lunedì 13 marzo 2023

STORIES OF MIGRANT WOMEN

   IN DIALOGO CON ALICE CASTIGLIONE -Arianna Giardina-

“Nel 2018 avevo già lasciato l’Italia, ma decisi che dovevo fare qualcosa per andare contro il clima di odio generato dalla comunicazione mainstream di un fenomeno che non rende giustizia alle storie degli esseri umani che ci sono dietro i numeri. Ho scelto di raccontare le donne che attraversano il Mediterraneo perché, da femminista, ho sentito il dovere di essere un tramite, un megafono. Sono io stessa una migrante economica e ho ragionato sulla domanda “perché a me si appioppa la parola expat e a loro si affibbia 'migrante'?” o anche “perché le donne che vediamo nelle immagini sono sempre piangenti? C'è del razzismo intrinseco nella narrazione della migrazione” .
Stories of Migrant Women è un fotodocumentario di ricerca realizzato da Alice Castiglione per l’università di Portsmouth che si pone l’obbiettivo di esplorare luoghi, volti, spazi e tracce delle donne arrivate in Sicilia attraversando il Mediterraneo Alice raccoglie le storie di queste donne in punta di piedi, fotografa i luoghi e le tracce della loro vita nei centri d’accoglienza e ne fa un libro, attualmente in ristampa   


 Alice il tuo documentario parla delle donne, sono loro le protagoniste perché?

La mia è una reazione. Storie di donne Migranti  è un fotodocumentario condotto per l’Università di Portsmouth, in collaborazione con il Centro Diaconale La Noce – Istituto Valdese e con Mediterranean Hope – Casa Delle Culture di Scicli e il Cara di Mineo che parte dal bisogno di fare controinformazione.

Nel 2018 avevo già lasciato l’Italia, ma decisi che dovevo fare qualcosa per andare contro il clima di odio generato dalla comunicazione mainstream di un fenomeno che non rende giustizia alle storie degli esseri umani che ci sono dietro i numeri. Ho scelto di raccontare le donne che attraversano il Mediterraneo perché, da femminista, ho sentito il dovere di essere un tramite, un megafono.

Sono io stessa una migrante economica e ho ragionato sulla domanda “perché a me si appioppa la parola expat e a loro si affibbia ‘migrante’?” o anche “perché le donne che vediamo nelle immagini sono sempre piangenti?” C’è del razzismo intrinseco nella narrazione della migrazione.

C’è un fotografo, Cesar Dezfuli, che nel 2016, appena due anni prima del mio progetto, veniva premiato per “Passengers”, un progetto fotodocumentaristico composto da una serie di ritratti scattati al momento del salvataggio per riflettere sullo stato fisico di queste persone e per assegnare un volto a quelli che a noi vengono presentati come numeri. In questo lavoro ho riscontrato 2 problemi:

1- sono tutti uomini e ragazzi

2-continuiamo a non sapere nulla di loro.

Il fotografo madrileno, infatti, assegna una serie di dati come l’età, il nome e la provenienza. Sembra una schedatura in caserma più che un progetto atto alla riumanizzazione. Ho deciso quindi che avrei ricercato quelle storie umane che al pubblico vengono negate in favore di una narrazione sensazionalistica, ma che consentono l’allenamento all’empatia. Inoltre, e questo è molto importante, ho scelto di documentare le donne perché ci sono storie che un uomo non potrà mai raccontare con lo stesso punto di vista. Il punto di vista di un genere storicamente internazionalmente oppresso per rispondere ai bisogni essenziali della produzione e della riproduzione del sistema economico-sociale presente in ogni Paese e declinato in varie forme nel corso del tempo.

É importante raccontare ed ascoltare le storie delle donne, ma soprattutto ci si deve rendere conto dei privilegi di classe che rendono noi (me in questo caso) abili a raccogliere storie, pezzi di realtà che altrimenti cadrebbero nell’oblio ed usarle come strumento di presa di coscienza. Ho vissuto con loro, mangiato alla loro tavola, conquistato la loro fiducia e ho spiegato loro cosa stavo facendo con molta umiltà, da donna a donna. Mi hanno accettata, accolta, hanno visto la sincerità dei miei intenti e si sono aperte. Specialmente a Scicli, abbiamo pianto insieme, dormito sotto lo stesso tetto e mangiato alla stessa tavola. É stata una esperienza immensa, arricchente sotto tutti i punti di vista.

 

Camilla Paglia scrive: “La moderna società benestante ha protetto le donne della media borghesia dalle verità spiacevoli che eruttano solo durante i disastri naturali o la guerra. Io sono stata cresciuta col codice degli immigrati della campagna italiana, un codice che diceva: la vita è pericolosa”. Cosa ne pensi tu?

