-Antonio Minaldi-
OVVERO: DEL SISTEMA INGANNEVOLE DELLA POST-DEMOCRAZIA
I valori legati ai diritti umani e alle libertà d
ella persona, insieme alle regole e alle pratiche democratiche, costituiscono da sempre il più significativo (e controverso) sistema di auto giustificazione e auto legittimazione che sta alla base del “modello occidentale” di società a comando di capitale, in genere definito come modello liberal democratico.
Facendo astrazione delle concrete pratiche di governance che hanno caratterizzato in un passato più o meno recente, e che caratterizzano ancora oggi le società occidentali, anche nelle loro diversità, e muovendoci in una logica di astrazione tipizzante allo scopo di dare un quadro di riconoscimento sintetico delle problematiche in gioco, dobbiamo per prima cosa distinguere lo Stato liberale di diritto dallo Stato liberal democratico. Questa distinzione è fondamentale ai fini della comprensione del nostro discorso, poiché il sistema liberal democratico, che è oggi dominante nelle società occidentali, si è storicamente affermato solo in quanto diretta conseguenza ed evoluzione dello Stato liberale di diritto di stampo ottocentesco, da cui ha ereditato alcuni presupposti e caratteri salienti. Il nocciolo liberale delle moderne democrazie è esattamente quello che principalmente le distingue dalla democrazia antica di stampo ateniese, poiché sono proprio i valori e le pratiche del moderno Stato liberale di diritto che determinano in ultima analisi, la nota opposizione tra partecipazione diretta dei cittadini al processo decisionale del modello antico e sistema della delega delle moderne democrazie rappresentative.
In breve: Il soggetto politico e sociale della democrazia ateniese era il “cittadino guerriero”, caratterizzato innanzitutto dal suo dovere di contribuire al bene comune attraverso la forza e il privilegio di servire e difendere la città attraverso la guerra e l’uso delle armi. Questa condizione era riservata ad una minoranza dei residenti ad Atene. Solo i maschi adulti e liberi, praticamente esentati dal lavoro manuale e dalle pratiche commerciali, e che corrispondeva di fatto alla classe dei medi proprietari terrieri. Nelle moderne liberal democrazie il soggetto di riferimento è il “cittadino libero”, caratterizzato dal diritto primario alla dimensione privata dell’esistenza e dal potere di agire entro la società civile per la difesa e la massimizzazione dei propri interessi personali. La partecipazione politica, anche nelle forme della pura delega, è un diritto, ma non un dovere, poiché ad essa è lecito sottrarsi.
In prima approssimazione possiamo dire che lo Stato liberale di diritto si fonda su alcune libertà personali riconosciute al cittadino su base individuale e sancite in genere nella carta costituzionale. Tali libertà nella loro lontana origine sono basate sul riconoscimento di alcune facoltà e predisposizioni naturali che appartengono a ciascun uomo adulto [1] e la cui incapacità va considerata fatto eccezionale e patologico. La capacità di sapere esprimere giudizi razionali e motivati, e implicitamente di avere interessi personali da difendere, sta alla base della libertà di pensiero. Mentre la capacità di sapere comunicare il proprio pensiero fonda il diritto alla libertà di parola, ma anche di corrispondenza, di stampa e in genere al diritto di poter usare ogni mezzo lecito atto allo scambio di idee e opinioni. Ed ancora la capacità innata di autoconservazione presuppone il diritto a potere gestire il proprio corpo che si traduce nella libertà di circolazione e di domicilio, e più in generale nel diritto alla salvaguardia della propria integrità fisica.[2]
Avviene poi che a partire dall’inizio del secolo passato l’impianto tradizionale dello Stato liberale viene messo in crisi, a causa dei suoi limiti, dalle lotte operaie e dai movimenti popolari che rivendicano maggiore equità nella distribuzione della ricchezza e pari opportunità di accesso ai beni sociali. Lo scontro, che si caratterizza prevalentemente come scontro di classe, produce come momento di mediazione istituzionale la nascita dei cosiddetti diritti sociali fondati sul principio della pari dignità sociale di tutti i cittadini e di tutti i ceti. I nuovi diritti appaiono per la prima volta in maniera compiuta in Germania all’indomani della sconfitta del primo conflitto mondiale, prevalentemente ad opera della socialdemocrazia tedesca, nella Costituzione di Weimar, e si sostanziano fondamentalmente nel diritto alla salute, nel diritto all’istruzione, e nel diritto ad una esistenza dignitosa, lontana cioè dalle condizioni di povertà estrema. I diritti sociali diventeranno poi nel corso del XX secolo, spesso in parallelo con le politiche di welfare di ispirazione keynesiana, patrimonio dei valori costitutivi di varie formazioni statali, compresa la nascente Repubblica italiana, come si evidenzia dai contenuti della nuova Costituzione promulgata nel 1948.
I nuovi diritti cambiano il volto del vecchio Stato liberale e aprono la via alla nascita dello Stato liberal democratico. La vecchia macchina statale doveva limitarsi al rispetto delle libertà riconosciute ai suoi cittadini. Doveva in sostanza limitarsi a non intervenire in alcuni ambiti in cui veniva riconosciuta la capacità della società di auto regolarsi sulla base delle scelte libere e razionali dei suoi cittadini. Il compito dello Stato liberale era soltanto quello di vigilare che nessuno barasse e che le regole del gioco fossero rispettate senza che la libertà di qualcuno negasse quella degli altri attori sociali. Compito dello Stato sociale è invece quello di promuovere politiche attive in favore dei ceti e degli individui deprivilegiati, allo scopo di colmare lo svantaggio e tendenzialmente annullarlo.
Come si può constatare sia le “libertà formali” che i “diritti positivi” hanno senso solo nel loro porsi in relazione con lo Stato, come massima espressione del potere sovrano, in quanto pongono a quest’ultimo delle particolari condizioni d’esistenza, che mentre ne limitano l’arbitrio (anzi proprio perché ne limitano l’arbitrio) si pongono come fondamenti della sua legittimazione. In definitiva lo Stato liberale si auto legittima in quanto sovranità che non interferisce con la libera espressione della società civile[3] limitando il suo intervento alle funzioni di polizia. Lo Stato sociale di diritto invece non può limitarsi a garantire le libertà, ma deve intervenire (almeno nelle intenzioni) per correggere le storture e le diseguaglianze che si producono nella società, sostanzialmente a causa del mercato. Questa nuova finalità moltiplicando le funzioni, gli apparati e la presenza della “cosa pubblica” nella vita dei cittadini, ha necessariamente bisogno un tipo di legittimazione più ampia e più coinvolgente per l’insieme dei ceti sociali, più o meno coinvoltiti nelle iniziative della mano pubblica. E’ per questa via che lo Stato liberale ottocentesco si evolve nel secolo successivo nello Stato liberal democratico.
