-Toni Casano e Antonio Minaldi-
Su gentile concessione dell’editore pubblichiamo l’Introduzione dei curatori al volume che presentiamo -editato per i tipi di Multimage (Firenze 2023, pp. 300)- al quale hanno contribuito i seguenti Autori: Ernesto Burgio, Alessandra Ciattini, Marco Consolo, Andrea Fumagalli, Gabriele Giacomini, Giorgio Griziotti, Domenico Moro, Salvatore Palidda, Francesco Parello, Francesco Maria Pezzulli, Marco A. Pirrone, Sergio Riggio, Maria Concetta Sala, Francesco Schettino, Salvo Vaccaro
Quando abbiamo programmato la serie di seminari sul “capitalismo nel terzo millennio” avevamo ben chiaro che il modello di produzione capitalistica avesse cambiato pelle e che il processo di trasformazione delle merci non potesse essere più definito secondo i parametri conosciuti nel sistema della fabbrica regolato dal “patto fordista”. Anche in Italia, con le grandi ristrutturazioni romitiane, enormi contingenti di forza-lavoro vennero esodati per far posto all’immissione di dosi massicce di automazioni del ciclo di produzione. Oltre agli incrementi considerevoli di produttività, il comando dell’impresa aveva ri-stabilizzato il regime distributivo della ricchezza riportandolo in equilibrio, secondo i canoni fattoriali della economia politica, rompendo così la conflittualità dell’autonomia operaia che avevo posto in essere una rigida indipendenza salariale.
Si
imponeva, quindi, un processo di ristrutturazione-ristabilizzazione che sanciva
la subalternità dei corpi del lavoro e il ripristino del comando dell’impresa.
Ma non solo. Dopo l’ascesa retributiva negli anni tayloristici questo processo
imperituro rappresentava il crinale da cui iniziava il versante di caduca del
lavoro tangibile e del suo valore. Infatti, da lì in avanti, la dinamica
salariale - come variabile indipendente della distribuzione capitalistica -
comincia a perdere l’incidenza che veniva direttamente impressa nel sinallagma
contrattuale dal movimento di lotta operaia. In luogo dell’affermazione di
rapporti negoziali basati sulla crescita distributiva, generata dalla
conflittualità della composizione lavoro-vivo, prendeva invece posto il
“sistema concertativo” di una rappresentanza sindacale (sempre più appendice
tecnica organica dell’impresa, basti pensare agli accordi negoziale sui fondi
pensioni), nel quale i termini economici dei rinnovi contrattuali vengono
predeterminati esclusivamente sulla base di un originale calcolo di
mantenimento dei livelli del potere d’acquisto: dapprima, dal 93, calcolati
sulla cosiddetta “inflazione programmata” governativa e, adesso, sulla base
dell’indice-IPCA, adottato a seguito del “Patto della Fabbrica” siglato dalle
“parti sociali” nel 2018, con il quale si fissano i rinnovi contrattuali al
netto dei rincari dei costi energetici. Pertanto, de facto, possiamo dire che, chiusa
la stagione degli automatismi contrattuali (disdetta della scala mobile) posti
a salvaguardia dei salari contro l’inflazione, non vi sono più state vere
relazioni sindacali, in cui fosse espressa nettamente una volontà negoziale in
difesa degli interessi del lavoro subalterno, nemmeno in ragione di un recupero
effettivo delle perdite salariali rispetto all’aumento del caro-vita.
Sulla
“indicizzazione ponderata” al ribasso applicata ai rinnovi contrattuali, con la
compiacente moderazione sindacale, va fatta risalire l’origine del percorso di
depauperamento generale delle retribuzioni nel nostro paese, percorso
d’impoverimenti al quale bisogna aggiungere quella sottrazione salariale
indiretta, consumata a danno dei lavoratori, per effetto della dilazione
estenuante dei tempi padronali nei rapporti relazionali, giacché alla mancata
osservanza delle scadenze dei rinnovi non è previsto alcuna compensazione
retroattiva né alcun minimo indennizzo, poiché i termini sono riconosciuti come
ordinatori tra le parti rappresentative, rendendo caduca la perentorietà
dell’adempimento alla scadenza dell’obbligazione.