Penso che ci troviamo in un momento storico in cui la necessità di movimento sbatte contro i muri di modelli socioeconomici che condizionano la percezione dello spazio in cui viviamo. Penso che il femminismo raccontato senza includere la lotta di classe sia una bugia pericolosissima per tutte le donne, biologiche e non.


Mi fa molto male vedere gente che è felice di vedere questo o quel brand usare l’immagine di una donna trans (per esempio) per pubblicizzare il proprio prodotto. Si, vero, si dà esposizione ad una realtà oppressa, ma è una analisi superficiale in cui non si considera che l’unico che vince è il sistema che le oppressioni le crea. Il sistema in cui viviamo (capitalismo) non guarda in faccia a nessuno. Non basta mettere una donna trans in copertina o andare in giro con la maglia di Frida per inneggiare al cambiamento culturale. Serve una lotta di classe sistematica e costante.
I modelli a cui mi ispiro sono le donne Mapuche in Sud America, le guerrigliere curde o le donne Adivasi in India, non mi interessa il femminismo borghese/individualista/liberale. Il mio compito in quanto artista è quello di contrastare con i miei strumenti l’abbrutimento delle relazioni sociali, di cui le donne sono le principali vittime. La mia produzione è molto politica perché non credo che l’arte debba essere qualcosa di elitario, ma un mezzo che ha l’essere umano per elevarsi fisicamente e spiritualmente, come individuo e come civiltà.

 

Cosa pensi del femminismo oggi? E quali precetti possono essere fattivamente utili e di supporto per queste donne e per tutte le donne?

Secondo me è sbagliato parlare di femminismo, esistono varie correnti del femminismo e trovo molto più corretto parlare di femminismi. Nel nostro caso, il femminismo europeo è stato per molti versi (con le dovute eccezioni) castrato dal liberalismo che ha dato alla nuova generazione una visione non più rivoluzionaria e collettiva che mira a sradicare il problema alla radice, ma che incoraggia l’individuo a combattere per trovare il proprio posto all’interno di quel sistema, magari al vertice della piramide, facendo leva sul bisogno economico e di appagamento personale. Osservo, inoltre, come l’avanzamento tecnologico possa essere usato dal femminismo come “arma” ma che invece viene lasciato da parte in favore a pratiche e linguaggi più “old school” che non attraggono le nuove generazioni. In questo modo molte energie vengono disperse. Una delle prove di questa lacuna è l’assenza quasi totale di documentazione relativa alle espressioni artistiche femministe in Italia dalla fine degli anni ‘70 in poi.

Inoltre, molti movimenti femministi sono composti da casalinghe, lavoratrici, studentesse ecc.. che non hanno una alfabetizzazione informatica e visuale. Ci si trova quindi con assemblee telematiche organizzata da persone che usano i nuovi media solo per social e email, assemblee in cui l’età media è molto alta e che troppo spesso non parla un linguaggio comprensibile alle nuove generazioni. Questo è un peccato perché molte conoscenze dovrebbero essere trasmesse, molte persone potrebbero entrare in contatto anche se a distanza. É giusto concentrarsi sui numeri della piazza, sulla presenza fisica, ma è anche giusto non lasciare indietro i codici di comunicazione. Sono quelli che aggregano. Ieri era il volantino, oggi è qualcosa d’altro. Ci sono intere subculture che vengono lasciate da parte dal movimento perché considerate distanti oppure, più semplicemente, non sono conosciute. Internazionalmente abbiamo moltissimi esempi di hacker femministe, per esempio. Nel 2020 ho creato, insieme alla ONG femLENS, un festival transnazionale online chiamato Her Visual Story in cui, tra le altre cose, abbiamo proposto laboratori di scrittura e diversi interventi volti a migliorare la comprensione dello spazio digitale.

Hai scritto che per te è importante elaborare i sentimenti e creare uno spazio di consapevolezza ed empatia per abbattere le barriere di tutti i tipi e che riguardano le politiche odierne. Trovi ci sia davvero inclusione nelle comunità? Tu cosa hai visto, cos’hai colto?