Oggi le politiche di stampo keynesiano sono state messe in soffitta e nella cittadella imperialista dell’occidente si sono affermate con sempre maggiore forza logiche di tipo neoliberista, che ricalcano, seppure in un diverso contesto e in maniera più raffinata e pervasiva, alcuni caratteri legati alla (apparente) indifferenza sociale del vecchio Stato liberale. A tal proposito sarebbe forse più corretto parlare oggi di Stato neo liberista e post democratico piuttosto che di liberal democrazia. Si noti tuttavia come i valori e l’impianto strutturale dello Stato liberal democratico siano rimasti formalmente inalterati, senza produrre sostanziali mutamenti di ordine costituzionale. Come è possibile?
La storia ci insegna che le Carte Costituzionali che sono, o dovrebbero essere, il fondamento dello Stato, dettando modi, forme e limiti dell’esercizio del potere sovrano, in realtà hanno la tendenza a conservarsi sostanzialmente invariate anche di fronte a profondi mutamenti istituzionali e di governance. [4]. La nascita di una nuova Carta è un fatto eccezionale legato a profonde cesure storiche, quando i nuovi governanti ci tengono a marcare la profonda rottura col passato. Questa grande duttilità delle norme fondamentali, capaci di mantenersi vigenti pur nel profondo mutare delle circostanze storiche e degli assetti del potere pubblico, è tutt’altro che un segno di forza, quanto piuttosto un segno di evidente debolezza. Le carte fondamentali sono in realtà estremamente fragili. Sono principi e valori scritti sulla carta. Non hanno gambe proprie ed hanno bisogno di governi e parlamenti. In buona sostanza hanno bisogno della politica e dei suoi andamenti ondivaghi, per fare sentire la propria voce. In termini tecnici questa “impotenza” deriva dal fatto che i dettami costituzionali, in specie quelli che sanciscono diritti e doveri dei cittadini, sono fissati in norme primarie che non producono effetti immediati perché si limitano ad affermazioni valoriali e di principio e non contengono indicazioni specifiche sui processi di attuazione, né su eventuali aspetti sanzionatori, laddove necessario. Tocca alle norme secondarie prodotte nell’agone politico renderle efficaci. E’ questo un passaggio comunque sempre molto scivoloso e problematico, e non è certo un caso se negli ordinamenti sia prevista l’esistenza di alte corti di giustizia o di apposite Corti Costituzionali, preposte al controllo di legittimità delle norme secondarie, segno evidente della problematicità della questione. Il paradosso, in un certo qual senso, sta nel fatto che l’attuazione delle norme fondamentali viene demandato a quel potere sovrano il cui possibile arbitrio è esattamente ciò che la Carta costituzionale dovrebbe controllare e indirizzare.
E’ comunque doveroso aggiungere che nella realtà delle cose, il contenuto della decisione sovrana non è vincolato solamente all’esistenza delle norme costituzionali. Questa sorta di braccio di ferro tra valori e regole universali poste come limite ed indirizzo della decisionalità politica, e dalla parte opposta la propensione all’arbitrio da parte del potere sovrano, ha dovuto fare i conti a sua volta con un terzo incomodo rappresentato dalla costante crescita degli apparati statali, che ad onta della loro originaria funzione puramente esecutiva (forze di polizia e burocrazia amministrativa) o separata (magistratura), hanno guadagnato nel tempo un ruolo decisivo di governo delle cose e della complessità e conflittualità sociale, grazie alla loro costante crescita in dimensione ed importanza, e grazie all’accumularsi e standardizzarsi di pratiche operative di potere e controllo sociale, che si riproducono nel tempo sempre più impermeabili alla espressione politica del potere sovrano, troppo spesso caratterizzato, almeno in apparenza, da repentini cambi di direzione.
Quello che si vuole dire, in buona sostanza, è che il governo reale della società civile da parte della macchina statale, non può essere esaustivamente spiegato, se ci si limita agli aspetti che riguardano le istituzioni politiche e gli assetti normativi che le caratterizzano. Ne consegue che quel rapporto, di cui ci stiamo occupando in questo scritto, tra formali valori liberal democratici e loro reale concretizzazione in meccaniche istituzionali, deve essere considerato come parte di un più ampio problema che riguarda il potere di controllo e di indirizzo dell’organizzazione sociale. La governance nel suo senso più ampio.
Proprio per dare conto della distanza che può generarsi nel rapporto tra garanzie del cittadino ed espressione della sovranità, tra gli aspetti puramente formali da un lato, e la concreta realtà fattuale dall’altro, prima di entrare nel merito di ulteriori questioni giuridico istituzionali, diamo conto di quelle che sembrano essere due tipiche storture che si generano entro i sistemi democratici, (o che si pretendono tali).
La prima questione è di ordine generale, in quanto pertiene al nodo centrale del funzionamento delle liberal democrazie; E’ cioè di tipo strutturale. Ci riferiamo alla precarietà del rapporto tra libertà del cittadino e discrezionalità del sovrano che le norme costituzionali devono regolare. La pervasività decisionale degli esecutivi oltre i limiti imposti dalla legge, come abbiamo visto, avviene spesso in modo fattuale, e comunque non del tutto esplicitamente dichiarato, attraverso pratiche di controllo sociale accettate come usuali e perpetrate degli apparati della macchina statale. Altre volte tuttavia la decisione sovrana, quando caratterizzata da un eccesso di autorità, viene giustificata come necessaria, in quanto provocata da un qualche presunto “stato di emergenza”. Va sottolineato, a tal proposito, che per una parte significativa della dottrina ciò che caratterizza l’essenza stessa della sovranità è per l’appunto la decisione presa in stato d’eccezione, secondo la nota formula di C. Schmitt[5].