È
perlomeno da un buon trentennio che si assiste a questo processo di
desalarizzazione e decontrattualizzazione del lavoro che, in uno con il
restringimento degli spazi negoziali, entro cui trovare il punto di equilibrio
delle compatibilità distributive della redditività economica dei fattori
produttivi, ha generato parimenti quella precarietà diffusa socialmente
insostenibile strutturando permanentemente la crisi del sistema capitalistico.
Quel
che sopra abbiamo argomentato, sostanzialmente è la risultante della
deregulation postfordista del rapporto di lavoro, ossia del processo di
depotenziamento giuridico della contrattazione collettiva, la cui sfera giuridica
generale, come abbiamo visto sempre più derogabile, si contrae per estendere la
sfera normativa dei contratti integrativi aziendali e territoriale, spostando
così gli effetti salariali prevalentemente dal piano verticale categoriale a
quello orizzontale aziendalistico, adottando parametri retributivi premiali
legati all’andamento congiunturale della singola azienda e, soprattutto, legati
ai risultati individualizzati piuttosto che collettivi. Questo era l’obiettivo
politico dichiarato della deregulation neoliberista, perseguito sin dai tempi
di Reagan e della Thachter. Ovvero: la spaccatura trasversale sul piano sociale
generale del reticolo di solidarietà della classe operaia. Questo passaggio era
la condicio sine qua non del sistema
neoliberista per imporre il nuovo corso della desalarizzazione del lavoro. Di
converso, la forbice del benessere si è divaricata a dismisura, facendo sì che
la concentrazione della ricchezza si addensasse in sempre meno mani con una
competizione individualistica sempre più selvaggia e ristretta nel “gioco
dell’ascensore” della mobilità sociale.
In
altre parole, rompere questo accerchiamento ideologico corruttivo iniziato con
la supply side economics, di cui in
nome della competizione postmodernista sono stati intrisi anche gli apparati
sindacali verticalizzati, oggi è una condizione necessaria se si pensa ancora
di poter sottrarre la chiave dello sviluppo al capitale e riprendere il
discorso sull’uguaglianza, immaginando una nuova stagione di lotte che solo un diverso
sindacalismo sociale potrà riunificare oltre l’ideologia lavorista: «In un
capitalismo che ha distrutto la forza politica della classe operaia - faceva
osservare Christian Marazzi qualche anno addietro su il Manifesto (19 settembre
2014) -, i movimenti sociali, a causa anche di una crisi ormai permanente,
hanno caratteristiche spurie. Dobbiamo quindi immaginare una lotta di classe
che si faccia carico della sofferenza alimentata dalla crescita delle
diseguaglianze».
Insomma,
per sintetizzare rispetto all’economia della nostra curatela del presente
lavoro, rispetto all’aurea resistenza dell’operaio massa, con le lotte
sviluppatesi nel corso dell’epopea fordista della produzione industriale,
abbiamo voluto approfondire il complesso dei temi emersi dalla crisi di quella
composizione di classe e su come si fosse ridefinito il conflitto sociale,
unitamente alla omologazione di un movimento operaio trasfigurato dalla sua
rappresentanza tradizionale, sia politica che sindacale (eccezion fatta per le
poche isole resistenziali – come oggi è da considerare l’ammirevole esperienza
degli operai della GKN – che ancora tentano di ripensare ad altre forme di
soggettivazione di autonomia di classe oltre la centralità operaia). Quello che
traspare dalla direzione intrapresa negli anni settanta colla autonomia del
politico, assunta dal movimento operaio storico come orizzonte prospettico statalista,
ci porta di filato all’accettazione del “pensiero unico” incarnato dal nuovo
spirito capitalistico. Cosicché la missione dell’operaio-massa di compiere quel
salto storico-politico (cioè quello di portare il lavoro-vivo dalla catena di
montaggio all’autovalorizzazione sociale) è rimasto politicamente irrisolto.
