-Antonio Minaldi- MERCATO ORIGINARIO E MERCATO CAPITALISTA
IL VALORE E I PREZZI. UNA DISPUTA TRA CLASSICI E NEO CLASSICI
DALL’HOMO OECONOMICUS ALL’HOMO NATURALIS
LE APORIE DEL SISTEMA E LE SOLUZIONI IMMAGINATE (ED IMMAGINARIE)
Il
tema della libertà è l’orgoglio e la croce dell’Occidente. Ideale motore
propulsivo di rivoluzioni e grandi conquiste popolari lungo una storia ormai
ultrasecolare, ma anche madre di tutti gli inganni imperiali e imperialisti del
capitalismo ultraliberista che in nome suo, e di sua sorella la democrazia, non
si fa problema di portare rapina, guerra e distruzione in giro per il mondo. Questo
ingannevole e improprio sposalizio tra libertà e capitalismo trova oggi una
sua, poco nota ma fortemente significativa manifestazione nelle ideologie libertarian statunitensi e specificatamente
nell’anarco capitalismo. Un movimento composito e complesso, che al di là di
differenze e diatribe interne, si costituisce, nella generalità delle sue
manifestazioni, intorno alla centralità che assume, per i suoi teorici, l’idea
della assoluta libertà che gli individui godono (o dovrebbero godere) nel
mercato, e che, come sappiamo, viene presupposta come portatrice di benessere e
progresso, grazie alle capacità auto regolative dello stesso mercato, secondo
la famosa ipotesi della “mano invisibile” di Smith.
Ebbene
secondo libertariani e anarco capitalisti, questo miracoloso percorso capace di
produrre il bene comune partendo dall’individualismo egoistico, non deve essere
relegato al solo scambio mercantile, ma deve essere posto alla base di
qualunque tipo di relazione umana e sociale. La conseguenza sarà l’estinguersi
dello Stato e di qualunque forma di potere pubblico, in una società che si
autoregola attraverso la proprietà privata di ogni tipo di bene immaginabile, e
dunque sul libero gioco competitivo di cittadini portatori di interessi
proprietari, personali e particolari. Non è un caso che le tematiche
libertariane, pur avendo una storia che affonda le proprie radici ai tempi
dell’imporsi del capitalismo industriale, nella loro versione contemporanea
nascono all’inizio degli anni settanta e si sviluppano contemporaneamente alla
crisi del compromesso keynesiano e fordista e al progressivo affermarsi, nei
modi della governamentalità capitalista, del paradigma neo liberista. C’è
evidentemente uno stretto legame tra le due cose, non solo in senso storico e
genericamente culturale, ma anche a livello dei modelli ontologici e antropologici
che vengono presupposti. Ma ovviamente vi sono anche differenze, anche e
segnatamente, nel modo di coniugare comuni riferimenti e comuni punti di
partenza. Cercheremo di approfondire questo rapporto partendo necessariamente
da lontano.
COME
UNA PREMESSA: MERCATO ORIGINARIO E MERCATO CAPITALISTA
Le
menzogne, se non vogliono avere le gambe troppo corte, devono necessariamente
alludere e mimetizzarsi con una qualche lontana e ambigua verità. Il
segreto del successo della simbiosi tra libertà e mercato sta nel far finta di
dimenticare, o di non sapere, quale abissale distanza separa il mercato
originario dal mercato capitalista.
Alle
origini delle prime forme di scambio di oggetti-merce sta idealmente, e con
ogni probabilità anche storicamente, il baratto. In queste forme di scambio
primitivo, (che non vanno confuse con il dono e lo scambio simbolico)[1], ci si
trova di fronte ad individui di cui dobbiamo necessariamente presupporre
l’abilità di potere concludere positivamente una contrattazione, attraverso la
capacità di sapere fare una doppia valutazione. Da una parte va stimato il
valore che l’oggetto merce che si vuole acquisire ha in rapporto a quello di
cui ci si vuole privare. Si tratta di una valutazione che possiamo definire
oggettiva, in quanto essa deve essere parametrata sui valori e le credenze
condivise dalla propria comunità di riferimento. Deve in sostanza corrispondere
al senso comune. In questo tipo di stima gli oggetti devono avere, più o meno,
lo stesso valore. Devono essere cioè, come si dice in questi casi, equivalenti.
D’altra parte, però, il soggetto dello scambio deve prendere in considerazione
l’utilità che entrambi gli oggetti della contrattazione hanno rispetto ai
propri particolari bisogni, o ai propri gusti e personali preferenze. Si tratta
in questo caso di una valutazione soggettiva, il cui esito deve essere quello
di uno scambio vantaggioso per se stessi, e non quindi scambio di semplici
equivalenti.
