domenica 30 luglio 2023

IL RESIDUO COLONIALE DELLA MACCHINA STATALE

-Vincenzo Di Mino -
Recensione a  
"Né coloni né nativi" di Mahmood Mamdani 

Che relazione esiste tra il colonialismo e la nascita dello Stato-Nazione alle origini della modernità occidentale? È possibile decolonizzare il politico o - rovesciando il piano - «politicizzare il residuo coloniale» della macchina statale?

Riflette su tali questioni di fondo Vincenzo di Mino che legge il volume di Mahmood Mamdani, Né coloni né nativi. Lo Stato-nazione e le sue minoranze permanenti (Meltemi, Roma 2023, p. 516, euro 25,000). Nelle conclusioni, ci ricorda, opportunamente, che il «processo di decolonizzazione che l’autore immagina deve sboccare nella costruzione di una collettività politica in cui le differenti identità di classe, di genere e di razza sono connesse l’una all’altra nella pratica critica delle strutture della governance», una pratica che non promette «la libertà assoluta o il patchwork delle differenze, ma un percorso lungo, tortuoso e necessario [che] può aprire la strada a percorsi di governo capaci di erodere e destrutturare materialmente la forza corrosiva della macchina statale»

Lo Stato-Nazione è, senza ombra di dubbio, sinonimo di via occidentale alla modernità. La sua storia e le sue trasformazioni hanno segnato le pagine degli eventi storici, delle rivoluzioni e delle lotte. Esso continua ad essere il faro di una certa idea di civiltà, l’operatore intorno a cui si è articolato uno specifico processo di civilizzazione, legato alla stabilizzazione di una grammatica costituzionale e modulata attraverso i diritti individuali e la rappresentanza politica. Questo è stato, ed in qualche modo continua ad essere, la matrice universale della costruzione di uno standard minimo per accedere al consesso internazionale. La diffusione su scala globale di questo modello si è appoggiata sulle politiche coloniali e imperialiste delle maggiori potenze politiche. Si può serenamente affermare che il processo di colonizzazione è stato, infatti, un processo di statizzazione, di diffusione della cultura politica e giuridica dell’occidente nel resto del mondo. Lo Stato coloniale si è strutturato nella più classica tradizione del pensiero politico europeo: con Hobbes, si è manifestato come potestas sovrana assoluta, in grado di produrre unità politica; con Weber, si è fatto detentore monopolistico del consenso attraverso la violenza; con Schmitt ha trasformato la dialettica polemica della guerra civile in uno standard quotidiano. Dai margini geografici e politici, lo Stato coloniale e post-coloniale ha evidenziato i limiti della democrazia, per come essa è quotidianamente intesa, quale regno delle «libertà apparenti». Per usare i termini di Wallerstein, nei contesti semi-periferici e periferici, la democrazia si è storicamente mostrata come tirannide di una minoranza dotata delle risorse a scapito della maggioranza alla mercè delle continue emergenze politiche e sociali. In questo senso, si può parlare di un doppio standard di civilizzazione dello Stato, che in Occidente ha preso le sembianze del foucaultiano regime biopolitico e altrove ha mostrato il suo volto ferino o, per dirla con le parole di Achille Mbembe, necropolitico.

Mahmood Mamdani in Né coloni né nativi. Lo Stato-nazione e le sue minoranze permanenti, analizza le varie modulazioni dello Stato in differenti contesti e temporalità, dalla nascita degli Stati Uniti alla questione israelo-palestinese. L’autore mette al centro dello studio il politico come macchina binaria, che opera contemporaneamente attraverso l’appropriazione e la produzione di spazi specifici, soggetti alla propria autorità, e per mezzo di differenziazione e classificazione di popoli e territori. Coloni e nativi sono le due facce di un identico processo di costruzione della statualità, ovvero l’imposizione dall’alto degli standard democratici e l’identificazione di alcune specifiche categorie soggettive. Il colono diventa soggetto di imputazione delle garanzie costituzionalmente riconosciute, sulla scia dell’antropologia lockiana del cittadino-proprietario che è allo stesso tempo soggetto agente e soggetto sottoposto al regime legislativo vigente. Il nativo, invece, viene inquadrato sotto le lenti del «buon selvaggio», ovvero come soggetto che necessita di uno specifico inserimento differenziale all’interno dei circuiti di governo. In questo senso Mamdani considera la violenza non come eccezione storica ma come elemento storicamente fondato nella storia dello Stato, tanto nelle sue evidenze microsociali quanto in quelle internazionali. La violenza del colono è la violenza della civiltà, ma anche la violenza di chi resiste, con mezzi legali o mezzi socialmente legittimi.