L’eccezionalità delle congiunture, che richiama anche il vecchio concetto della “ragion di Stato”[6], e che impone ai governi di essere all’altezza della situazione, si riferisce in genere alla presunta necessità di difendere gli interessi nazionali , di cui centrale è quello che riguarda la sicurezza dello Stato. In queste circostanze, l’enfasi posta dai governanti sulla necessità di un intervento immediato e risolutivo per scongiurare l’imminente (e spesso immaginario) pericolo, va oltre la logica dell’atteggiamento semplicemente giustificativo, ma serve al contrario a sottolineare le capacità decisionali e l’autorità che devono caratterizzare le pratiche del buon governo. L’affermazione di una emergenza permanente e il conseguente ricorso ad una dimensione fortemente decisionista e invasiva della politica, diventano in questo modo la misura del livello di autoritarismo di un governo. Oggi siamo sempre più di fronte all’affermarsi di una sorta di “ossimoro” politico e sociale, che vede il modello definibile “governo dell’emergenza” come status di normalità di un presente caratterizzato dall’oggettiva difficoltà della govrnance in un Occidente capitalista e neo liberista sempre più in crisi.
La storia e le scelte politiche e militari degli Stati Uniti, non a caso il luogo più rappresentativo del mondo occidentale, sono esemplari di questa deriva illiberale e autoritaria. Più volte i diritti umani e civili sono stati calpestati in modo evidente e senza nessun ritegno. Citiamo solo due esempi. Quello più recente riguarda la vicenda del giornalista Assange[7], che pare rischi 176 anni di carcere semplicemente per avere denunciato crimini di guerra perpetrati dall’esercito a stelle e strisce. Crimini, che si badi bene, non vengono negati dalle autorità statunitensi, ma dei quali si rivendica semplicemente il diritto alla segretezza per il bene della nazione. Insomma gli interessi geopolitici e militari dello Stato vengono dichiaratamente considerati prioritari rispetto al diritto alla libera informazione, che, va sottolineato, è parte e conseguenza diretta di quello che è uno dei più importanti tra i moderni diritti. Vale a dire la possibilità di potere liberamente esprimere tramite la parola, in tutte le sue possibili forme, orali e scritte, il proprio pensiero, la propria opinione, o ancora più semplicemente di potere comunicare e divulgare ciò che è di pubblico interesse e di cui si è a conoscenza.
La seconda questione riguarda il totale arbitrio perpetrato nel vergognoso carcere di Guantanamo, dove l’uso sistematico della tortura fisica e psicologica su prigionieri illegalmente detenuti senza alcun processo, continua ad essere perpetrata ad ormai più di vent’anni dagli attentati alle torri gemelle. In questo caso, oseremmo dire da manuale dell’illegalità e della vergogna, lo spregio delle più elementari garanzie giuridiche e dei più elementari diritti arriva a negare quella inviolabilità personale che non casualmente, è stata sancita sin dalle origini della cultura giuridica moderna attraverso il principio, per altro di origine anglosassone, dello Habeas corpus[8].
Ciò che più impressiona rispetto a queste pratiche contrarie ai più elementari diritti, perpetrate dai governi USA, è poi l’arroganza con cui, coloro che si sentono padroni del mondo e paladini di una presunta ed ingiustificata superiorità della civiltà occidentale, pretendono di legittimare le guerre, che a difesa dei propri interessi portano in ogni angolo della terra, con l’idea di essere filantropici “esportatori di democrazia” in paesi non ancora toccati dai salvifici valori dell’occidente a conduzione yankee. Forse il punto più alto dell’uso ideologico, strumentale e distorcente degli antichi valori occidentali.
Altra questione che peggiora gravemente le condizioni reali di funzionamento delle liberal democrazie è la crisi progressiva del principio della divisione dei poteri, che da sempre viene considerato un suo fiore all’occhiello. Un irrinunciabile punto di riferimento perché il modello istituzionale delle democrazie occidentali possa esprimere pienamente tutto l’intrinseco valore dei suoi migliori contenuti. Ormai da lungo tempo, e in modo progressivo, in tutti i paesi dell’occidente la separazione tra il potere legislativo e il potere esecutivo tende di fatto a scomparire a favore di una sempre maggiore capacità decisionale dei governi che, non sempre ma nella maggioranza dei casi, possono avvalersi di una larga e acquiescente maggioranza parlamentare e di minoranze sempre più ridimensionate nel loro ruolo di opposizione, a volte a causa di normative penalizzanti, più spesso per l’affermarsi ormai generalizzato del pensiero unico di stampo neoliberista. Ancora più grave mi pare, nella logica dell’equilibrio dei poteri, il progressivo venir meno del ruolo della Magistratura, che nella originaria visione della divisione dei poteri, cosi come canonicamente descritta da Montesquieu[9], sostanzialmente sulla base dell’esperienza inglese, avrebbe dovuto usare la legge (nel mondo anglosassone il common law) e assicurare l’ordine sociale, garantendo il cittadino attraverso il giusto processo e proteggendolo (questione centrale ai fini del nostro discorso) dai possibili abusi e dall’arbitrio dei governanti e dei potenti[10]. Non sembra che, allo stato attuale delle cose, il problema della magistratura sia una perdita di potere o di autonomia decisionale, quanto piuttosto il suo essere sempre più politicizzata e interfacciata e concorrenziale con gli altri luoghi del potere, il che la fa scivolare verso la perdita di quei valori di legalità garantista che erano la ragione che giustificava la sua autonomia dal potere politico.