Non è tanto la questione concreta della separatezza del capitale-fisso dalla
produzione su cui vogliamo intervenire, poiché questa -potremmo dire - è stata
già anticipata e risolta nei fatti dalla cooperazione sociale. Quel che rimasto
fin qui sospeso è un passaggio fondamentale, quello di riuscire a dare forma politica
alla soggettivazione del lavoro-vivo, dentro un processo costituente capace di
mettere in comune ciò che sul piano della concrezione storica non ha più ragion
d’essere separato. In sostanza l’unificazione di tutto il lavoro umano è un
questione politica che va definita in una processualità di liberazione dalla
sussunzione capitalistica, mediante la riappropriazione del sapere comune
frutto della messa a setaccio del marxiano general
intellect. Questa concrezione, nel corso di quel ciclo conflittuale animato
dall’operaio-massa socializzato, sembrava una delle determinazione offerte dal
campo delle possibilità, per fuoriuscire dalla crisi del sistema tangibile
della produzione fordista.
Mai
come prima d’allora s’intravedevano le opportunità di un inveramento
comunistico senza più transizioni socialistezzanti: quella soggettivazione incarnatasi
a partire dal movimento sessantottino – dalle proteste contro la guerra alla
liberazione dal colonialismo, dalle lotte operaie alla contestazione
generazionale fino alle battaglie femministe – era riuscita a mettere in comune
il necessario immaginario sociale e culturale, sperimentando e agendo i luoghi
stessi della comunitarietà costituenda
come “utopia concreta negativa”, o meglio come distopia vissuta capace di
scuotere le fondamenta della società patriarcale in tutte le sue istituzioni
costituite, dal pubblico al privato.
Con
il sessantotto si chiude non solo il 900, ma entra in crisi l’età moderna che
con la macchina a vapore aveva sancito l’affermazione della produzione
capitalistica con la separazione del lavoro manuale da
quello
intellettuale che aveva introdotto la mistificazione dell’operaio-venditore
della propria merce-lavoro. Con la rivoluzione sociale sessantottina si compie
un salto ontologico fondamentale, ovvero il passaggio dal soggetto al linguaggio,
cioè lo svelamento dell’individualismo alla moltitudine relazionale come vero
archetipo dell’umano. Tuttavia la chiave disvelata da questo grandioso
movimento – che tra gli anni sessanta e settanta ha fatto scuotere le
istituzioni ereditate dalla modernità - è stata sottratta da una nuova essenza
del capitale. Luc Boltanski ed Ève Chiapello avevano anticipato questa
sottrazione che avrebbe portato all’edificazione del nuovo spirito del
capitalismo descritto nel volume dell’omonimo titolo, editato in Francia
nell’ultimo anno del secolo scorso e pubblicato in Italia soltanto nel 2014 da Mimesis,
dopo varie vicissitudini editoriali su cui ci riferiva Benedetto Vecchi in una
sua recensione di otto anni fa. Il merito degli autori de Il nuovo spirito del capitalismo – osservava Vecchi – è quello «di
aver messo a tema la necessità per le scienze sociali di indagare come il capitalismo
stava cambiando, all’interno di una dinamica che alterna «dialetticamente»
discontinuità a continuità con il suo passato». Infatti il lavoro dei nostri
ricercatori dimostra come «la critica all’alienazione e alla parcellizzazione
del lavoro è stata piegata all’innovazione della organizzazione produttiva».
Pertanto
il cosiddetto “management del fattore umano” va considerato come « un
dispositivo teso a riprendere il controllo di un lavoro vivo ribelle all’ordine
costituito nell’impresa». Aggiungeva il buon Vecchi che questa è una condizione
costante per il «superamento di una crisi o quando vanno ripristinati i
rapporti di forza nella società dopo un periodo di aspro e radicale conflitto
sociale e di classe».