Dando valore politico alla violenza, Mamdani la usa per mettere in discussione la costituzione coloniale e post-coloniale della statualità, e per sottolineare i limiti di un mero approccio formalistico e legalitario alla questione delle minoranze. Senza caricarle di significati ulteriori, le minoranze etniche e razziali sono per Mamdani la materializzazione del residuo coloniale dello Stato, ovvero espressione dell’incapacità delle classi politiche della costruzione di una struttura in grado di pacificare le differenti soggettività e offrire garanzie giuridiche e sociali erga omnes. Le minoranze permanenti, infatti, sono quelle categorie di soggetti poste ai margini della vita politica, private della loro forza rappresentativa, esposte costantemente alla mercè della punizione. La storiografia post-coloniale, però, ha abbondantemente dimostrato come queste minoranze non siano rimaste sul proscenio della storia come vittime sacrificale, che non abbiano cioè accettato il ruolo di «sacertà» che parte dell’intellettualità critica e delle forze governamentali e umanitarie assegna loro, ma che abbiano scritto le proprie storie attraverso il conflitto, l’antagonismo asimmetrico e la costruzione di spazi di autogoverno. Prendere sul serio la dimensione storicamente fondativa della violenza, infatti, consente di guardare alla storia delle minoranze integrando e superando il concetto «polifonico» di agency, declinandolo su un versante più pragmatico e anche più scivoloso, non necessariamente positivo ma radicato nella materialità della composizione soggettiva.

La critica di Mamdani si rivolge contemporaneamente ai due termini chiave che compongono il lemma Stato-Nazione: allo Stato in quanto unità territoriale stabilizzata attraverso la violenza e come vettore delle violenze diffuse; alla Nazione come riduzione all’unità etnica, razziale a politica. Il rischio di questa critica è quello di ricadere in un semplice relativismo culturale, che in realtà funziona come supplemento di stabilizzazione delle coordinate etniche della sovranità statale. In questo senso, il percorso di vita dello Stato-nazione fino ad oggi è stato caratterizzato da violenza ed esclusione, specie in periodi di crisi, in cui Auschwitz non è una eccezione, una stortura nel suo processo di autoaffermazione come elemento in grado di terminare la Storia ed affermare la libertà umana, ma è una regola costante. Contro Arendt, e con Cesaire, si può senza ombra di dubbio affermare che Auschwitz materializzò in Europa e nei teatri di guerra occidentali quel tipo di violenza totale che i colonizzatori avevano da sempre esercitato contro i colonizzati. Per questo, di nuovo contro le posizioni della filosofa, critica di alcune derive dello Stato-Nazione ma ancorata al suo immaginario progressista ed illuminista, una politica dei governati e delle minoranze non può che darsi contro lo Stato: potere contro potere, forze contrapposte materialmente radicate. Rimettere in discussione questo regime binario del politico permette, al contempo, di rileggere il rapporto tra lotte di liberazione rivoluzionarie e involuzioni termidoriane, come nei differenti casi delle lotte di decolonizzazione e nelle lotte delle «primavere arabe» in Egitto, Tunisia e Siria, interrogando anche il ruolo della religione come fattore di unificazione delle minoranze e la sua successiva trasformazione in instrumentum regni. Mamdani interroga tutte queste varianti attraverso un minuzioso lavoro comparativo tra diversi processi di statizzazione ed esclusione, usando tre linee di demarcazione storiche: la fondazione degli Stati Uniti d’America, usata come modello universale della doppia governance; il processo di Norimberga, come tentativo fallimentare di amministrazione globale della giustizia in seguito alla seconda guerra mondiale, operazione antelitteram di «washing» della cattiva coscienza coloniale dalla tipica anima bella del liberalismo occidentale; la riconciliazione sudafricana degli anni Novanta, eletta dall’autore come modello per andare oltre la divisione. Questi tre eventi valgono come veri e propri ideal-tipi storici, griglie analitiche con cui interpretare i casi proposti e analizzare, in filigrana, lo statuto e la validità storica delle funzioni dello Stato oggi.