L’altra condizione tipica di una pseudo democrazia è quella che viene generalmente definita come “democratura” o democrazia illiberale[11], e che sembra invece tipica di paesi che hanno scoperto da poco le virtù della democrazia senza avere alle spalle una solida tradizione liberale. Situazione molto complessa e fortemente contraddittoria poiché nelle attuali condizioni storiche non può esistere alcuna separazione tra liberalismo e democrazia, appartenendo la democrazia non liberale al lontano passato storico (Atene) o al lontano passato della ricerca teorica (Rousseau)[12], mentre il liberalismo senza democrazia è piuttosto il presupposto storico, ormai archiviato, da cui si sono evoluti, come abbiamo già detto, gli attuali regimi liberal democratici. In molti casi di democrazia illiberale sono coinvolti paesi che per varie ragioni (storiche, politiche, geografiche) si sono trovati in una qualche vicinanza con i paesi occidentali, e sono stati, per così dire, indotti (o costretti) ad imitarli, poiché per l’Occidente le istituzioni liberal democratiche, almeno formalmente, sono punti d’arrivo e questioni di principio dalle quali non si può tornare indietro, divenendo anche, per questa via, l’elemento principale di giudizio per i vari sistemi politici sparsi per il mondo. Si tratta, dunque, di democrazia generalmente acquisita per “contagio” e non attraverso lunghi e complessi percorsi storici, e sostanzialmente mai realmente metabolizzata. Ne sono un esempio i casi di vari paesi dell’ex blocco sovietico, spesso inglobati nell’Unione Europea e nella Alleanza Atlantica, per aderire alle quali una parvenza anche sbiadita di un sistema democratico è obbligo inderogabile[13]. Si tratta spesso di sistemi dominati da oligarchie coagulate intorno alla figura di un oligarca “principe” saldamente al potere per lunghi periodi di tempo e che finisce con l’identificarsi con la nazione, come si evince anche da alcuni usuali modi di dire, del tipo “La Russia di Putin” o “La Turchia di Erdogan”.
Torniamo ora al rapporto tra garanzie di libertà ed espressione della sovranità così come configurato nelle moderne democrazie a livello costituzionale, e cioè in senso giuridico istituzionale, anche astraendo, se necessario, dalla dimensione storico fattuale. Questo rapporto di “reciprocità” tra riconoscimento del sovrano e rispetto dei diritti del cittadino nelle condizioni del vecchio Stato liberale ottocentesco semplicemente non funzionava per la inesistenza, o nella migliore delle ipotesi, per la inconsistenza degli organi istituzionali eventualmente preposti al controllo del rispetto delle norme.
Con la crescita delle istanze dal basso e l’entrata in gioco dei diritti sociali, la soluzione è stata quella di far convergere libertà e sovranità. In pratica la massa dei portatori dei diritti, vale a dire i cittadini che costituiscono lo Stato, diventano nel loro insieme, in quanto popolo, i titolari della sovranità. Oppure, detto in altro modo: Il cittadino portatore di diritti inalienabili della persona in quanto singolarità, diviene anche titolare della sovranità in quanto membro della comunità. Il principio è perfettamente dichiarato nell’art: 1 della Costituzione italiana dove si afferma con grande semplicità e chiarezza che “la sovranità appartiene al popolo…”. A questo punto si potrebbe insistere sull’ovvio discorso di quale abissale distanza ci sia tra ciò che sta scritto sulla carta e la realtà delle cose (come per altro abbiamo già accennato sopra). Il guaio è però che il concetto di “sovranità popolare” non funziona neppure sul piano logico e giuridico formale.
Precisiamo subito che le argomentazioni che seguono non vogliono affatto sminuire il grande valore simbolico ed ideale che il concetto di sovranità popolare ha in generale ed in particolare come fondamento della nostra carta costituzionale. Ma per l’appunto di questo si tratta: di un valore simbolico ed ideale con ricadute reali anche positive, ma con un portato di difficoltà e di ambiguità che nella sostanza delle interpretazioni mainstream portano anche all’inganno e alla mistificazione.
Nell’espressione “sovranità popolare”, e nel concetto che esprime, il potere sovrano del popolo non va inteso come esercizio diretto ma come delega ad altri, in pratica ad una élite di governanti. In prima approssimazione si può dire che la delega ha valore di legittimazione per chi il potere lo esercita nei fatti. A questo livello “il popolo” ha la stessa funzione che aveva “Dio” per i monarchi medievali che in nome suo e per sua delega, esercitavano il diritto di governare. Ovviamente non è proprio la stessa cosa: Due le differenze fondamentali con effetti positivi anche molto significativi. La prima è che la delega non è ipotetica come quella divina, ma determinata entro le regole di uno specifico sistema elettorale (la cui qualità ovviamente determina anche e in modo sostanziale, la qualità della stessa democrazia)[14]. L’altra è che la delega deve essere periodicamente rinnovata, il che porta ad una circolazione delle élite al potere come dato peculiare delle moderne democrazie[15]. La delega comunque è in bianco e non prevede imperatività di mandato, e dunque possibilità di revoca tra un momento elettorale e il successivo. Insomma il popolo non governa, ma si limita a scegliere periodicamente chi ha il diritto di governare.
Va detto inoltre che la scelta dei governanti da parte degli elettori è fortemente condizionata, nella sua libera espressione, dalla offerta politica di fatto disponibile nella singola competizione elettorale. In parole povere si può votare solo per il partito che c’è e per il candidato che c’è, non per quelli che non ci sono. Le possibilità di scelta sono necessariamente predefinite e limitate. Si può ovviamente obiettare che come per qualunque mercato, anche per quello della politica, la domanda e l’offerta dovrebbero condizionarsi a vicenda, in modo che una visione o opinione diffusa a livello popolare dovrebbe sempre produrre una risposta in termini di proposta politica, formalizzata e in competizione. Questo tuttavia può essere vero, o comunque avere una certa plausibilità, per i grandi numeri, ma non per le scelte di minoranza che il singolo elettore avrebbe il diritto di fare, anche nella prospettiva di innescare un meccanismo di crescita futura. Si tenga inoltre conto che anche nel determinarsi dei soggetti competitori nell’agone politico, sia individuali che associati, ha un’importanza fondamentale la legge elettorale e il suo sistema di regole per la selezione dei candidati prima e degli eletti poi[16]. In ogni caso il dato che va necessariamente posto al centro delle riflessioni sul rapporto tra domanda e offerta politica è quello di una incontestabile e progressiva disaffezione dei cittadini per le competizioni elettorali, come è ampiamente testimoniato dal continuo aumento degli astenuti che si verifica, dati alla mano, praticamente in tutte le democrazie di più antica tradizione e che è chiaro indicatore di un evidente e diffuso disagio. L’apparente, e tuttavia molto significativo, paradosso di questa situazione sta nel fatto che la caduta d’interesse per la politica da parte dei potenziali elettori, sembrerebbe verificarsi in contemporanea con una costante crescita dell’offerta politica grazie al continuo moltiplicarsi di partiti, associazioni, e più spesso semplici aggregati elettorali. Il nodo per comprendere questo arcano sta probabilmente nel sapere distinguere tra quantità e qualità dell’offerta politica. Una volta il sistema dei partiti, forse anche a causa di un mondo diviso in blocchi tra occidente capitalistico e blocco sovietico, si presentava caratterizzato da una significativa stabilità e continuità nel tempo, in ragione di una forte caratterizzazione valoriale fondata su precise visioni del mondo, e di conseguenza precise ipotesi di lungo periodo. La possibilità di scegliere tra cattolici, comunisti, socialisti, socialdemocratici, liberali, perfino formazioni di estrema destra, creava le condizioni di una vera ed ampia offerta politica legata a effettive e dirimenti scelte strategiche e di campo. Oggi i valori si sono liquefatti, o per meglio dire, sono venuti meno nella loro complessità, anche contrapposta e competitiva, e a volte antagonista, per lasciare il campo all’affermarsi del pensiero unico di stampo neo liberista. L’attuale moltiplicarsi dell’offerta politica è solo apparente, e dunque è ingannevole. Non riguarda le grandi questioni ideali legate alla povertà e alla ricchezza, e all’ipotesi di una società più giusta. Gli assetti sociali basilari sono lasciati al libero mercato e alle sue regole. Alla politica al massimo spetta lo scontro sulla interpretazione dei diritti civili e umani, con implicazioni egualmente fondamentali, ma che in una “società ideale” non dovrebbero essere oggetto di contenzioso, in quanto costituzionalizzati e dunque definitivamente acquisiti. In sintesi l’offerta politica oggi vive su un letale e paradossale ribaltamento: Da per scontate e per inevitabili le ineguaglianze sociali e le storture prodotte dal mercato e si scontra invece su quello che dovrebbe essere un patrimonio comune di diritti, che dovrebbero essere ormai non più in discussione.