Cosicché,
se si rimuovesse il conflitto sociale, quale elemento politico indispensabile
dell’analisi, si farebbe apparire il germogliare del nuovo spirito del
capitalismo come un «fluire neutro delle dinamiche sociali e culturali». In
definitiva possiamo dire che in qualche modo anche noi ravvisiamo la necessità
di approfondire l’analisi non solo su come il capitalismo sia cambiato, ma
contribuendo allo sviluppo della ricerca militante sui possibili processi di
soggettivazione, non tralasciando l’uso degli strumenti analitici offerti dalla
cornice dei saperi critici, non a caso questo volume raccoglie e fa incrociare
diversi contributi degli autori che afferiscono il campo delle discipline
sociali, senza tralasciare altre opportune contaminazione scientifiche che
mettano a fuoco innanzitutto le questione ecologiste ed epidemiologiche.
Chiudiamo
proponendo una sintesi dei capitoli che prendono il nome dei seminari
organizzati.
Antropocene
e capitalocene
Il
nostro viaggio tra gli “orrori” del capitalismo del XXI secolo inizia da molto
lontano, come a testimoniare che nella storia dell’umanità, virtù e misfatti
hanno sempre radici molto profonde affondate in un passato, che tuttavia come
vedremo resta spesso nascosto ai nostri occhi finché i suoi frutti, dolci o più
spesso malefici, non si palesano in tutta la loro evidenza. Non sarà certo un
caso che il termine Antropocene, e quello strettamente imparentato di
Capitalocene, sono coni recenti divenuti rapidamente punti di riferimento non
più eludibili per qualunque studioso voglia addentrarsi nei meandri del passato
per capire la storia dell’uomo e del rapporto che il sapiens ha intrattenuto
dalle origini ad oggi con madre natura.
Come
apparirà chiaro dalla lettura dei saggi dei nostri autori, col termine
Antropocene si intende definire una nuova era geologica legataall’impatto
decisivo (e distruttivo) che la presenza dell’uomo ha avuto sull’ecosistema
terrestre. Ma quando inizia l’era del nostro dominio sulla natura? Su questo non
c’è accordo e il dibattito resta aperto. In genere i momenti crucialiche
vengono citati dagli studiosi a suffragare le varie tesi, vanno dallelontane
origini della civiltà umana, con la scoperta del fuoco prima e poi con la
domesticazione di piante e animali, fino a fatti molto più recenti come la
rivoluzione industriale del XVIII secolo o addirittura l’inizio praticamente
contemporaneo dell’era nucleare.
Certo
se si guarda agli effetti più evidenti dell’inquinamento globale e del cambio
climatico con cui oggi siamo costretti a fare i conti, allora la data più
plausibile a cui fare riferimento sembrerebbe essere quella della nascita della
rivoluzione industriale. Eppure Burgio nel suo contributo di medico e
scienziato, ci avverte come con la rivoluzione del neolitico, l’uomo entrando
nell’era dell’agricoltura e dell’allevamento, abbia dato inizio ad un
cambiamento radicale che oltre a mutare il volto della terra ha segnato per
sempre anche il proprio destino, (e non sempre e non necessariamente in senso
positivo).
È
in effetti plausibile pensare l’agricoltura come inizio della “civiltà” e della
Storia umana. Per la prima volta, impossessandosi della terra e imprigionando
gli animali, gli uomini erano in grado di creare un surplus, innanzitutto
alimentare, che permetteva a una parte di loro di affrancarsi dal lavoro
produttivo per dedicarsi ad altre attività. È da questo processo che nascono la
divisione del lavoro, le gerarchie sociali e la divisione in classi..
Attenzione
però alla trappola di considerare l’uomo “in generale”, e sin dalle origini,
come il responsabile dell’attuale catastrofe ambientale. Il pericolo è che se
tutti siamo colpevoli, allora nessuno è colpevole! Per questo Pirrone
preferisce usare il termine Capitalocene (coniato da Moore). Giusto a
significare che appropriazione, sfruttamento e messa in valore della natura
(come del lavoro umano), tipiche del capitalismo, sono oggi i veri killer
dell’ambientale.
Ha
ragione probabilmente Griziotti che, nello stile della sua “fabulazione
speculativa” venata di pessimismo, parla dell’uomo come da sempre “malato di
distruzione”, ma vede nel capitalismo il punto d’arrivo, la sintesi e il
livello estremo della propensione alla morte e al dominio su uomini e cose.