Si
può anche immaginare che nel singolo scambio qualcuno sia più “razionale”, in
sostanza più furbo, del proprio interlocutore, e che alla fine qualcuno ci
guadagni e qualcuno ci perda. Oppure si può pensare che nelle situazioni
concrete che si generano in questo tipo di scambi, c’è sempre chi parte da una
posizione di forza, per esempio perché più ricco o meno pressato da situazioni
contingenti negative. In ogni caso si deve riconoscere che nella dimensione del
mercato originario e del baratto, astraendo da specifiche situazioni di fatto
non generalizzabili, i soggetti dello scambio devono essere presupposti come
caratterizzati da una volontà libera, non astratta ma concreta, perché capace
di decidere e di incidere sulla dimensione reale delle cose.
Attraverso
l’esercizio della propria scelta libera e misurando la propria distanza
dall’oggetto-merce che subisce la scelta, l’attore dello scambio si determina e
si riconosce nella propria identità di soggetto libero, e al tempo stesso
riconosce l’altro da sé, l’interlocutore, come proprio pari e uguale, dovendo
mediare con la sua identica (almeno idealmente) capacità razionale di scelta e
di azione.
La
fine del baratto e l’introduzione della moneta complicano le cose. Ma almeno in
una prima fase gli effetti positivi tendono a prevalere su quelli negativi. Se
consideriamo infatti il denaro dal punto di vista di quelle che sono ritenute
le sue due prime funzioni basilari, vale a dire che se lo
consideriamo come “mezzo di scambio” e come “unità di conto”, possiamo vedere
come attraverso il suo uso non è più necessario cedere un oggetto proprio per
acquisirne un altro, né è necessario trovare qualcuno che sia disposto a questo
tipo di scambio. In sostanza il denaro fa si che l’oggetto-merce non abbia più
necessità di misurare il proprio valore attraverso l’equiparazione ad un altro
oggetto-merce specifico, poiché il valore viene ora definito in modo universale
attraverso un’unica misura, che per l’appunto è il denaro nel suo essere “unità
di conto”. Lo scambio di merci inoltre, perdendo l’immediatezza temporale del
“dare” e dello “avere”, sintetizzabile nella formula “merce contro merce”,
viene differito nel tempo, grazie al fatto che la singola merce viene ora
scambiata con danaro, che come abbiamo visto è anche “mezzo di scambio”.
A
questo punto, (ricordando a tutti che stiamo comunque parlando della dimensione
ideale, o per così dire idealtipica, del mercato originario, e non dell’odierno
mercato capitalista) possiamo vedere come il riconoscimento di sé del soggetto
agente nello scambio mercantile (ma per estensione, potremmo dire, anche in
altre forme di scambio sociale) non passa più attraverso l’oggetto specifico, e
non si da parallelamente al riconoscimento dell’altro in quanto specifica
singolarità. I rapporti e le relazioni sociali, in questo modo, tendono ad
assumere un carattere di universalità e di reciproco riconoscimento nell’ambito
di una dimensione comunitaria.
Al
denaro tuttavia l’ambito del mercato originario sta stretto. Il denaro infatti,
oltre alle due caratteristiche fondamentali di cui abbiamo parlato, ne possiede
una terza che porterà al dissolvimento del mercato semplice, e col tempo alla
nascita del mercato capitalista. Il denaro è anche “riserva di valore”. In
questa veste esso può rendersi autonomo dallo stesso mercato e può splendere di
luce propria, perché nel suo essere misura non ha più bisogno di accompagnarsi
alla realtà materiale della merce e al suo valore d’uso. Il denaro diviene così
valore di scambio astratto e potenziale che non necessita più dello scambio
reale, e che può quindi accumularsi e crescere su se stesso, ponendosi come
ipoteca e titolo di proprietà di ogni possibile scambio futuro, divenendo così,
nella forma di capitale, (che null’altro è se non denaro accumulato) da
strumento del mercato a suo signore e padrone.
Non
è questo il luogo per approfondire l’argomento, rendendo conto nello specifico
di tutti i passaggi storici del processo. Cercheremo invece di sintetizzare il
tutto mettendo a confronto le due contrapposte interpretazioni che sono state
date del passaggio dal mercato originario al dominio del capitalismo. Ci
riferiamo per un verso alle tesi degli economisti cosiddetti classici, dallo
stesso Smith a Ricardo fino alla sintesi “rivoluzionaria” fatta da Marx. Sul
versante opposto stanno gli economisti impropriamente definiti neo classici,
che più correttamente andrebbero indicati come marginalisti, attivi alla fine
dell’ottocento (Menger, Jevons, Walras e altri) e le cui idee attraversano le
scuole del secolo passato (ordoliberismo, scuola austriaca), fino
all’affermarsi delle teorie del moderno monetarismo (Friedman). Tutte
sono oggi alla base dell’attuale successo dell’imperante neo liberismo.