A questo punto chiediamoci come sia possibile che “il popolo”, che in teoria è sovrano per dettato costituzionale, non abbia al momento armi per opporsi a questo stato di cose. La difficoltà da superare sta soltanto in quei limiti, di cui ci siamo occupati, di semplice rappresentanza delegata in cui consiste la sua sovranità o c’è dell’altro? Ebbene purtroppo c’è dell’altro!
La questione che va posta a questo punto in modo radicale è: esiste davvero e tangibilmente un soggetto politico e giuridico nei sistemi liberal democratici che si possa definire “popolo”? A volerla dire tutta in modo sintetico, definitivo, e magari anche un po’ “ad effetto”, la risposta è semplicemente. No! Un simile soggetto non esiste. Vediamo di spiegarci meglio.
“Popolo” è un nome collettivo che viene in genere usato a livello degli studi storici, antropologici ecc. come riferimento per indicare un aggregato umano più o meno omogeneo dal punto di vista etnico, linguistico, religioso, e culturale. La Treccani insiste sugli aspetti comuni di natura etnica e nazionale e ci avverte che il concetto indica una nazione “indipendentemente dal fatto che l’unità e l’indipendenza politica siano state realizzate”. Per Oxford Languages più prosaicamente il termine indica innanzitutto “collettivamente i sudditi dei uno Stato”. Come si vede il concetto è molto difficile e complesso, come si evince dal fatto che la stessa scelta dei termini con cui definirlo mette in gioco, oltre le questioni puramente linguistiche, differenti posizioni ideologiche e politiche, che finiscono col riguardare la stessa percezione di sé che hanno le comunità a cui ci si riferisce quando, per l’appunto, si usa il termine in questione. Sarà per questa ragione che nella terminologia giuridica il termine assume il senso semplificato, e almeno in apparenza più asettico, di “complesso degli individui cui sono attribuiti i diritti di cittadinanza nello Stato” (ancora la Treccani)
E’ esattamente a questo significato di semplice aggregato di individui che ci deve riferire per comprendere il senso del termine popolo così come espresso anche nell’Art. 1 della nostra Carta Costituzionale, malgrado da sempre una retorica fortemente ideologizzata, riferibile a posizioni di sinistra politica anche di contenuto radicale, vi abbia spesso scorto il riferimento ai valori, almeno potenzialmente progressivi, di un soggetto collettivo.
Per spiegarci bene dobbiamo, ancora una volta, insistere sulle problematiche legate alla formula che sta alla base delle moderne Costituzioni, nelle quali il termine popolo è strettamente associato a quello di sovranità. Qui il problema non riguarda soltanto il fatto che, come abbiamo visto, detta sovranità è fortemente condizionata nel senso di una semplice scelta dei governanti, sulla base di una precisa e limitata (nonché limitante) offerta politica. A questo va aggiunto che anche la scelta dei propri rappresentanti avviene sulla base di procedure elettorali che, come è prassi comune e valore condiviso in tutte le democrazie occidentali, si fondano esclusivamente sulle opzioni strettamente individuali del cittadino elettore, senza mettere mai in gioco il possibile esprimersi, in una qualunque forma pensabile, di un qualche soggetto collettivo. Come si sa il voto è per principio, ormai “sacralizzato”, strettamente personale e segreto. nonché materialmente espresso nella solitudine di una cabina elettorale separata dal resto del mondo. Alla fine lo stesso esito elettorale, quello che, spesso in modo enfatico, viene definito come il prodotto della volontà popolare, altro non è che il semplice aggregato statistico di un insieme di decisioni strettamente individuali.
La questione che riguarda questa atomizzazione del corpo elettorale viene spesso sottaciuta, o comunque sottovalutata, probabilmente a causa del fatto che si tende erroneamente a non percepire la differenza che corre tra la decisione sul merito delle questioni (decisione diretta o tramite rappresentanti eletti), con le modalità procedurali della scelta (assembleare o individualizzata). Se la democrazia ateniese (come quella dei Comuni medievali italiani) era diretta e assembleare, ciò non significa che non si possano pensare forme “ibride” di democrazia. Oggi, per esempio, si parla molto della esigenza che, nei moderni sistemi politici, la democrazia rappresentativa sia affiancata da forme di democrazia diretta, quali sono soprattutto le varie forme di referendum (abrogativo, confermativo, propositivo). In tutti questi casi tuttavia si parla, in modo approssimativo e sostanzialmente fuorviante, di democrazia diretta, in ragione del semplice fatto che i cittadini sono chiamati ad esprimersi sul merito delle questioni, ignorando che si tratta comunque di democrazia a espressione individualizzata, senza partecipazione collettiva, in cui pertanto il merito non può essere discusso né modificato, ma semplicemente approvato o respinto, esattamente con i contenuti e nella forma in cui è stato proposto.[17]
A conclusione del nostro discorso una domanda necessariamente si pone: Rebus sic stantibus, considerando cioè tutti i limiti, anche ideali, di principio e strutturali, che sono parte delle contemporanee società occidentali, dobbiamo ritenere chiuso il discorso, e dobbiamo quindi muoverci entro prospettive radicalmente diverse con l’obiettivo di consegnare all’oblio della storia pratiche e valori della liberal democrazia, considerandoli esclusivamente come figli del progressivo imporsi del dominio capitalista? Questa visione, in cui si mette tutto ciò che riguarda la storia della modernità entro la casella “valori prodotti del nemico di classe”, liquidando come “libertà borghese” ogni discorso inerente i diritti, è ciò che ha caratterizzato la storia ufficiale del movimento operaio a partire dalla rivoluzione d’ottobre e per tutto l’arco della costruzione del socialismo sovietico, fino all’atto finale della sua ingloriosa fine, perpetrata anche simbolicamente con la caduta del muro di Berlino.