No, l’inclusione non c’è. C’é accoglienza, ci sono sforzi positivi, ci sono gruppi, assemblee, iniziative. Ma no, non c’è inclusione. In Europa l’inclusione è una parola che viene usata troppo spesso dalle istituzioni per ripulirsi la faccia, ma chi arriva in Europa si scontra con una serie di problemi come l’accesso al lavoro, ai documenti, alla sicurezza sociale, alla childcare e via dicendo.
Per dirne una: in Italia decreto flussi 2023 varato del governo Meloni prevede che, prima di accettare la richiesta di assunzione del cittadino straniero “potenzialmente regolare”, il centro per l’impiego inoltri la stessa offerta agli uffici corrispettivi di tutta Italia al fine di verificare che nessun italiano prima sia disponibile per ricoprire quella stessa posizione. Questo per dire che le vie legali di accesso sono tendenzialmente impossibili da conseguire. Nonostante l’articolo 10 della Costituzione reciti che “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”, questo stesso risulta “rottamato” dopo l’adesione del nostro Paese al Trattato di Lisbona. Come si può parlare di integrazione? Giorno 4 Marzo ho presenziato a Bruxelles alla manifestazione Mamans Du Monde organizzata dalla European Network Of Migrant Women. Ho esposto lì il mio fotodocumentario a margine di una giornata in cui si è discusso proprio di queste tematiche. Ho vissuto un clima di entusiasmo, allergia, collaborazione e quella rabbia positiva che spinge a lottare per diritti e cambiamento al grido “il posto delle donne migranti è in parlamento (europeo)”.



Narrare le donne (madri e non) migranti come bisognose di aiuto, non autodeterminate e succubi degli eventi è limitante e non rispecchia la realtà. Bisogna rompere questi stereotipi. Le donne migranti, come tutte le donne del mondo, si organizzano con forza, autodeterminazione e spirito di creazione per l’abbattimento del sistema classista e patriarcale, contro le frontiere che creano cittadini di serie A e serie B e per la libera circolazione delle persone.
La partecipazione delle donne migranti alla vita politica e sociale é importante per il raggiungimento dell’inclusione, ma pare che le istituzioni non vogliano ascoltare queste voci.


Ho trattato l’argomento qui:


https://ecointernazionale.com/2019/06/videointervista-parla-una-delle-operaie-della-montello-in-sciopero-contro-lo-sfruttamento/

e qui:
https://ecointernazionale.com/2019/07/parola-alle-operaie-la-denuncia-delle-donne-della-montello/

 

Parli di diversità come ricchezza e mi trovi d’accordo. Credi sia ancora  viva e reale la paura del diverso? Tu ti sei trovata arricchita da questa esperienza?

La paura del “diverso”, come tutte le paure, é data dalla non conoscenza.


Dici che la questione femminile è una questione di civiltà, e che spesso la donna e il corpo della donna sono un campo di battaglia, lo viviamo oggi più che mai in Iran con la Rivoluzione e in diversi altri paesi. Ma anche in occidente la donna subisce ancora, vedi i molti femminicidi e le violenze. Tu che cosa ne pensi?

Penso che con differenti modalità siamo tutte nella stessa barca, per questo nasce e cresce il movimento femminista di stampo internazionalista. La classe sociale o la nazionalità sono solo delle varianti sul tema dell’oppressione storica. Nel mondo non esiste un Paese in cui le donne possano sentirsi esenti dalla violenza maschile.


La partenza, il viaggio, il deserto, i campi in Libia, il mare e poi l’arrivo. Ho visto che le tue immagini sono davvero molto evocative. Che difficoltà e ostacoli incontrano queste donne? E all’ arrivo cosa devono affrontare?

Gli ostacoli sono innumerevoli. Molte vengono attirate con l’inganno per poi finire tra le maglie della tratta. Quelle che non finiscono nella rete della tratta o riescono a fuggirla, arrivano in Italia per affrontare una serie di barriere (linguistica, culturale, ecc..). Arrivano provate fisicamente e psicologicamente e molte volte con figli al seguito, spesso nati da stupri avvenuti durante il viaggio. Molte sono giovanissime.
Arrivano in strutture di accoglienza che le accudiscono ma, una volta fuori, difficilmente avranno la possibilità di autosostentarsi finendo spesso per vendere il proprio corpo. Parlando con una di loro del tema della vendita dei corpi, ricordo di aver tradotto per lei un articolo, non ricordo precisamente quale, ma parlava di sex work e del diritto delle persone di poter esercitare questa professione. Ricordo distintamente la sua espressione: era un misto di perplessità, stupore e per me è stato molto difficile spiegare che c’è chi sceglie questo percorso. I punti di vista rispetto al lavoro più antico del mondo possono essere molto vari e forti.



Hai scritto” la bella vita è qua” è una frase significativa che richiama gioia e serenità, ma che fa molto riflettere. È davvero così per queste donne? Che cosa intendi?