Anticipiamo
subito che mentre i classici sottolineano la rottura avvenuta con l’affermarsi
del capitalismo, i marginalisti e i neo liberisti sono invece sostanzialmente
negazionisti, ipotizzando la continuità nel tempo del mercato, di cui il
capitalismo è solo il prodotto ultimo. Sottolineiamo inoltre che
guarderemo a questo confronto, da un punto di vista particolare, ma essenziale
ai fini del nostro discorso: Il modo in cui si determinano i prezzi, anche in
rapporto alla teoria del valore.
È
bene infine ricordare che, malgrado
stiamo partendo da lontano, il nostro scopo è quello di evidenziare il modello
antropologico, (in sostanza l’idea di uomo), che sta alla base delle teorie neo
liberiste, e come esso sia stato ripreso dall’anarco capitalismo nella ipotesi
di costruire una società del futuro, fondata sulla universalizzazione, a tutti
i livelli del vivere in comune, dei valori del mercato capitalista, con
prevedibili esiti, che a nostro avviso, sarebbero semplicemente
catastrofici.
IL
VALORE E I PREZZI. UNA DISPUTA TRA CLASSICI E NEO CLASSICI
Attraverso
la teoria del valore, presente in Ricardo e poi ripresa e arricchita da Marx
con la definizione del plusvalore, gli economisti cosiddetti classici mostrano
di aver ben compreso come l’avvento del capitalismo industriale abbia
profondamente mutato il modo d’essere dell’intera economia, modificando le
stesse leggi che presiedono al funzionamento del mercato.
Come
è noto il valore di una merce è dato dal “tempo di lavoro socialmente
necessario alla sua produzione”. Il lavoro diventa in questo modo misura di
tutte le cose e strumento fondamentale della produzione della ricchezza. E i
prezzi? Per gli economisti classici i prezzi continuano ad essere determinati
dalla legge della domanda e dell’offerta che agisce nel mercato. Ciò significa
che una merce avrà in genere un prezzo che presumibilmente sarà inferiore o
superiore al suo valore. La difficoltà viene però risolta in modo preciso e
definitivo da Marx che chiarisce come “La somma di tutti i prezzi è sempre
uguale alla somma di tutti i valori”. Il prezzo diviene in questo modo un dato,
per certi versi, secondario. Una sorta di epifenomeno della produzione del
valore. Gli economisti classici (e Marx), in questo modo, hanno compreso come
col capitalismo il modo di produzione assume un ruolo particolare e sempre più
centrale rispetto alla circolazione delle merci ed al determinarsi delle
dinamiche del mercato.
Più
o meno nel ventennio compreso tra il 1870 e il 1890, gli economisti
marginalisti, a quanto pare senza neppure essere in rapporto tra loro, e
proprio nella fase di maggiore espansione del capitalismo imperialista europeo,
smonteranno l’impianto del pensiero classico, negando la legge del valore
lavoro, e ammettendo come unica misura dello scambio delle merci il
determinarsi dei prezzi. In questo modo viene ripristinata la centralità e la
sostanziale autonomia del mercato anche all’interno del capitalismo ormai
dominante a tutti i livelli.
Per
i marginalisti (e per i loro nipotini neo liberisti e monetaristi dei tempi
presenti) diventa a questo punto fondamentale stabilire in che modo si
determinano i prezzi sul mercato. La loro tesi è quella del prezzo di
equilibrio, che sta a significare che il prezzo, in quanto determinazione del
valore delle merci, non va pensato come un dato secondario legato ai capricci e
alla volatilità del mercato, ma come l’espressione della perfetta funzionalità
del sistema, che nella sua dimensione ideale è pensato come sostanzialmente
statico perché capace di costante autocorrezione, che si evidenzia nella
dinamica dei prezzi e nella loro tendenza alla stabilità come segno di salute
dell’intero quadro economico.
In
concreto il prezzo si dice d’equilibrio perché esso indica quel dato valore
delle merci, per cui tutta la domanda sarà soddisfatta e tutta l’offerta
sarà evasa. E poiché si suppone che questo punto miracoloso si dia
spontaneamente, non si potrà mai dare, almeno in condizioni normali, alcuno
scompenso che il mercato non sia in grado di correggere, scongiurando in questo
modo che si possano creare situazioni di stagnazione o di crisi di alcun
tipo[2].