Sulla
stessa lunghezza d’onde Parello, che dopo avere sciorinato una serie
impressionante di dati, conclude amaramente: “... il 21° secolo sembra essere destinato a produrre lo
sterminio della gran parte delle specie viventi sulla Terra (tra cui
naturalmente anche gli esseri umani). Nel sistema di produzione immateriale
l’apparato dell’ICT - Information and Communication Technologies- ha assunto una
determinazione strategica sui nuovi modelli di ccumulazione capitalistica, essendo
la forza-lavoro cognitiva la principale merce-risorsa generatrice di ricchezza.
L’inarrestabile espansività della rete internet, a partire dagli anni novanta
ha via via messo in seria discussione quello spazio di libertà che
originariamente sembrava essere a portata di mano, in cui la cooperazione
sociale poteva liberarsi dalla sussunzione capitalistica, favorendo la
condivisione e la comunicazione delle conoscenze. Così non è stato e le
aspettative della comune soggettivazione sono state soggiogate dal capitalismo
delle piattaforme che si è appropriato della rete.
Come
ci fa osservare Giacomini: « Internet è stato visto come una sorta di far west
digitale in cui il principale obiettivo era ‘conquistare la frontiera’». Ciò
consentiva al sistema economico, ed in particolare all’economia americana, « di
rigenerarsi e di avanzare con risultati eccellenti ». Come evidenzia Giacomini,
però, « la fase (neo)liberista non ha portato solo concreti progressi, ma anche
un contesto economico (e poi politico) di “libera volpe in libero pollaio”, in
cui la carenza di vincoli statali ha permesso la formazione di posizioni
dominanti e di oligopoli, in contesti anche molto delicati come la sfera
pubblica ».
Cosa
è accaduto e cosa ci sta accadendo? Da quì le domande poste da Maria Concetta Sala
nel suo contributo. Un lavoro ricco di riferimenti che – sul tema della
sorveglianza delle piattaforme - costituiscono il meglio della letteratura
critica. Ovviamente – così come gli altri autori - si misura con l’opera della
Zuboff, che ha avuto il merito “di rompere l’incantesimo che annebbia mente e
cuore”. In un certo senso la Sala, nel porsi e nel porci tanti interrogativi,
ci mette in guardia dalle facili soluzioni. Anzi , ci invita a riprendere
quelle esperienze di ricercazione
faticose del passato “affinché – così come auspicava il compianto Benedetto
Vecchi (altro suo riferimento) – si possa di nuovo lavorare alla costruzione e allo
sviluppo di una utopia concreta».
Il
sistema della sorveglianza, anche sul piano securitario e del controllo
sociale, ha elaborato nuovi dispositivi di indagine a vantaggio delle forze di
polizia. Palidda nel suo intervento analizza i sistemi digitalizzati di
sorveglianza, documentando le misure adottate dal comando neo-liberista per
allargare il raggio d’azione nel campo della prevenzione dei comportamenti
devianti, sommando a vecchi strumenti repressivi nuove tecniche investigative.
Si pensi all’utilizzo della ’Intelligenza Artificiale (IA) per le schedature
biometriche che hanno generato un vero boom del business nel settore, che si è
esteso perfino all’uso di dati biometrici nelle procedure di reclutamento al
lavoro. Abbiamo di fronte una macchina pervasiva che impunemente utilizza l’IA,
mettendola a protezione del dominio neoliberista.
Vaccaro
infine – richiamandosi alla Zuboff – sottolinea come l’intrinseca politicità
della sorveglianza sembra allontanarsi dai modelli di controllo politico
esercitati dalle « èlites di governo per traslocarli in una dimensione
capitalistica», trainata dalla valorizzazione dei dati a fini di profitto
imprenditoriale. Il sistema oligarchico delle Big Tech che controlla il flusso
dei dati è capace di valorizzare “quantità di capitalizzazione finanziaria
senza pari nella globalità delle borse mondiali”. Questo ci indica che “La loro
capitalizzazione nelle borse mondiali (---) deriva dalla plus-valorizzazione di
ciò che è diventata una merce: i dati di ciascun utente del web, dello
smartphone, delle piattaforme”. È stata la datificazione di massa ha rendere
culturalmente possibile la dilatazione del regime di sorveglianza.