L’errore di questa impostazione “manichea”, consiste nel non comprendere che la storia non è il prodotto di un dominio fondato su meccanismi statici autoprodotti e autoreferenziali, quanto piuttosto la capacità di chi detiene le leve del comando (la classe dominante) di sapere fare fronte al costante riproporsi del conflitto sociale, attraverso l’uso della forza ma anche attraverso una capacità di mediazione che ingloba, trasfigurandole, le stesse istanze di cambiamento delle forze antagoniste. I cosiddetti “diritti umani” sono il frutto di un processo storico di questo tipo. Nel loro nocciolo valoriale essi sono il frutto delle lotte rivoluzionarie dei popoli (qui intesi come reali soggetti collettivi), a partire dalla rivoluzione francese e lungo un arco conflittuale che giunge fino alle lotte dei nostri giorni. Per altro verso essi sono anche il prodotto delle mediazioni, inevitabilmente accomodanti, e quindi al tempo stesso distorcenti e ingannevoli, del riprodursi del potere politico e sociale, che tuttavia quelle primordiali istanze rivoluzionarie non può cancellare del tutto. Lo stesso modello di governo liberal democratico, con tutto il male che giustamente se ne possa dire, è il prodotto storico della mediazione istituzionale fatta dai vincitori a loro vantaggio, in risposta a quelle che in origine erano comunque istanze di libertà e bisogno di partecipazione politica dal basso, che caratterizzavano le lotte delle classi subalterne.
La via da seguire a questo punto non può essere quella della semplice negazione della storia così come scritta da chi ad oggi ha vinto la partita, quanto piuttosto quella di scoprire le parti occultate o mistificate, eppure presenti in trasparenza, di quella storia, per riportarle alla piena luce del loro originario valore progressivo e rivoluzionario. La questione dei diritti umani e civili e i valori legati ai concetti di libertà e democrazia non appartengono solo alle interpretazioni istituzionalizzate delle classi egemoni, ma nella loro essenza, (oggi a volte sbiadita e altre volte perduta) sono parte di un patrimonio comune che deve essere sottratto a chi se ne è impossessato al fine egoistico di perpetrare la propria posizione di comando, perché rivivano in una nuova prospettiva che sappia valorizzarne tutto il potenziale di positiva trasformazione sociale.
I soggetti del mutamento devono passare dall’essere semplici consumatori di libertà e democrazia, così come oggi disponibili nel mercato della politica (Libertà egoistica dell’uomo proprietario e democrazia individualista della semplice delega in bianco)[18], alla capacità di proporsi come produttori di libertà e democrazia, intese come valori condivisi di incontro, socializzazione e costruttiva partecipazione dal basso, per la costruzione di una nuova casa comune. E’ questo il solo modo di diventare realmente “Popolo”[19], nel senso di quel soggetto collettivo, capace di autodeterminazione e protagonista della storia a cui allude, senza dargli gambe per cercare la giusta via, la nostra Costituzione.
NOTE
[1] La prima vera discussione moderna di cui si ha notizia sui soggetti a cui riservare i diritti di partecipazione politica sono i dibattiti di Putney, avvenuti nel 1647 nell’ambito della rivoluzione inglese e all’interno dell’esercito rivoluzionario (New Model Army). Da una parte stavano gli “Indipendenti” seguaci del “Lord Protettore” Oliver Cromwell, per i quali i diritti politici andavano riservati ai cittadini possidenti, i quali per salvaguardare i propri interessi si sarebbero battuti per assicurare l’ordine pubblico e il corretto funzionamento dello Stato. Gli “Indipendenti” in questo modo riproponevano (senza citarlo) il modello del vecchio cittadino ateniese: Maschio, adulto e proprietario. Di fronte agli uomini del governo stavano i “Livellatori” i quali sostenevano di fatto il suffragio universale maschile, sulla base dell’idea che lo Stato, nel momento in cui pretende ubbidienza, deve appartenere a tutti, a prescindere dal censo. Come è ovvio, nessuno a quell’epoca, prendeva in considerazione le donne e i “selvaggi” delle colonie.
Passata la stagione delle grandi rivoluzioni, nel corso dell’ottocento il diritto di voto nell’Europa liberale veniva fortemente limitato, o sulla base del censo o sulla base del livello d’istruzione. Tuttavia sul finire del secolo, sulla spinta della lotta di classe operaia e dei primi embrionali movimenti femministi si assiste a due importanti svolte. Nel 1871 in Germania veniva introdotto il suffragio universale maschile e nel 1893 nella lontana Nuova Zelanda il suffragio universale vero e proprio, senza distinzioni di sesso.
[2] L’idea che i diritti siano legati alla stessa natura dell’uomo nasce con il giusnaturalismo moderno. Il presupposto concettuale di tale filosofia è il riconoscimento della natura razionale dell’essere umano, che è portatore di diritti proprio in quanto dotato di una soggettività in grado di riconoscerli e rivendicarli, innanzitutto per il proprio vantaggio personale. E’ così in Locke in cui lo Stato deve limitarsi a garantire il libero gioco degli interessi proprietari dei cittadini, ma è così anche in Hobbes in cui lo Stato “Leviatano” è comunque il prodotto della volontà dei suoi stessi sudditi. Si vedano: J. Locke, ”Il secondo trattato sul governo”, Rizzoli, Milano 2016. - T. Hobbes, “Leviatano”, Rizzoli, Milano 2011. Sul pensiero giusnaturalista rimandiamo al classico N. Bobbio, ”Giusnaturalismo e positivismo giuridico”, Laterza,
Bari 2011.