Facciamo
un esempio semplice, ma anche molto significativo. Il prezzo del lavoro, vale a
dire il salario, è anch’esso determinato dal punto d’incontro tra la
domanda e l’offerta. Se, poniamo per esempio, l’offerta di lavoro dovesse
improvvisamente crollare, secondo i marginalisti, il lavoro si deprezzerebbe e
i salari si ridurrebbero fortemente fino a raggiungere un nuovo punto di
equilibrio, tale da assicurare che tutta la domanda di lavoro venga comunque
sodisfatta, senza provocare disoccupazione involontaria. Come dire che se si è
disposti a lavorare (quasi) gratuitamente, ci sarà sempre lavoro per tutti.[3]
A
questo punto si potrebbe obiettare che, al contrario del clima idilliaco
prospettato da tutti i neo liberisti, la storia recente e passata del
capitalismo è costellata di terribili crisi e insanabili conflitti. Il
liberismo vecchio e nuovo, ovviamente, non ha potuto negare questi eventi
negativi, ma li ha imputati a interventi esterni al mercato, che interferendo
sulla sua capacità autocorrettiva come vere e proprie turbative, ne hanno
impedito il corretto funzionamento. I primi due grandi imputati di fronte a sua
maestà il libero mercato sono lo Stato e le lotte dei lavoratori. Lo Stato che
con le sue politiche di prelievo fiscale e di spesa pubblica espansiva ispirata
alle politiche del welfare, ha squilibrato il naturale rapporto tra domanda e
offerta falsando i prezzi. E poi l’altro grande colpevole, le lotte dei
lavoratori e i sindacati che tenendo artificiosamente alti i salari hanno
prodotto alti livelli di disoccupazione.
DALL’HOMO
OECONOMICUS ALL’HOMO NATURALIS
La
diversa visione tra classici e neoclassici rispetto al rapporto tra modo di
produzione e mercato, porta a opposte conclusioni sulla definizione del
soggetto che muove le dinamiche sociali. Per i classici, nel capitalismo (e per
Marx rispetto all’intero processo storico e in modo conflittuale) la centralità
spetta alle classi, vale a dire all’insieme degli individui che hanno la stessa
posizione rispetto ai meccanismi della produzione. Per marginalisti e neo
liberisti di tutte le scuole, il protagonista che muove il mercato è
l’individuo nella sua singolarità.
Dal
pensiero neo classico e liberista è nato un vero e proprio modello
antropologico che si pone come motore e padrone del mercato: L’homo
oeconomicus[4]. Si tratta in pratica di ogni singolarità che in quanto
imprenditore di se stesso, per potere agire da soggetto dello scambio, deve
essere presupposto come dotato di alcune fondamentali caratteristiche. La prima
è la razionalità, vale a dire la capacità di sapere valutare le proprie scelte
in vista di un prestabilito risultato. La seconda è l’attitudine a massimizzare
le informazioni, le quali a loro volta, nell’ambito del funzionamento “ideale”
del mercato, vengono presupposte sempre come ottimali. Infine la terza ed
ultima, la più importante. Quella che definisce l’homo oeconomicus nella sua
essenziale peculiarità: La forte motivazione a difendere, sempre e solo, il
proprio interesse personale fondato sulla proprietà privata e sul conseguente
egoismo possessivo. Per fortuna che ci pensa il mercato a mediare gli
interessi, e a rimettere tutto al proprio posto, grazie alle sue capacità di
autoregolazione che evitano gli scontri distruttivi, riuscendo così a sfruttare
le energie egoistiche dei propri attori come forza propulsiva delle proprie
dinamiche di crescita e sviluppo[5].
Abbiamo
sottolineato i caratteri fondanti dell’homo oeconomicus perché è a partire da
essi, e segnatamente dalla loro estensione ed universalizzazione, che è
possibile comprendere i presupposti dai quali si sviluppano le teorie degli
anarco capitalisti. Per costoro infatti il mercato e le sue logiche, al massimo
livello del loro sviluppo nella dimensione contemporanea, rappresentano un
archetipo che lungi dal regolare un solo aspetto specifico dell’organizzazione
sociale, è piuttosto il fondamento di qualunque tipo di relazione umana
presente e futura. L’intera società, insomma, funziona esattamente come il
mercato. Con le stesse leggi e con le stesse regole, e soprattutto con gli
stessi soggetti, i cui comportamenti si fondano nel profondo sulle stesse
pulsioni e sugli stessi valori. Ed esattamente come il mercato non necessita di
interventi esterni, allo stesso modo l’ordine sociale si autodetermina senza
bisogno del potere pubblico e dello Stato.