Lo Stato come macchina di appropriazione

La sovranità politica statale si fonda sulla definizione di un limes, di un limite che separa le comunità. Con Schmitt e Marx, la sovranità stessa viene fondata su due movimenti connessi e distinti: ad un primo momento di appropriazione dello spazio segue quello di produzione dello spazio stesso e delle dinamiche sociali ad esse connesse. A partire da queste condizioni di possibilità, l’individuo acquisisce il proprio statuto ed il proprio senso scambiando la propria libertà in cambio della sicurezza, elemento centrale della prestazione sovrana. La garanzia della pax sovrana si costituisce sull’assorbimento e la neutralizzazione continua delle eccedenze, ovvero delle minoranze irriducibili al potere centralizzato. Se queste, per sommi capi, sono le tappe del modello principale di state-building, Mamdani le considera in riferimento ai casi analizzati nel libro. Emergono due tipologie differenti: da un lato la dinamica eccezionalista della fondazione dello Stato, come nel caso americano o in quello israeliano; dall’altro le macerie delle guerre civili durature lasciate dai processi di decolonizzazione sacrificati sull’altare degli equilibri geopolitici e alimentate dal razzismo delle élite al potere. L’autore introduce un termine fondamentale per inquadrare entrambe le varianti, che è quello di «governance indiretta». Questa è la modalità di governo ideale nella gestione dei processi di transizione, perché permette di implementare una doppia modalità operativa di gestione dell’ordine costituito: da una parte vi sono le leggi ordinarie, le costituzioni e le norme che hanno valore erga omnes, dall’altro le abitudini e le leggi tradizionali di ogni minoranza, gerarchicamente inferiori ma in grado di garantire coesione sociale e, soprattutto, obbedienza e pacificazione. Come già aveva capito il giurista britannico Henry Sumner Maine, il doppio livello di governance permette alle strutture governative di amministrare le minoranze razziali, implementando forma di colonialismo interno, che ne rafforzano la «differenza» e ne cristallizzano lo status minoritario. Nel caso delle guerre civili (come quella Sudanese) o dell’apartheid sudafricano, questa forma di governance indiretta tende a riprodurre i residui delle strutture coloniali e a esacerbare i contrasti e i conflitti esistenti. Gli elementi su cui si fonda questo tipo di governance sono da rintracciare nelle differenti linee di differenziazione etniche e tribali presenti nelle singole società, nella latenza delle faide e nella costruzione di confini interni. La dimensione tribale della faida, che come ha evidenziato nei suoi studi sulla genesi della struttura statale europea Otto Brunner, è l’elemento fondativo della sovranità che i coloni o i nativi rivendicano, e in questo senso essa può essere considerata elemento originario e fondativo delle costituzioni giuridiche e degli assetti politici per cui la minoranza-hostis deve essere ridotta al silenzio e confinata in specifiche strutture. Tutti i casi analizzati da Mamdani presentano gruppi sociali che avocano a sé funzioni costituenti e costitutive, e minoranze native che possono difendersi, essere parzialmente integrate attraverso specifiche procedure, o essere esposte alla violenza e allo sterminio da parte dei vincitori. Il processo di integrazione delle minoranze native comincia infatti con l’appropriazione delle sue terre, continua con la sua messa al bando dal consesso civile e procede con la sua esiziale partecipazione alla vita politica collettiva, sempre attraverso limitazioni dovute alla razza o alla capacità politica stabilita legislativamente. Di conseguenza, l’elemento di maggiore visibilità del residuo coloniale della macchina statale è la riserva, ovvero il mantenimento della minoranza in uno specifico spazio delimitato, a cui viene concessa autonomia limitata per quanto riguarda la gestione dell’ordinario. Riserve, Bantustan, campi di detenzione, insediamenti coloniali rappresentano le forme materiali di questo insieme di pratiche di inclusione differenziale. Così, tutte le narrazioni sulla genesi dello Stato in seguito a feroci conflitti armati si presentano come democratiche perché riconoscono formalmente l’uguaglianza a tutte le soggettività, rimuovendo fattivamente la natura coloniale del processo di democratizzazione dentro e fuori lo scacchiere europeo ed occidentale, e anzi accentuando il proprio carattere inclusivo sottolineando gli spazi concessi alle minoranze. Ma è proprio la concreta banalità del male di questa esclusione calcolata la miccia che fa detonare elementi come lo sterminio, la secessione e la riproduzione, su scala sempre minore, delle stesse logiche di dominio. Mamdani individua, nei singoli casi, le differenti linee di divisioni interne alla costruzione del sociale, ovvero quella della civiltà, fondata nell’opposizione tra chi si fa alfiere della modernità civilizzatrice e chi viene costruito come colui che la rifiuta; nella narrazione di una differenza geografica tra Nord e Sud; nella politicizzazione delle fratture religiose, che in assenza di un sentire politico diventano vettori di conflittualità; nel tribalismo, il riconoscimento della superiorità di una etnia sull’altra. Questi elementi si muovono sempre all’interno della grammatica statale, e dunque alimentano velleità politiche di pacificazione da ottenere attraverso le baionette di eserciti, patrioti e milizie. In questo senso, il concetto di autodeterminazione viene ridotto alla proclamazione di indipendenza dallo Stato precedente e prelude alla costruzione di un nuovo Stato, che continuerà a portare le tare e i limiti del precedente. Il gioco politico viene ridotto a un conflitto armato di minoranze auto-riconosciutesi su base razziale e religiosa a scapito della popolazione, il più delle volte vittima inerme in balia delle faide. Mamdani illustra con abbondante dovizia di particolari analitici il fallimento dello Stato come macchina di appropriazione e divisione: nel caso statunitense e israeliano, la progressiva eliminazione dei nativi e dei palestinesi dalla scena pubblica ha rafforzato la struttura coloniale della democrazia politica; nel caso del Sudafrica, la continuità del razzismo e delle politiche di violenza nei confronti della popolazione nera; nel caso del Sudan, una divisione territoriale che ha comunque riprodotto le stesse dinamiche di faida e guerra civile.