[3] La distinzione tra Stato e società civile viene fatta risalire ad Hegel (Hegel, ”Liniamenti di filosofia del diritto”, Laterza, Bari 1999). In realtà quella separazione tra società e Stato che è divenuta canonica e fondativa sia del pensiero liberale che del pensiero liberista e neo liberista, trova le sue vere radici in Locke (cfr. la nota 2 di questo testo). Per il pensatore inglese la società deve essere concepita come autosufficiente, con la sola eccezione delle funzioni di ordine pubblico che vengono demandate allo Stato come sua unica prerogativa.
L’originaria impostazione di Locke è stata fortemente radicalizzata in tempi recenti dai pensatori detti libertariani. Tra di loro ricordiamo i fautori della “miniarchia”, il cui punto d’approdo è il concetto di “Stato minimo” di Nozick, in cui il potere pubblico si limita alla funzione di “guardiano notturno” (R. Nozick, “Anarchia, Stato e utopia”, il Saggiatore, Milano 2000). Ancora più estrema la posizione degli “anarcocapitalisti”, per i quali qualunque ipotesi di potere pubblico deve essere negata, poiché la società civile, attraverso la concorrenza privata, è ritenuta in grado di assicurare tutte funzioni necessarie alla sua sopravvivenza e riproduzione, comprese quelle di polizia e magistratura. (Sull’anarco capitalismo si veda: P. Lemieux, “L’anarco-capitalismo”, Liberilibri, Macerata, 2018)
[4] I casi più emblematici di profondi mutamenti degli assetti istituzionali con sostanziali cambiamenti di regime, e che tuttavia hanno mantenuto formalmente in vigore i vecchi ordinamenti costituzionali pur avendoli stravolti nei fatti, rendendoli del tutto inefficaci, sono legati alla nascita della dittatura fascista in Italia, che non intaccò lo “Statuto albertino” (1848), e al regime nazista tedesco che convisse fino alla fine con la vecchia “Costituzione di Weimar” (1919).
Un caso del tutto originale è quello del Regno Unito che pur essendo considerata la patria del moderno costituzionalismo, non ha in realtà una vera Costituzione, ma un insieme di atti fondativi che si sono sommati nel tempo a partire dalla “Magna Carta Libertatum” (1215) fino praticamente ad oggi, senza vere procedure formali di tipo abrogativo, segno di una continuità storica, che tuttavia è più pretesa che reale.
[5] La formula di C. Schmitt “Sovrano è colui che decide sullo stato d’eccezione”, in C. Schmitt, “Le categorie del politico”, il Mulino, Bologna 2013.
[6] La locuzione “Ragion di Stato” fu coniata da Giovanni Botero in aspra polemica nei confronti del macchiavellismo e della pretesa che la politica potesse darsi uno statuto proprio, del tutto indipendente dalla religione e dalla chiesa. Col tempo tuttavia ha finito col divenire, paradossalmente, espressione giustificativa del bisogno di autonomia della decisione politica sovrana. (G. Botero, ”La ragion di Stato”, Donzelli, Roma 2009)
[7] Accanto alla vicenda di Julian Assange, vogliamo citare, tra le altre, quella meno nota che riguarda Alex Saab, un diplomatico venezuelano, proditoriamente sequestrato e trasferito nelle carceri statunitensi, in violazione dell’immunità diplomatica riconosciuta dal diritto internazionale. Tutte le accuse tra le quali quella di riciclaggio internazionale di denaro, in realtà si riferiscono ad accordi commerciali stipulati per aggirare le sanzioni imposte al Venezuela dagli USA.
Al momento della stesura di questo scritto le vicende che riguardano Assange e Saab non sono ancora concluse.
[8] ] Habeas corpus è un principio dei sistemi giuridici del common law, che in pratica garantisce contro la detenzione arbitraria, stabilendo precise condizioni per potere limitare la libertà del suddito/cittadino. Il principio è già presente nella Magna carta libertatum del 1215, ed è stato poi ribadito nello Habeas corpus act del 1679. Anche se in seguito sospeso diverse volte nella stessa storia del Regno Unito, il principio ha finito per imporsi a livello generale come uno dei cardini del moderno
Stato di diritto.
[9] Montesquieu, “Lo spirito delle leggi”, UTET, Milano 2015
[10] L’idea che la magistratura abbia tra i suoi compiti originari e costitutivi quello di garantire il suddito/cittadino dall’arbitrio del potere sovrano è particolarmente significativa nella tradizione giuridica anglosassone, che fu fonte di ispirazione anche per Montesquieu. Se ne trova ancora oggi traccia evidente nell’istituto del Judicial review, comune nei sistemi di common law, attraverso il quale è concesso anche alla singola corte di giustizia di sospendere, pur limitatamente al caso in questione, l’applicazione di una norma o di un atto governativo, qualora si ravvisasse una violazione costituzionale o una qualche incompatibilità con i fondamentali principi di giustizia.
[11] “il termine di democrazia illiberale venne usato da Fareed Zakaria nel 1997 su Foreign Affairs” (fonte WikipediA). Il riferimento è comunque generico potendosi applicare a varie forme imperfette di democrazia che vanno dall’eccesso di autorità dell’esecutivo, all’eccesso di centralizzazione politica ed amministrativa, fino a vere e proprie “democrazie totalitarie”.
Il tratto comune sembrerebbe essere quello di un accentuata strumentalizzazione populista della consultazione elettorale al fine di legittimare pratiche più o meno autoritarie.
[12] Il concetto rousseauiano di “volontà generale” è illiberale, o quanto meno a-liberale, perché caratterizzato da una sorta di unanimismo ex post, fondato sull’idea utopica (nel senso di “irreale”) che le minoranze, invece di limitarsi ad accettare la legittimità delle decisioni di maggioranza, dovrebbero auto convincersi del valore e della giustezza dei contenuti deliberati, in una sorta di automatismo inteso come una virtù intrinseca della democrazia diretta assembleare. (J.J. Rousseau, “Il contratto sociale”, Feltrinelli, Milano 2014).
