment repubblicano negli Stati Uniti (ha contribuito nel 2019 a fissare un incontro tra il leader ungherese e Donald Trump) e respingere le accuse di antisemitismo. Il Likud ha inoltre aiutato il movimento Chabad-Lubavitch, ideologicamente allineato, a stabilire una presenza in Ungheria e a fungere da contrappeso favorevole al regime rispetto alla Federazione delle Comunità Ebraiche Ungheresi (Mazsihisz), stridente oppositrice del governo Orbán.

È particolarmente significativo il supporto materiale fornito da rappresentanti del Likud alla campagna diffamatoria portata avanti dall’Ungheria contro George Soros, da tempo disprezzato dalla destra israeliana alla luce dei finanziamenti dell’Open Society Foundation verso ONG di sinistra come Breaking the Silence, Adalah, e il New Israel Fund. Sono stati in particolare i consiglieri politici ebreo-americani conservatori Arthur Finkelstein e George Birnbaum a fungere da principali artefici della campagna anti-Soros in Ungheria.

Finklelstein si era costruito una fama come consulente dei candidati presidenziali repubblicani, prima di contribuire alla prima vittoria elettorale di Netanyahu nel1996. Birnbaum è successivamente diventato il capo di stato maggiore di Netanyahu. Nel 2008, quando Orbán ha deciso di ricandidarsi, Netanyahu lo ha presentato a Finkelstein, che ha quindi costruito la teoria cospiratoria di Soros come burattinaio nemico. Quando l’ambasciatore israeliano in Ungheria ha criticato questa campagna nel 2017 – una mossa che sembrava aver colto di sorpresa Likud – è stato costretto a ritirare le sue dichiarazioni.

Nel 2015, il Likud ha dato mandato al militante del partito Tamir Wertzberger di migliorare il coordinamento tra i due paesi. Nel mezzo della crisi di rifugiati in fuga dalla guerra civile siriana e dal nascente Stato Islamico, l’islamofobia condivisa ha contribuito a cementare il legame tra Ungheria e Israele. Utilizzando le parole di Wertzberger, da un lato, gli europei stanno finalmente iniziando a capire Israele, cosa significhi per un paese occidentale convivere con i musulmani. D’altra parte, la migrazione ha fomentato un serio dibattito tra l’Ungheria e l’Unione Europea. Israele è da lungo in conflitto con l’UE, e quando i due paesi si sono improvvisamente trovati sulla stessa lunghezza d’onda, è diventato molto più semplice per l’Ungheria supportare le posizioni israeliane.

Secondo quanto riferito, l’Ungheria si è persino rivolta a Israele per chiedere consigli sulla costruzione di una recinzione al confine che tenesse lontani i migranti.

Al centro della convergenza ideologica tra Ungheria e Israele c'è un’ossessione per l’omogeneità etnica come base dello stato. Come ha scritto in un tweet lo scorso anno Gaudi Taub, commentatore di destra israeliano ed ex visiting fellow presso l'università prediletta di Orbán, il Mathias Corvinus Collegium (MCC), “oggi, l’Europa orientale racchiude il vero spirito della cultura europea”, in quanto “le migrazioni hanno reso irreversibile la situazione nell’Europa occidentale. Mischiare le popolazioni – cultura musulmana e cultura europea – non funzionerà”. Tali affermazioni hanno ovvie implicazioni sulle politiche migratorie e di confine, ma colpiscono anche la possibilità di stati multi-etnici uniti da qualcosa di diverso rispetto al sangue comune. Tali stati sono, secondo i sostenitori contemporanei del nazionalismo, intrinsecamente instabili, in quanto l’identità civica non può rimpiazzare l’appartenenza ad un’unità nazionale basata sulla razza. Questa argomentazione ha indubbiamente reso il sionismo attraente per i reazionari di tutto il mondo – dall'autoproclamato “sionista bianco” Richard Spencer agli ideologi dell'Hindutva in India.

Una nuova serie di istituzioni si sta rivelando cruciale nella congiunzione della storia locale israeliana alla destra globale. Tra queste l’Israel Law and Liberty Forum (fondato nel 2020 dal Tikvah Fund, in cooperazione con la Federalist Society), il Kohelet Policy Forum, il Jerusalem Center for Public Affairs, e ovviamente la Edmund Burke Foundation di Hazony. Strutture come queste collaborano di frequente in conferenze, pubblicazioni, e tentativi di lobbying con attori conservatori più affermati all’estero, come la rinata Heritage Foundation, il MCC, e il Danube Institute (fondato da Fidesz). Tutto ciò mentre il loro personale e i loro collaboratori si scambiano continuamente le poltrone a livello globale.