Una certa idea di giustizia: giustizia politica e riconciliazione

Dopo la guerra, la pace. Questa banale invariante storica è il secondo vettore di analisi del volume. Gli elementi spartiacque che Mamdani usa sono espressione di due differenti varianti della produzione di giustizia come tentativo di sutura alla fine di un conflitto. Norimberga mise in scena la giustizia come composizione degli interessi delle potenze uscite vittoriose dal secondo conflitto globale, attente a mantenere le proprie aree di influenza e a passare, nella maniera più veloce e indolore possibile, la spugna sui crimini nazisti. La Truth and Reconciliation Commission sudafricana nel post-apartheid, al contrario, rappresenta per Mamdani un esempio concreto di come le fratture derivanti dalle violenze belliche o da quelle interne possano essere superate dando spazio e voce alle minoranze. Nei termini di una certa sociologia, la giustizia riparativa da spazio alle opzioni di «voice», ovvero di presa di parola delle vittime, e agevola i processi di riconoscimento e integrazione. In questo senso, riparare vuol dire davvero ricucire gli strappi sociali e rendere accessibile lo spazio del politico alle soggettività prima marginalizzate, così da permettergli di partecipare ai processi decisionali in assenza di una gerarchia pre-esistente (in questo contesto di stampo razziale). Il valore etico di questa idea di giustizia sta nel superamento delle pratiche di deumanizzazione che l’apartheid aveva materializzato in tutta la propria brutalità, attraverso la restituzione di una dignità politicamente fondata, che nel senso dell’autore va nella direzione di una forma di eguaglianza radicale che può mettere in discussione la stessa struttura binaria dello Stato-Nazione.