Il capitalismo della
produzione immateriale
La
rivoluzione tecnologica, sin dai tempi delle grandi ristrutturazioni industriali
degli anni settanta del ‘900, ha impresso una fortissima accelerazione degli
investimenti sostitutivi di manodopera, indebolendo la soggettività operaia
costituitasi attorno la centralità del lavoro salariato all’epoca del
capitalismo fordista, il cui destino egemonico da tempo è stato segnato dal
decadimento progressivo per far posto all’inesorabile avanzata del cosiddetto
nuovo spirito del capitalismo, sebbene permangano ancore forme cristallizzate
di produzione tradizionali in molte aree del pianeta, dove – però, va detto –
il costo del salario è assestato ad un livello talmente basso, tanto da indurci
a dover pensare che accanto al nuovo spirito del capitalismo possano coesistere
le vecchie forme schiavistiche del lavoro. Ma persino all’interno del sistema
avanzato ipercapitalistico si possono trovare sacche di produzione terzomondizzate,
in cui i lavoratori sopravvivono in condizioni sociali al limite della
schiavitù con orari insostenibili e paghe da fame.
Tutto
ciò sembrerebbe stridere con l’analisi sull’egemonia del lavoro biocognitivo
determinatasi – secondo noi – nell’attuale fase storica della produzione
intangibile. Ora, tralasciando i lavori di cura e i servizi terziari (che manuali non sono affatto,
eccezion fatta della temporalità destinata alla specifica attività lavorativa),
per egemonia biocognitiva non si deve intendere la scomparsa tout court del
lavoro manuale. Infatti, in diversi settori manifatturieri ed in diversi strati
di mercato, il sistema industriale, avendo acquisito il controllo della
dinamica salariale ed essendo stato favorito dalla governamentalità dominante da
strumenti di regolazione iperliberistici (delocalizzazione, vincoli di
produttività, flessibilità e precarizzazione diffusa), può certamente trovare
ancora redditizio il mantenimento di ampie sacche di sfruttamento tradizionale
della forza-lavoro, giacché – così come considerato nel contributo d’apertura
del capitolo (Casano) – potrebbe, non tanto paradossalmente, rilevarsi
diseconomico investire in una seppur minimale innovazione tecnologica, potendo
incidere sulla manovra della leva del dumping salariale.
Nella
sua introduzione Andrea Fumagalli fa un raffronto (dal ’92 fino a qualche anno
prima dell’avvento pandemico) sull’andamento di crescita negli ultimi decenni
del settore manifatturiero, relativamente alle maggiori economie dell’Unione
europea, mettendo in risalto la perdita di terreno rispetto agli altri settori
della produzione. Si tratta di una rilevazione statistica omogenea che ha visto
una continua crescita del settore terziario, facendo registrare un tasso di
crescita del PIL – con lievi percentuali di scostamento - di ben oltre il 60%.
In
sostanza, gli elementi intangibili sono quelli che hanno in generale caratterizzano
il sistema produttivo. Ma l’attività economica biocognitiva non si restringe
esclusivamente alle merci intangibili, ma comporta anche la produzione dei suoi
destinatari, ovvero – come precisa Francesco Pezzulli – “delle soggettività che
consumeranno tali merci”. Ed è proprio a partire dall’università, e dalle
regolazioni neoliberali subite in questi decenni, che Pezzulli ci dimostra come
sia stata trasformata questa agenzia formativa in una macchina di
soggettivazione dei processi intangibili della produzione: la soggettività
diventa essa stessa merce del consumo.
Infine,
vogliamo far notare lo sfondo politico del contributo di Sergio Riggio, il
quale, nell’analizzare le trasformazioni della forma lavoro contemporanea e i
meccanismi attraverso cui “si genera l’estrazione del plusvalore” e su “come le
nuovissime tecnologie intervengano modificando tempi e modi della produzione”,
ha cercato di cogliere parimenti le possibili trame di lettura delle necessarie
ragioni che sussistano nella ricomposizione sociale in chiave
anticapitalistica.