Per avere un’idea di come idee e pratiche attraversino i circuiti conservatori, consideriamo il caso di Eugene Kontorovich, professore alla Antonin Scalia School of Law della George Mason University e Director of International Law per il Kohelet Policy Forum. Kontorovich a a lungo condottto campagne contro la Corte Penale Internazionale, si è opposto alle restrizioni dell’UE al commercio di prodotti israeliani provenienti dai territori occupati, e ha sostenuto che gli insediamenti in Cisgiordania non violano la Convenzione di Ginevra. Di recente, è intervenuto sia al MCC che alla conferenza del 2022 della CPAC a Budapest. Nel 2023, ha presentato un parere amicus curiae al Tribunale Costituzionale polacco critico della Convenzione di Istanbul, una politica del Consiglio Europeo con l’obiettivo di contrastare la violenza contro le donne ed altre forme di abuso domestico; ha inoltre redatto le argomentazioni legali contro la Convenzione in Israele (il governo Netanyahu ha annunciato che non la ratificherà). Non contento del suo ruolo in soli due continenti, Kontorovich ha aiutato nella stesura della bozza di una legge statale e federale che criminalizzasse il movimento Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni BDS negli Stati Uniti.

Questa rete globale di istituzioni, politici, e intellettuali evidenzia una certa ironia rispetto i nazionalisti del ventunesimo secolo: sono i nuovi internazionalisti, sono i nuovi internazionalisti, superando di gran lunga la sinistra in termini di coordinamento politico oltre i confini.

Nel 2019, Hazony è stato ospite di Orbán a Budapest. Secondo il resoconto fornito dall’ufficio del primo ministro, "il famoso autore conservatore" aveva dimostrato che "il nazionalismo è un principio fondamentale ragionevole secondo il quale la miglior forma possibile di governo possibile a livello mondiale è quella in cui le nazioni sono libere di determinare indipendentemente le proprie direzioni, di preservare le loro tradizioni e di aspirare all'affermazione dei propri interessi nazionali senza alcuna interferenza esterna."

Il lavoro di Hazony è forse meglio interpretato come un tentativo retroattivo di costruire una rispettabile genealogia teorica per pratiche che erano già state stabilite da politici e governi di destra. Il suo modello di democrazia conservatrice, evidentemente ispirato al contesto israeliano, mette in discussione “la supposta ragione universale dei giudici” e respinge i “giudizi delle organizzazioni internazionali” senza "nessuna lealtà verso popolazioni nazionali specifiche che potrebbero frenare le loro teorizzazioni infondate sui diritti universali”. Israele ha ignorato a lungo i giudizi di organismi internazionali come le Nazioni Unite, l’Unione Europea, e la Corte Penale Internazionale; Hazony conferisce a questa resistenza una sostanza ideologica, identificando tali istituzioni con forze imperialiste che cercano di minare le culture e le tradizioni degli stati nazionali. Il problema non è più che i diritti umani universali siano irrimediabilmente astratti (secondo la critica di Edmund Burke) o praticamente impotenti (secondo quella di Hannah Arendt), ma che siano diventati qualcosa di molto più sinistro: il nemico del popolo.

L’orrendo attacco di Israele contro Gaza ha dimostrato che i “nemici dello stato” rappresentano una categoria molto ampia, che per molti ha iniziato ad includere neonati, operatori umanitari stranieri e giornalisti, tra le migliaia di altre vittime. All'interno di Israele, la Corte Suprema ha confermato  una legge che vieta manifestazioni contro la guerra.“Nonostante l'alto status accordato al diritto di manifestare e riunirsi,” si legge nella decisione, “esiste una realtà complessa nella quale ci troviamo, che influisce sul modo in cui vengono tracciati gli equilibri a riguardo.” Dalle “circostanze storiche speciali” di Ben-Gurion alla “realtà complessa” di oggi, i leader israeliani hanno a lungo sostenuto che le normali regole della democrazia non si possono applicare.

Il 7 ottobre ha sottolineato i limiti del vivere in questo stato di emergenza costante – una conclusione che non è sfuggita agli esponenti della sinistra interna al paese – tuttavia ci vorrà un riorientamento politica quasi inimmaginabile per realizzare un Israele genuinamente democratico.  Il modello liberal-democratico che era sembrato brevemente a portata di mano si basava sull'attuazione di una soluzione a due stati, che arrivati a questo punto è più simile a una diplomazia zombie che a un piano praticabile per la pace. Consolidare la realtà di uno stato unico attraverso il continuo insediamento e l'implementazione di qualcosa di simile al piano per l’autonomia proposto da Menachem Begin mezzo secolo fa – che prevederebbe un qualche tipo di meccanismo per l'autogoverno locale, senza tuttavia estendere la cittadinanza israeliana alla popolazione palestinese, né permettendo uno stato sovrano palestinese – sembra oggi un esito molto più probabile.

Se questa innovazione nell'illiberalismo dovesse realizzarsi, non c'è dubbio che il mondo sarà spettatore —alcuni di noi con orrore, ma altri con ammirazione.


Articolo di Suzanne Schneider, pubblicato nel numero della Primavera 2024 del magazine Dissent; traduzione Emma Purgato

Suzanne Schneider è direttrice aggiunta e membro del corpo docente principale presso il Brooklyn Institute for Social Research e Visiting Fellow al Kellogg College, Università di Oxford. È autrice di Mandatory Separation: Religion, Education, and Mass Politics in Palestine and The Apocalypse and the End of History: Modern Jihad and the Crisis of Liberalism

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