[13] Un caso interessante ed originale di democrazia illiberale è quello che riguarda l’Iran, paese nel quale il suffragio universale, con riconoscimento della libertà di culto, diviene lo strumento di un totalitarismo religioso, identitario e integralista, che si vuole legittimare attraverso la pretesa di un consenso universale e partecipato.
[14] In tutte le democrazie un ruolo centrale lo assumono le leggi elettorali grazie alla loro capacità di influenzare ex ante le scelte degli elettori e poi di tradurle ex post in dati sugli eletti e i non eletti (Per una visione d’insieme: M. Petrocelli, “”Principi dei sistemi elettorali e dei modelli democratici”, Onereed edizioni, Milano 2017).
Un modo significativo per giudicare della democraticità dei sistemi elettorali è legato alla rappresentatività istituzionale che riescono ad assicurare alle minoranze. In ultra sintesi: il sistema peggiore dovrebbe essere il presidenzialismo dove il voto per i candidati perdenti viene azzerato. Segue il sistema maggioritario dove le minoranze non sono cancellate, ma comunque fortemente penalizzate. Un sistema rigorosamente proporzionale, possibilmente senza sbarramenti, dovrebbe invece dare rappresentanza a tutti.
In genere la scelta dei sistemi più penalizzanti per le minoranze viene giustificata con l’esistenza di un rapporto inverso tra governabilità e rappresentatività popolare del sistema. (Una sorta di clamoroso autogol: Meno sei rappresentativo è più sei libero di governare).
[15] Sulla capacità di assicurare la circolazione delle élite, come limitata (e spesso unica) virtù delle moderne democrazie, insistono i rappresentanti dell’elitismo democratico ( tra i quali vengono in genere annoverati R, Dahl e G. Sartori).
Si tratta di una evoluzione dell’elitismo classico, rappresentato in modo particolare dagli elitisti italiani (G. Mosca, V. Pareto ed anche R. Michels, sebbene non italiano di nascita) che sono considerati dei detrattori della democrazia, in quanto ritenevano che il popolo non fosse in grado di autogovernarsi. Il punto di svolta può forse essere considerato Gaetano Mosca, che nella seconda edizione dei suoi “Elementi” apre alla democrazia ipotizzando la possibilità di un rapporto positivo tra élite e masse. (G. Mosca “Elementi di scienza politica”, Aragno, Torino 2021. Per una visione generale: G. Pasquino, “Partiti, istituzioni, democrazie”, il Mulino, Bologna 2014).
[16] La legge elettorale attualmente vigente in Italia, detta “Rosatellum” (2017) dal nome del suo proponente, il deputato E. Rosato, come d’altra parte quelle che l’hanno preceduta, non prevede la possibilità da parte dell’elettore di indicare il candidato, ma semplicemente la lista elettorale in cui l’ordine degli eleggibili è predeterminato dal partito o associazione che la ha redatta.
[17] Nell’ambito del dibattito e delle pratiche della sinistra radicale esistono ovviamente anche ipotesi di “democrazia partecipata”, che prevedono come dato costitutivo la discussione e la deliberazione collettiva. Si tratta tuttavia di forme ancora sperimentali che al momento non possono che essere pensate come semplicemente complementari, e non alternative alla democrazia delegata e rappresentativa. Cosa ben diversa è il grande esperimento sociale del “confederalismo democratico” attualmente portato avanti dai Curdi nel Rojava come espressione di una radicale esperienza di “democrazia senza stato” (come l’ha definita il suo principale ideatore: Abdullah Ocalan). I complessi presupposti valoriali del percorso intrapreso, che vanno da una radicale uguaglianza sociale fondata sulla parità dei sessi con valorizzazione del femminile, fino ad un nuovo rapporto organico con la natura (ecologismo sociale), passando per l’abbattimento di ogni frontiera statale, etnica, religiosa etc., tutto questo ci dice come la ricerca di nuovi assetti sociali fondati su eguaglianza, libertà e democrazia passa per profonde rivoluzioni culturali, piuttosto che su disquisizioni di mera ingegneria istituzionale. L’argomento e complesso e difficile e merita uno studio dedicato che dobbiamo necessariamente rimandare.
[18] Va Comunque sottolineato come, malgrado tutte le manchevolezze e gli inganni sottesi alle istituzioni e alle reali pratiche dei sistemi liberal democratici, una significativa idea di libertà e democrazia come valori irrinunciabili è da considerare ormai come parte costitutiva del modo d’essere dello Homo occidentalis. Una situazione di fatto che spesso crea spinte a “Prendere sul serio” i diritti e determina una certa voglia diffusa di protagonismo dal basso, in modo che chi detiene le leve del potere non può non tenere conto dell’importanza dell’opinione pubblica e del comune sentire. Ciò ha determinato il fatto che il potere oggi non si esprima solo, e neppure prioritariamente, in termini proibizionistici e di repressione poliziesca, ma puntando innanzitutto alla manipolazione delle coscienze e a ciò che potremmo definire l’impotenza della parola inflazionata, che domina ormai incontrastata la vita dei social media. Il pensiero e la parola, insomma, come luoghi centrali della conflittualità e dello scontro sociale. ( Si vedano: R.Dworkin, “I diritti presi sul serio”, il Mulino, Bologna 2010, e per altro verso: N.Chomsky e E.S. Herman, “La fabbrica del consenso”, Il Saggiatore, Milano 2014).
[19] L’idea di “diventare realmente Popolo”, va precisata onde evitare possibili equivoci. Il termine popolo secondo alcuni contiene una irriducibile ambiguità, in quanto rimanda alla reductio ad unum della molteplicità dei soggetti sociali. Non a caso Michael Hardt e Antonio Negri preferiscono usare il termine “Moltitudine”, che tuttavia è stato a sua volta criticato “da sinistra” in quanto porrebbe l’attenzione sugli individui piuttosto che sulle classi in lotta. In realtà i due autori non parlano di individui ma di ricchezza delle molteplici ”singolarità”, rispetto alle quali l’obiettivo resta quello della ricomposizione, che lungi dall’azzerare le diversità le sommi e le valorizzi. E’ alludendo a questo senso ricompositivo che nel nostro testo usiamo l’espressione “diventare popolo”.
(M. Hardt e A. Negri, “Moltitudine”, Rizzoli, Milano 2004)
https://www.globalproject.info/it/in_movimento/la-liberta-di-espressione-non-e-unopinione/20804