Questo
tipo di generalizzazione segna un evidente salto di qualità. Nella impostazione
liberista e neo liberista infatti l’homo oeconomicus resta tutto sommato una
ipotesi puramente giustificativa di specifiche teorie economiche, restando
impregiudicato (o comunque non compiutamente esplicitato) se esso sia una
precondizione di ordine onto-antropologico senza la quale il mercato, almeno
così come lo conosciamo, non si darebbe neppure, oppure se al contrario esso
non sia che uno specifico prodotto storico dello stesso mercato.
L’assoluta
libertà egoistica e proprietaria, nella prospettiva dell’anarco capitalismo,
perde dunque il suo legame esclusivo col mercato per divenire fondamento e
presupposto dell’intera organizzazione sociale e dell’insieme dei suoi rapporti
e delle sue dinamiche. L’homo oeconomicus in questo modo diventa senza più
ambiguità di sorta, homo naturalis. Diviene (o torna ad essere) in buona
sostanza l’uomo nella condizione dello stato di natura, posto come inizio e
giustificazione d’ogni cosa, esattamente come era pensato nelle antiche
filosofie giusnaturaliste.[6]
Non
è più l’essere sociale che materialisticamente e storicamente produce la
coscienza (Marx), quanto piuttosto una pulsione egoistica e naturale che
produce tutti i comportamenti, determinando le gerarchie sociali secondo
rapporti di forza che tendono a cristallizzarsi.
La
libertà non è più il frutto di una rendita di posizione classista oppure,
all’opposto, il frutto di una lotta di liberazione da condizioni di oppressione
e di minorità sociale, nella quale scoprire il senso etico e politico della
reciprocità e dello scambio ugualitario col tuo/a compagno/a di condizioni e di
lotta. La libertà diviene invece, nelle logiche degli anarco capitalisti,
competizione sociale per l’affermazione individualistica di sé alla ricerca di
un punto di stabilità nelle relazioni sociali che massimizzi (e cristallizzi)
la propria posizione privilegiata.
Il
punto caratterizzante è dunque quello di considerare qualunque diseguaglianza
nella distribuzione della ricchezza così come nello status sociale degli
individui, non come una ingiustizia prodotta da condizioni storiche di dominio
dell’uomo su l’uomo, quanto piuttosto, ed esattamente al contrario, come il
riprodursi a livello della comunità di una sorta di legge di giustizia naturale
che ci dice come il singolo individuo, sin dalla nascita, porta con se il
proprio bagaglio di intelligenza, salute, talento personale, e quant’altro, da
fare valere come suo patrimonio nell’agone della vita. Diseguaglianza e
privilegio sono insomma dati di natura che devono necessariamente riprodursi
nell’insieme degli assetti sociali.
Ciò
che vi è di più interessante in questo schema interpretativo, come dovrebbe
essere chiaro da quanto abbiamo fin qui argomentato, è che, a detta degli
anarco capitalisti, questa guerra permanete e totale non porta al caos, ma è
anzi il fondamento dell’ordine sociale. Esattamente come per gli economisti di
scuola liberista, per i quali nella competizione di mercato vi è sempre un
punto di equilibrio rappresentato dal prezzo, allo stesso modo per gli anarco
capitalisti, che al modello del mercato libero si ispirano, in tutti gli ambiti
del vivere in comune vi è sempre un punto di equilibrio che stabilizza la
competizione producendo l’ordine sociale.
Diversi
autori (Axelrod per esempio) arrivano ad azzardare che una società senza Stato
e senza poteri pubblici, potrebbe paradossalmente favorire la cooperazione
sociale e il volontariato, naturalmente non sulla base di inverosimili pulsioni
altruistiche, ma attraverso la spontanea e libera convergenza di comportamenti
interessati ed egoistici verso comuni obiettivi. In molti casi si suppone
addirittura che l’intreccio delle scelte individuali potrebbe produrre in modo
del tutto involontario il bene pubblico. Mi pare ovvio che si tratta comunque
di argomentazioni molto fragili, in quanto l’eventuale esito positivo per il
benessere collettivo, viene demandato a ricadute casuali e non ad obiettivi
programmabili all’interno dei processi sociali. Si tratterebbe in ogni caso di
una eccezione, mentre la regola sarebbe sempre quella di produrre
diseguaglianze e gerarchie sociali, che la presunta stabilità del sistema
tenderebbe a fare divenire irreversibili riproducendoli nel tempo in modo
sempre più accentuato.