Per arrivare a questa conclusione, dalla notevole forza immaginativa, bisogna tornare a una questione accennata nell’introduzione di questa discussione: quella della violenza. Determinare la violenza - di minoranza o collettiva - come forza radicata dentro la storia e non come eccezione evenemenziale, come deviazione da un corso storico che si vorrebbe pacificato, consente di ripensare le stesse coordinate del concetto di giustizia applicata alla pacificazione nazionale. Nel contesto sudafricano, furono gli stessi attivisti (Mandela e Tutu, per esempio), a favorire la riflessione che portò la soggettività dalla lotta armata ad una più diffusa lotta condotta all’interno della società con criteri «gramsciani», con il chiaro intento di creare una egemonia discorsiva e sociale con cui intaccare il potere economico e politico dei bianchi. Differentemente, nel contesto israelo-palestinese, in cui la violenza dei settlers è all’ordine del giorno, è stata proprio la difficoltà della dirigenza palestinese nel trovare spazi di mediazione a permettere la socializzazione stessa delle pratiche di resistenza, concretizzatesi nella Prima e nella Seconda Intifada, oltre che nelle numerose operazioni di difesa nei confronti delle operazioni belliche israeliane. Senza dimenticare le pratiche di autodifesa messe in piedi dai nativi americani. Riconoscere l’endemicità storica della violenza consente di rimodulare il concetto stesso di giustizia, e Norimberga fu il caso concreto in cui prevalse la costruzione di una «giustizia politica» che andò alla ricerca di facili colpevoli e non delle cause profonde che agevolarono l’emergenza del nazismo come forza necropolitica.

A Norimberga prevalsero le ragioni dei vincitori a scapito della comprensione di un episodio della coscienza europea, che non può essere facilmente bollato come forma di «distruzione della ragione» (sebbene Lukacs, nella sua opera, ne riconosca alcune linee di tendenza effettive) ma come elemento perturbante di questo stesso spirito. Una volta pensato il nazismo come episodio circoscritto di pulizia etnica che affonda le radici nello stesso humus dei conquistadores spagnoli e dei primi coloni americani, salta completamente la maschera di ipocrisia della cultura occidentale, che non riuscì a denazificare lo spazio europeo se non con l’operazione di bandiera del processo ai gerarchi inferiori sopravvissuti. La giustizia dei vincitori, che trovò la soluzione «spettacolare» nel maxiprocesso, avrebbe voluto articolarsi sia dal lato atlantico che dal lato sovietico come forma di umiliazione e neutralizzazione della Germania, o come distruzione dello spirito prussiano-germanico. Di conseguenza, la ricerca a tutti i costi del colpevole eluse un’analisi delle cause del nazismo e più in generale della diffusione dei fascismi in Europa, interrogativo che è necessario porsi anche oggi di fronte alla avanzata ormai decennale delle formazioni neo-nazionaliste in Europa. Alla banalità di questo interrogativo consegue una risposta altrettanto banale ma incisivamente radicale: l’etica europea è da sempre e continua ad essere impregnata di un senso di superiorità morale e dalla volontà umanitaria di rappresentare una missione civilizzatrice, che solo nell’ultimo secolo le filosofie politiche anticoloniali hanno iniziato a criticare e decostruire.

In ogni caso, l’amministrazione politica della giustizia ha operato in termini riduzionisti, riconducendo al diritto pre-esistente i crimini dovuti all’enorme genocidio etnico-ideologico compiuto dal regime nazista, depoliticizzandone le cause e trasformandole in meri reati comuni. Di conseguenza, il sistema di giustizia internazionale uscito dalla seconda guerra mondiale accentuò la centralità del concetto di diritti umani di chiara fattura occidentale, appartenenti al regno delle idee e più volte violati nei contesti di conflitto civile succedutisi nell’ultimo settantennio. Neutralizzare la storicità dell’uso della forza, in breve, riconduce l’idea della giustizia al circuito dello scambio tra delitto e castigo, tra offesa e punizione, senza minimamente osservare il contesto che produce violenza (e dà spazio anche alle resistenze). Al contrario, il contesto della giustizia riparativa prova a dare voce e valore alle vittime senza essenzializzarne lo status ma cercando di ricondurlo a una idea di società in cui la scrittura a più mani della verità storica diventa esperienza di conciliazione e produzione di una società politica che può superare i limiti dell’etnicizzazione forzata e della continua divisione tra carnefici e vittime. L’ottimismo di Mamdani può trovare breccia oggi nelle rivendicazioni dei movimenti anti-razzisti che denunciano le cause, gli effetti e i costi dei processi di civilizzazione, come negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Francia e anche in Italia, che si appropriano della black box coloniale dello Stato-Nazione per renderne pubblici i misfatti e illuminare le articolazioni ancora attuali delle loro radici genocidarie. Allo stesso tempo, questo sforzo di riconciliazione e di riparazione cozza contro la griglia dello Stato e si muove nel solco della macchina democratica, intesa come macchina di produzione di condizioni eguaglianza davanti la legge e di costituzionalizzazione dei diritti delle minoranze. Decolonizzare il politico, muovendosi nel solco della statualità, diventa impresa difficile e richiede altre forme di immaginazione.


