- ∫connessioni Precarie -
Abolire l’odiato reddito, restaurare l’antica famiglia
Il “Decreto lavoro” è legge.
Ma in che senso dovremmo parlare di un decreto lavoro?
A ben guardare, di lavoro si parla molto poco in questo decreto, mentre si parla molto di sussidi, sgravi, crediti d’imposta, benefits; agendo di fatto senza trasformare di una virgola l’impianto normativo del mercato del lavoro. La misura simbolo del modo con cui questo governo intende punire e riportare all’ordine qualche milione di lavoratrici e di lavoratori, migranti e non, è infatti la cancellazione dell’odiatissimo Reddito di cittadinanza (Rdc). Essa dimostra che questo governo sta ostinatamente cercando di sottrarre quelle quote di potere sociale e di autonomia che le diverse forme di salario indiretto, seppur frammentate, avevano garantito durante la crisi della riproduzione sociale amplificata dalla pandemia. Lavoratrici e lavoratori sono ritenuti colpevoli di essersi più o meno sottratti durante la parentesi pandemica al comando del salario grazie a un welfare ritenuto eccessivamente generoso e che adesso va non solo ridimensionato, ma sempre più condizionato alla disponibilità di sottomettersi a un rapporto di lavoro.
Il provvedimento cardine di questo decreto è senz’altro la sostituzione del Rdc con l’Assegno d’inclusione (Adi) e il Supporto per la formazione e il lavoro (Sfl), una mossa che rende ancora più stringente quel circuito lavoro-formazione-welfare, differenziando però ulteriormente tra poveri “meritevoli” e non, mentre diminuisce la somma di denaro considerata sufficiente per riprodurre la propria forza-lavoro. E infatti, se il Rdc era rivolto a tutti i nuclei familiari secondo criteri di residenza e di reddito, l’Adi aggiunge come requisito la presenza nel nucleo familiare di almeno un minore, o un disabile, o un anziano con più di 60 anni d’età. In altri termini, il requisito della presenza di un “inoccupabile” nel nucleo familiare deve scongiurare la possibilità che i soldi ricevuti possano essere usati per rifiutare la dipendenza da un padrone.
La logica di fondo è quella di inasprire la coercizione al lavoro per i percettori di sussidi: per il richiedente Adi che considerato occupabile vale l’obbligo di accettare qualsiasi lavoro a tempo indeterminato (part-time incluso se almeno al 60%) niente di meno che su tutto il territorio nazionale, o a tempo determinato entro 80 km dalla residenza. Anche la “scala d’equivalenza” con cui stabilire l’importo del sussidio penalizza i nuclei familiari in cui sono presenti più occupabili: mentre il moltiplicatore utilizzato per calcolare Rdc era basato unicamente sul numero di maggiorenni (+0,4) e minorenni (+0,2) presenti nel nucleo familiare, quello previsto dall’Adi attribuisce punteggi differenziati sulla base del numero di componenti con disabilità (+0,5), over 60 (+0,4), con carichi di cura (+0,4), minorenni (+0,15 fino al secondo figlio, +0,10 oltre il secondo). L’impianto familistico con cui era stato concepito il Rdc, che assumeva e formalizzava la famiglia come nucleo fondamentale della riproduzione della società, viene qui riproposto in forma ancora più stringente e palese, stabilendo di fatto le quote di salario indiretto con cui garantire il lavoro di cura svolto perlopiù dalle donne. Inoltre, come il Rdc anche l’Adi pone tra i requisiti la continuità della residenza non solo di chi ne fa domanda, ma anche del o della coniuge, un criterio che svantaggia le famiglie di migranti, nonostante si accorcino da 10 a 5 anni gli anni di continuità richiesti seguendo le indicazioni del Tribunale europeo.
Per chi perderà il Rdc la magra alternativa sarà il Sfl: un assegno della durata massima di 12 mesi e dell’importo medio di ben 350€, condizionato al fatto che il lavoratore occupabile ma inoccupato si iscriva a corsi di formazione per riqualificarsi. In linea con le direttive europee sul re-skill e l’up-skill, lavoratori e lavoratrici poveri potranno cioè accedere al sussidio ubbidendo all’imperativo ormai consolidato che lega lavoro e formazione all’insegna della transizione gemella, verde e digitale. Insomma, il governo interviene sì sul lavoro, ma solo per imporre alla forza lavoro, tramite il salario indiretto, di accettare le rinnovate esigenze post-pandemiche del capitale o, come piace dire a loro, “per fare incontrare domanda e offerta di lavoro”.
Continueremo a seguire passo dopo passo, come questo governo – in questo in piena sintonia con l’Unione europea – stia imponendo una violenta coazione al lavoro. L’aumento del numero degli occupati viene registrato trionfalmente, ma nulla si dice dell’aumento inesorabile del prezzo che milioni stanno pagando per riprodurre la propria esistenza. Ancor meno si dice dei salari che ostinatamente non aumentano. Lavoro. Maledetto lavoro.