Di
fronte a queste storture che verrebbero a cristallizzarsi nel sistema, ci si
può legittimamente chiedere come è possibile immaginare che coloro che vengono
a trovarsi nelle posizioni più svantaggiate non siano tentati di mettere in
opera un qualche tentativo di ribellione. In realtà il modello ammette che
questo è facilmente prevedibile, ma solo in modi specifici e a determinate
condizioni, che ci impongono alcune precisazioni.
Dobbiamo
innanzitutto sottolineare come il presupposto individualista che sta alla base
dell’essere sociale così come teorizzato dagli anarco capitalisti, fa sì che,
nella loro visione, le forme di ribellione difficilmente possono essere pensate
come rivolte collettive. [7]. Va inoltre detto che, nello schema interpretativo
della società liberata dal potere pubblico e dallo Stato, anche nella
maggioranza degli individui che si trovano in posizioni di svantaggio si
presume prevalga la razionalità che dovrebbe fare valutare come non
convenienti le possibili ribellioni, in ragione degli alti costi da pagare e
degli esiti incerti.
Per
quanto l’ipotesi di un mondo senza poteri pubblici fondato sull’assoluta
libertà dell’individuo possa essere pensato ed idealizzato come il migliore dei
mondi possibili, gli anarco capitalisti non sono comunque così ingenui da
pensare che situazioni anomale e conflittuali non possano prodursi mettendo in
discussione l’ordine sociale. D’altra parte l’esperienza ci insegna che anche
per quanto riguarda il mercato, anche nelle situazioni in cui più radicalmente
si è affermata l’autonomia dalla politica e da altre forme di ingerenza, questo
non ha garantito dalla possibilità che si producessero turbative di vario tipo
da parte di soggetti organizzati (Stato, sindacati , monopoli) che ne
mettessero in discussione il funzionamento.
Gli
anarco capitalisti stranamente però non prendono in considerazione la
possibilità che forze organizzate, magari clandestine, possano interferire con
una società libera e senza poteri pubblici, per esempio cercando di ritagliarsi
fette di potere e rendite di posizione sempre più ampie in vari ambiti della
vita sociale. Pensiamo per esempio a qualcosa come le mafie, le organizzazioni
massoniche o le sette religiose. Come abbiamo già detto, per i sostenitori di
questa idilliaca società libera è ammessa la possibilità che anche individui
mossi solo da interessi personali possano aggregarsi, sulla base di comuni
finalità, in strutture solidaristiche con finalità positive per l’intera
comunità. Non si capisce perché lo stesso non possa avvenire per fini, e con
esiti, malefici e distruttivi.
Credo
che si possa ragionevolmente argomentare, a tal proposito, come la presunzione
degli anarco capitalisti di avere ormai chiuso i conti con la storia, grazie al
trionfo per loro ormai irreversibile del mercato, li spinga, quasi
inconsapevolmente, a prefigurare una società che è talmente “a portata di mano”
da non dovere essere presentata come il punto d’arrivo di un percorso storico
ancora da compiere, ma al contrario, come qualcosa che può essere descritto,
sin da subito, fino ai suoi minimi dettagli. Ciò comporta necessariamente
che si debba dare per scontato, insieme all’estinguersi dello Stato, la fine di
qualunque forma di potere pubblico anche solo possibile o potenziale, e quindi
anche il venir meno del pericolo che qualcuno possa efficacemente battersi per
una sua restaurazione, anche fraudolenta. La storia è stata ormai scritta e il
passato non può più tornare.
Comunque
sia, per i sostenitori dell’anarco capitalismo pare che le turbative
all’ordine stabilito possano venire solo come semplici iniziative legate al
comportamento patologico e criminale di singoli individui. Tuttavia, anche
restringendo il campo a questa sola possibilità, i problemi che si pongono sono
enormi.
Tra
le tanti possibili questioni noi dedicheremo la nostra attenzione a quelle che
ci sembrano più significative a segnalare le difficoltà insite nel modello
proposto. Ci riferiamo in particolare a quell’insieme di
problematiche che riguardano “l’ordine pubblico” e “l’amministrazione della
giustizia”[8].
LE
APORIE DEL SISTEMA E LE SOLUZIONI IMMAGINATE (ED IMMAGINARIE)
Per
la verità non tutti gli autori anti statalisti sono così radicali da immaginare
una imminente fine di ogni potere pubblico centralizzato. La cosa è talmente
nota che dagli anarco capitalisti vengono in genere distinti i sostenitori
della cosiddetta “miniarchia”, che come si può facilmente comprendere, indica
la necessità dell’esistenza di un potere seppur minimo.