Dominio e ricatto del
capitalismo finanziario
Il
tema della finanza ci pone al cuore delle questioni che riguardano i temi
affrontati in questo volume. Il potere che ha assunto oggi il denaro negli
scenari globali, rappresenta infatti il tratto più peculiare del moderno
capitalismo, insieme (e crediamo non a caso) all’imperante neoliberismo,
compreso il suo egoistico modello di homo oeconomicus.
Tutto
ciò che si impone alla nostra attenzione come qualcosa di nuovo, pone
evidentemente difficoltà, più o meno marcate, al lavoro teorico, che per noi
sono oggi probabilmente acuite dalla contemporanea crisi storica che ha
investito la sinistra di classe con la fine delle esperienze rivoluzionarie del
secolo passato, e che è certo una delle concause della “crescente arroganza”
delle forme del dominio
È
lecito anche chiedersi se di fronte alle mutate condizioni e alle più recenti
tendenze del dominio finanziario del capitale, sia possibile usare in maniera
immediatistica, e per così dire “letterale”, l’armamentario teorico che Marx
nella sua sconfinata opera e il marxismo classico ci hanno lasciato. Se non sia
invece necessario avere il coraggio di azzardare risposte nuove ai nuovi
problemi, senza porsi eccessive preoccupazioni di aprioristiche adesioni ai
dettami dell’ortodossia, cercando magari, laddove possibile, entro “i sacri
testi”, ciò che in diverse situazioni storiche e con diverse priorità, restava
il “non esplicitamente detto”, e che si manifestava al contrario in cenni,
allusioni, rimandi, verso qualcosa che in quel momento era solo una possibile
tendenza di futuri scenari.
È
in ragione di queste specifiche difficoltà che per affrontare l’argomento, a
differenza di quanto avviene per le altre tematiche discusse in questo volume,
abbiamo scelto la forma dell’intervista che ci sembrava più immediata e aperta
rispetto al saggio breve. Ad essa abbiamo sottoposto due studiosi entrambi
appartenenti all’area della sinistra antagonista, ma tra loro anche molto
diversi per formazione politica e culturale, e per esperienze militanti. Ebbene
il risultato, come il lettore potrà constatare, pur nelle marcate differenze è
abbastanza univoco e in qualche modo “confortante”: La necessaria ricerca di
nuovi percorsi di lotta e di ricerca militante deve per forza di cose mantenere
un profondo legame col passato, non solo in senso ideale, ma anche e
soprattutto nella capacità di sapere mettere a frutto i contenuti sempre
attuali dell’armamentario teorico che Marx e il marxismo ci hanno lasciato.
È
Schettino a dirci senza mezze misure che una new economy nella sostanza non esiste, e che la definizione della
crisi del 2007/2008 come “crisi finanziaria” è semplicemente una etichetta truffaldina
che tende solo a mistificare le difficoltà in cui si trova il sistema globale
del capitalismo, afflitto da una crisi permanente che va considerata, in pieno accordo
con i dettami del pensiero marxista, come crisi di valorizzazione e di sovrapproduzione.
Fumagalli,
dal canto suo, sottolinea, tra le altre cose, come il dominio della finanza si
afferma attraverso una moneta-segno senza alcun valore reale, che può
liberamente fluttuare e circolare determinando una concentrazione di potere tale
che oggi l’80% dei prodotti derivati è in mano a solo 12 istituti finanziari.
Il moltiplicatore finanziario oggi, agendo in senso inverso al moltiplicatore
keynesiano, non fa altro che ridistribuire la ricchezza a favore dei più
ricchi.
Volendo
semplificare al massimo potremmo dire che per entrambi, scavando dentro i
misteri della finanza altro non c’è alla fine che lo scontro geopolitico per il
dominio globale, giocato sul potere variamente combinato della moneta e delle
armi (vedi oggi il ruolo dominante, ma in
prospettiva incerto, del dollaro, e per altro verso, i venti di guerra che
percorrono il mondo). Purtroppo le verità semplici stanno spesso nascoste sotto
cumuli di menzogne. Sta a noi e alla politica tornare a fare chiarezza.