Non ho scritto io quella frase sul muro. L’ho solo fotografata. Era in un muro di una stanza in cui alloggiavano delle ragazze accolte da una delle strutture con cui ho collaborato. Le ragazze stavano imparando l’italiano e ho trovato fosse davvero significativa quella frase, in quel contesto. L’idea di venire in Europa per loro è speranza, è aspirare ad una vita “migliore”. E pagano per questo, molte arrivano con l’inganno. Lascio qui uno stralcio del racconto di V., 19 anni
«“Ok, non hai pagato soldi… ti sei chiesta che devi pagare?” “No, perché nessuno mi ha chiesto di pagare.” “Ok allora te lo dico io. Devi pagare.” “Come??? E quanto è? Allora, dove posso lavorare? Sono felice, lavoro, vi pagherò e manderò soldi alla mia famiglia” “Sei felice di lavorare?” “Si, che tipo di lavoro volete darmi da fare? Tipo pulire… io so pulire, lavare la biancheria, so farlo, qualunque lavoro domestico, lo so fare!”[…]”Zitta! Non abbiamo questi tipi di lavoro qui in Libia! Farai la prostituta!”» (parte del racconto di V. 19 anni, Nigeria).
Quando leggo o sento di persone che chiedono “perché non vengono con un viaggio regolare” mi chiedo se si rendano conto di come funzionino i passaporti, di come si oltrepassino i confini. Ci vorrebbe più informazione sulla discriminazione dei passaporti. Viaggiare può essere impossibile, se non sei nato nel lato giusto del mondo. In alcuni Paesi le donne hanno perfino bisogno di essere accompagnate da un uomo per poter oltrepassare il confine.


Hai avuto modo di entrare nelle loro comunità, qual è la loro quotidianità? Pensi che il nostro paese sia un paese inclusivo?

Non si può descrivere in due parole come è la quotidianità di queste persone. Di certo cercano tranquillità. Ho visitato posti molto diversi tra loro, la quotidianità al CARA di Mineo non è certo la stessa che puoi trovare alla Casa Delle Culture. É sicuramente una quotidianità fatta di recupero di se stesse. L’Italia, come molti paesi, è un luogo in cui si fa di tutto per non perdere l’umanità, ma bisogna distinguere il popolo dalle istituzioni.


Noi cosa possiamo imparare da loro? Dovremmo trarre qualche insegnamento, per esempio che l’unione fa la forza, che siamo tutte uguali, che dovremmo lottare insieme per la pace e ogni bene superiore comune? Dovremmo imparare, l’umiltà,  la pazienza, a non essere avide, annoiate o a non dare molte cose per scontate perché abbiamo privilegi dalla nascita, ad apprezzare le piccole cose?


No, non siamo tutti uguali. Siamo tutti diversi e lottare tutti insieme per un bene comune è una mera utopia. Dovremmo imparare ad autodeterminarci come esseri umani, educarci all’empatia e fare della diversità una ricchezza. Noi donne Europee da queste donne dovremmo imparare che quello che abbiamo non è scontato e non è un diritto acquisito. Nessuno sceglie dove nascere, dovremmo prendere la consapevolezza di questo e mettere da parte quel sentimento di superiorità che troppo spesso mina la percezione della realtà. Ci sono persone che nascono in contesti molto difficili e noi, in Europa, abbiamo solo avuto la “fortuna” di nascere nella parte ricca del mondo. Poteva tranquillamente andare diversamente.


Adesso parliamo di politica: Il nostro Presidente del Consiglio è una donna, anche se ha specificato e vuole farsi chiamare ” il presidente ” al maschile.

L’insistenza della Meloni nel farsi chiamare Presidente (al maschile) denota quanto di destra e profondamente retrogrado sia il suo concetto di Donna nell’accezione umana e sociale. Ha un’importanza fondamentale invece cominciare in Italia a distaccarsi da certi stereotipi culturali indotti e imposti. Siamo indietro di 50 anni rispetto a paesi che ironizzano sulla cosa delineandone l’importanza fondamentale. A Novembre del 2022 risulta che l 80% delle donne uccise in Europa sono italiane. Adesso mentre noi facciamo quest’intervista, viene uccisa una donna ogni 3 donne in Italia.


Abbiamo da poco eletto la segreteria del Partito Democratico Elly Schlein, lei sembra invece più aperta alle politiche di inclusione come la vedi? Cosa pensi di queste due presidenti e rappresentanti politiche donne? Cosa potrebbe fare la politica per le donne migranti?