Il
maggiore sostenitore della miniarchia, attraverso il noto concetto di “Stato
minimo”, è R. Nozick[9], spesso considerato impropriamente un anarco
capitalista. Il suo ragionamento è semplice: Anche ammesso che tutte le
questioni che riguardano la sicurezza si possano affidare a delle agenzie
private tra le quali il cittadino dovrebbe liberamente scegliere, succederà
inevitabilmente che tutti i fornitori del servizio, per poter migliorare la
propria offerta finiranno per accordarsi tra loro, creando di fatto un
monopolio che finirà per costituire il cosiddetto “Stato super minimo”. A
questo punto sarà però inevitabile, ancora per motivi di efficienza (io però
direi anche per questioni di potere), che il servizio sarà esteso dai propri
clienti paganti a tutti i membri della comunità, trasformando così lo “Stato
superminimo" per l’appunto nello “Stato minimo”. Per Nozick in sostanza
l’uso della forza per questioni di ordine pubblico è un monopolio naturale, dal
quale non si può sfuggire.
Inutile
dire con quanta veemenza critica questa ipotesi sia stata rigettata dagli
estremisti dell’antistatalismo libertariano, a loro volta impegnati
nell’immaginare minuziose soluzioni, spesso complicate e cervellotiche, al problema
di come assicurare le funzioni di polizia e magistratura in assenza di Stato.
Cercheremo di darne conto in un quadro necessariamente sintetico, ma si spera
abbastanza esaustivo, e aggiungendo ovviamente le nostre osservazioni critiche.
Come
dovrebbe essere ormai chiaro le funzioni di polizia verrebbero affidate a delle
agenzie private a cui dovrebbe rivolgersi il singolo cittadino, naturalmente
pagando i servizi di cui sarebbe fruitore. Già da questo si comprende
facilmente come chi è più facoltoso potrebbe facilmente assicurarsi una
migliore protezione, come logica conseguenza del fatto che la sicurezza di beni
e persone verrebbe considerata, alla stregua di qualunque altro bene economico,
un bene scarso per il quale competere. E chi non è in grado di pagarsi una
agenzia per la propria sicurezza? Ovviamente, in pieno stile yankee, ognuno è
autorizzato al libero “fai da te”, avendo la possibilità di girare armato.
Quello
che è più impressionante è che tutto avverrebbe senza il rispetto di precise
regole prestabilite. La sicurezza, secondo i nostri cultori della libertà
assoluta, funziona come il mercato e le regole se le dà da sola. Se poi vivi ai
margini della società e sei un homeless non hai nessuna protezione e se subisci
un danno (anche la morte) nessuno interverrà.
Naturalmente
nelle logiche libertariane, diseguaglianze e disparità non sono solo
inevitabili, ma sono necessarie, anzi essenziali, perché è proprio a partire da
esse che si dà il libero gioco delle parti che, in assenza di controlli pubblici,
e grazie alle capacità di autoregolamentazione propria degli interessi privati,
conduce all’equilibrio e all’ordine sociale. Tutto questo senza che mai per
loro possa succedere (come invece sicuramente succederebbe) che le posizioni di
forza si possano trasformare in potere e dominio, che oltretutto in questa
ipotesi diverrebbero tanto più feroci in quanto non mitigati da nessuna regola
comunemente accettata, e tanto più gravi in quanto riferiti ad una materia così
sensibile come quella dell’ordine pubblico, o anche a quella , che tra poco
vedremo, che riguarda l’amministrazione della giustizia.
Per
quanto attiene per l’appunto alla giustizia, qualunque cittadino chiamato in
giudizio avrebbe diritto di scegliere un tribunale di sua fiducia esattamente
come il suo accusatore. In questa visione non solo assurda, ma anche
estremamente complicata, in caso di sentenze discordanti, per altro pressoché
scontate, si ricorrerebbe ad un tribunale d’appello, secondo “la regola dei due
tribunali”, per cui una sentenza diventa esecutiva se confermata da una seconda
corte.
Inutile
entrare in ulteriori dettagli. Resta il fatto che ci troviamo di fronte ad
ipotesi che appaiono prima di tutto eticamente inaccettabili, oltre che assurde
e inverosimili. Innanzitutto, esattamente come nel supposto (e semplificato)
funzionamento del mercato, la giustizia viene vista come il risultato di uno
scontro di interessi tra due parti. Non esiste ovviamente nessun interesse
generale, quindi un crimine commesso contro qualcuno che per un qualche motivo
di incapacità personale (emarginazione sociale, salute, povertà ecc.), non
è in grado di rivolgersi ad una corte di giustizia, resterebbe impunito,
se non altro per il semplice motivo che il concetto stesso di crimine, in
questa logica, non può esistere se non nella volontà di rivalsa di una parte
privata contro un’altra parte egualmente privata.