Imperi, guerra e destini
del mondo
Il
termine geopolitica da sempre, e ancor più oggi nell’era del “villaggio
globale”, ci rimanda alla difficile comprensione del complesso intreccio delle
relazioni politiche tra Stati, evocando immediatamente scenari che da sempre ci
parlano di scontri e di alleanze finalizzate allo scontro, di guerre
guerreggiate e di guerre fredde, del dominio dei pochi e della sudditanza dei
molti, in una logica che sin dalle origini della storia umana, ci consegna un
mondo plasmato dalla volontà e dall’imperio del più forte a danno dei più
deboli. Entrare dentro i meandri della politica internazionale è compito complesso
perché implica la capacità di sapere guardare oltre il velo delle apparenze,
fatto spesso di narrazioni e propaganda di parte, per capire oggi cosa ci
riserva il domani, svelando anche come dietro le verità (e le menzogne) della
geopolitica si nascondano quelle della geoeconomia, con i suoi flussi di
ricchezze e di merci, e quelle della geocultura, che ci parla della difficile
convivenza di popoli portatori di valori (e con negazione di disvalori)
maturati in millenni di storia.
Compito
ancora più difficile per chi, come gli autori del nostro volume, non si
accontenta semplicemente di capire l’evidenza dello stato presente delle cose,
ma cerca nelle debolezze (spesso solo potenziali e “nascoste”) del forti, e
nella forza delle ragioni di chi subisce, la chiave per ribaltare la storia
verso un domani dove la guerra e le diseguaglianze siano bandite, in una
visione al tempo stesso concreta e “utopica”, e seppure in una prospettiva che
ad oggi appare ancora molto lontana.
Ulteriore
difficoltà di non poco conto per tutti noi è stato il fatto che, mentre questo
nostro lavoro era in gestazione, le vicende del pianeta hanno subito una
improvvisa accelerazione, prima con una devastante pandemia e poi con una
guerra inter imperialista dagli esiti ancora incerti e che insieme
sembrerebbero essere i prodromi di una pesante recessione globale. Nell’attuale
incertezza però tutti concordiamo sul fatto che ormai il vecchio mondo
unipolare fondato sul dominio del dollaro e delle armi nordamericane stia
andando in soffitta, annunciando l’avvento di un mondo bipolare, o forse multipolare,
in cui purtroppo ancora per molto i venti di guerra e il fragore delle armi
sembrerebbero volerla fare da padrone.
Un
esempio di analisi delle attuali incertezze ci viene da Consolo, che guardando
al sudamericana vede la possibilità di esiti diversi, legati sia al “nemico”,
con lo scontro tra i vecchi “padroni” norda-mericani e i nuovi arrivati (Russia
e soprattutto Cina), sia in campo amico, auspicando un incontro tra la sinistra
antagonista, definita “carnivora”, e i riformisti “vegetariani”.
La
Ciattini, dal canto suo, inquadra l’attuale guerra in Ucraina nel secolare
scontro tra “Eurasia” ed “Atlantismo”, con gli USA da sempre impegnati a
controllare l’Europa (ancora una volta perdente) cercando di creare una invalicabile
barriera ad evitare qualsiasi vicinanza del vecchio continente con la Russia,
in una prospettiva di alleanza euroasiatica.
Anche
Moro guarda oltre il presente vedendo nell’attuale crisi una “stagnazione
secolare”, che annuncia la fine del dominio USA, figlio del parassitismo della
finanza speculativa e stretto nel circolo vizioso della guerra permanente per
sostenere dollaro e del dominio del dollaro per sostenere la guerra. Tutto
sembra preannunciare l’avvento di un “secolo” cinese.
Minaldi
infine, in una prospettiva geoculturale, sottolinea l’ambiguità dei valori
occidentali di libertà, democrazia e diritti umani, figli delle lotte
rivoluzionarie dei popoli, ma oggi usati dall’occidente imperiale come bandiere
per giustificare la guerra. Riappropiarsi dal basso degli antichi valori è oggi
necessario se si vuole promuovere un nuovo incontro tra i popoli.