Abbiamo parlato di politica fin dal principio. Io non credo nella politica istituzionale, non credo che la politica per come è impostata possa fare molto. É un sistema che vive di discriminazione di classe. La politica istituzionale, in teoria, rappresenta porzioni di popolazione, ma in pratica è un sistema gattopardo che cambia tutto per non cambiare niente. Chi ha il potere di cambiare sono i popoli, la base. La politica di palazzo fa gli interessi di banche, industriali, finanza ecc. Recentemente con la questione Covid si è palesato per l’ennesima volta. Conte ha ricevuto pressioni dagli industriali che non volevano perdere profitto, il risultato si è visto sui corpi delle persone.
Cosa penso della Shlein? Chi crede di cambiare le cose “dall’interno” è un illuso. Quelli che “la politica si cambia da dentro” mi fanno sorridere perché ci credono davvero. Non vedo come essere parte di un sistema malato possa risolvere le cose se poi devi stare a delle regole che quel sistema che vuoi distruggere lo mantengono vivo.




Vorrei chiederti qualcosa in merito alle vittime dell’ennesima tragedia del naufragio presso le coste al largo della Calabria. Uomini, donne, bambini di cui anche un neonato. Circa 250 le persone presenti su quel barcone, tantissimi dispersi. Il mare continua ad inghiottire corpi di persone che, in cerca di un futuro migliore, di una vita diversa e di un pizzico di serenità, decidono di mettersi su un barcone e affrontare insidie e tempeste, pur di riuscire a giungere sulla terraferma. Mark Fisher in Realismo Capitalista scriveva “È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del Capitalismo.” Dov’è l’Unione Europea? Che fine hanno fatto gli strumenti di dialogo con i Paesi d’origine? Parliamo sempre di tutela dei diritti umani, di immigrazione clandestina, di reati, politica, leggi. Ma il senso di umanità? I diritti? La voce di chi muore in questo modo?

Queste vite potremo salvarle solo quando non ci sarà più bisogno di scappare da un paese ad un altro, quando non ci saranno più barriere per attraversare terre e mari, quando i popoli saranno liberi dall’oppressione di un sistema di produzione e riproduzione che costringe ad adottare modi di vivere e di concepire la realtà senza vedere alternative possibili. Spesso sento dire che il sistema capitalista è l’unico possibile, ma questo non è vero. Nella storia abbiamo visto diversi sistemi e probabilmente anche durante il feudalesimo le persone pensavano che fosse l’unico possibile. Il punto è che prima o poi tutti i sistemi cambiano, a seconda delle necessità di chi li vive e nutre. Dopo le rivoluzioni industriali abbiamo visto un cambiamento radicale e il capitalismo ha preso piede, ma chi dice che è ancora il sistema più adatto? Anche l’era capitalista è destinata al declino.


Con il tuo fotodocumentario e le interviste hai dato voce a non ne ha (rapporti ufficiali dimostrano che la forza-lavoro migrante è più soggetta a perdere o non ottenere un lavoro mentre i clandestini, in quanto ricattabili, sono oggetto del peggiore super sfruttamento: una nuova forma di schiavismo). Le donne immigrate quindi sono doppiamente  svantaggiate 1 perché donne, 2 perché straniere. Cosa vorresti dire in merito?

Vorrei soltanto dire che la rappresentazione della realtà è quella che forma idee ed opinioni. Il ruolo dei mass media è grande e non si può dare in mano la narrazione di queste realtà in mano a “giornalisti” come quelli delle tv nazionali.


L’essere umano ha sempre usato le immagini per raccontare e raccontarsi, adoperando stili narrativi e simbolismi in grado di fare presa sulla massa. Nel caso delle tv nazionali è palese come le narrazioni vengano usate per scopi politici e per manipolare l’opinione pubblica. Pensiamo di essere liberi, ma non lo siamo. La narrazione della migrazione, del lavoro delle persone che arrivano in Italia, dello sfruttamento, della contrapposizione tra italiano e straniero, della violenza maschile sulle donne ecc… è una narrazione a mio parere intellettualmente disonesta e pochissime sono le eccezioni.
Le immagini prodotte sono IMMAGINI DI CONSUMO, sono il prodotto di una narrazione che entra di forza nella sfera emotiva dell’osservatore ma che, dopo essere state “consumate”, non hanno alcun effetto reale, servono solo immagini sensazionali da dare in pasto al grande pubblico che, ovviamente, non ha gli strumenti per codificarle e finisce per subirle passivamente.

Sul tema delle immagini di consumo ho scritto un articolo che lascio qui per completezza https://ecointernazionale.com/2021/09/immagini-diventano-storia-twin-towers-kabul-oggi/


ImmaginE DI Alice Castiglione




pubblicato anche su Vocidallisola.it