Decolonizzare il politico? Alcuni spunti

Fino a qui, il voluminoso lavoro di Mamdani ha raggiunto il proprio scopo, quello di criticare gli effetti della modernità politica presente anche nella dimensione post-coloniale e di proporre delle alternative in grado di erodere la forza di questa macchina binaria. Alcuni nodi continuano ad essere scoperti, e offrono degli spunti per immaginare davvero di decolonizzare il politico senza buttare all’aria la stessa teoria politica.

La giustizia riparativa si muove nel solco arendtiano del «diritto di avere diritti», quindi dentro la modernità liberal-democratica che continua a riprodursi pensando e classificando in termini di maggioranze e minoranze, dunque producendo e concedendo spazi di integrazioni modellati sulle esigenze delle minoranze stesse. Il rischio è quello della comunità chiusa, legata alla propria identità (politica, razziale, di genere, di classe) che riproduce gli stessi meccanismi della comunità che criticava in precedenza. L’universalismo arendtiano si scontra con il diritto che si arroga la maggioranza, spesso prodotto delle dimaniche elettorali, di determinare la soglia di accessibilità ai diritti. Nello scenario post-coloniale, come Mamdani ha dimostrato, questa stessa capacità soggettiva di accedere a un riconoscimento è striata da molteplici divisioni, rendendo difficoltoso il percorso di riconoscimento politico della soggettività razzializzata, che a sua volta costruisce una micro-comunità in cui affermare la propria esistenza attraverso l’etnia o la religione. Questo dimostra il fallimento dei processi di decolonizzazione, che come aveva facilmente predetto Fanon, preferirono chiudere i processi rivoluzionari piuttosto che affrontare i nodi problematici che quelle società ancora impregnate di colonialismo ponevano. E, a oggi, le organizzazioni religiose, strutturate come partiti, hanno assunto il peso del fallimento delle rivoluzioni per dislocare le problematiche dall’ambito politico a quello religioso, offrendo dunque una idea di libertà che corrisponde spesso alla sottomissione all’autorità religiosa di turno. L’ideologia religiosa accelera le trasformazioni termidoriane delle sollevazioni collettive, rafforzando la macchina binaria del politico come macchina di dominio ed esclusione. Il pensiero anticoloniale offre utili strumenti per criticare questo binarismo in cui il potere spirituale e quello politico vengono a coincidere. Affermando il ruolo attivo della soggettività nella dialettica storica, dando funzione politica alla violenza agita, rendendo necessario l’appropriazione delle strutture di governo per poterle erodere e superare. La rinconciliazione proposta da Mamdani apre il processo di decolonizzazione del politico mettendo in discussione le politiche dello Stato post-coloniale. Ma questo processo di decolonizzazione che l’autore immagina deve sboccare nella costruzione di una collettività politica in cui le differenti identità di classe, di genere e di razza sono connesse l’una all’altra nella pratica critica delle strutture della governance. Politicizzare il residuo coloniale, in conclusione, vuol dire portare alla luce la fragilità della struttura statale in tutte le sue varianti: ciò che promette questa pratica non è la libertà assoluta o il patchwork delle differenze, ma un percorso lungo, tortuoso e necessario, in cui la produzione di una soggettività libera dai fardelli del colonialismo strutturale e quotidiano può aprire la strada a percorsi di governo capaci di erodere e destrutturare materialmente la forza corrosiva della macchina statale.



Vincenzo Di Mino (1987), laureato in Scienze della Politica, è ricercatore indipendente in teoria politica e sociale
fonte:.machina-deriveapprodi