Nessun
diritto e nessuna legge scritta, e dunque nessun possibile garantismo a
vantaggio del più debole. Solo l’arbitrio di corti di giustizia non super partes, che partendo da zero
dovrebbero creare nel tempo una sorta di common
law dell’interesse privato. Inutile aggiungere altro.
Siamo
dunque tornati al nostro punto di partenza: che cosa è la libertà e in che
rapporto sta con la storia dell’occidente? Esiste un concetto univoco di
libertà o non ne esistono piuttosto due, come noi crediamo? In estrema sintesi:
la libertà dei dominanti finalizzata alla volontà di potere continuare a
dominare, e la libertà dei dominati che si afferma come lotta per eliminare
ogni forma di dominio.
Quello
di cui abbiamo qui parlato va considerato come il punto d’arrivo delle teorie
legate al “mito” della libertà di mercato come tentativo estremo di volere
eternizzare la società fondata sul modo di produzione capitalista, almeno così
come esso si caratterizza nel modello occidentale di organizzazione sociale e
di governamentalità , posto che l’inganno del “mondo libero” crolla
immediatamente nel momento in cui presenta al resto del mondo il suo vero volto
fatto di guerra, Certo le teorie libertariane e anarco capitaliste sono una
lettura veramente estrema e poco credibile della visione borghese e capitalista
dei valori ( o disvalori) di libertà. Ma proprio per questa ragione hanno il
vantaggio di presentarsi di fronte all’osservatore senza orpelli o ingannevoli
mediazioni, e in sostanza nella loro essenza più veritiera.
Di
fronte a questa interpretazione fuorviante del valore di libertà sta una sua
diversa storia. Quella legata a secoli di rivoluzioni e lotte di liberazione.
Una storia oggi purtroppo spesso dimenticata e da riscoprire che ci parla di
libertà come conquista collettiva legata a valori di mutualità e responsabilità
verso l’affermazione del bene comune. Ma qui si apre un altro discorso, sul
quale occorrerà tornare.
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NOTE
1- E’ nota la teoria sul dono e sullo scambio simbolico sviluppata da M. Mauss, anche sulla base dei precedenti studi di F. Boas e di e di B. Malinowski. Uno scambio non commerciale e dilazionato nel tempo il cui esito è quello di creare relazioni e legami sociali duraturi tra comunità ed individui, esattamente come avviene in modi e forme diversi con lo scambio commerciale nelle condizioni del mercato originario. M. Mauss, “Saggio sul dono”, Einaudi, Torino, 2016. - F. Boas, “L’organizzazione sociale e le società segrete degli indiani Kwakiutl”, CISU, Roma, 2001. - B. Malinowski, Argonauti del Pacifico Occidentale, Bollati Boringhieri, Torino 2011.
2 – In realtà l’ipotesi di un mercato caratterizzato da un perfetto equilibrio, e dunque in grado di autoregolarsi, è più antica e precede di molto l’opera dei marginalisti. A parte “la mano invisibile”, che in realtà è una semplice intuizione a cui Smith dedica solo poche pagine, il riferimento più significativo resta J.B. Say e il suo “Traité d’economie politique” del 1803. E’ all’economista francese che si deve la cosiddetta “legge degli sbocchi”, che sostanzialmente afferma che in regime di libero scambio non sono possibili crisi prolungate perché l’offerta finirà sempre per trovare una adeguata domanda, grazie alla fluttuazione dei prezzi, secondo quelle stesse dinamiche che saranno poi in larga parte riprese dagli economisti marginalisti.
3 - Questa ossessione dei marginalisti di ieri e dei neo liberisti di oggi per il prezzo come “meccanismo tanto cruciale della produzione e della trasmissione dell’informazione” (P. Lemieux,), ci fa comprendere come per loro l’inflazione sia il più catastrofico dei mali. Il demonio sceso in terra per distruggere l’ordine delle cose e falsare ogni misura. Non è un caso che il neo liberismo si presenti oggi col volto del moderno monetarismo sviluppatosi negli anni sessanta soprattutto grazie ai lavori di M. Friedman (vedi “Bibliografia essenziale”)
Il monetarismo si basa sulla “teoria quantitativa della moneta”, secondo la quale un eccesso di offerta monetaria provoca inflazione, e al contrario una carenza di offerta provoca deflazione. La produzione di moneta non avviene però automaticamente attraverso gli scambi, ma è una prerogativa monopolistica delle Banche Centrali che viene regolata, non solamente ma principalmente, attraverso i tassi d’interesse (notoriamente di fronte a pericoli d’inflazione si alzano i tassi). Quando questa teoria (per altro niente affatto scontata, né universalmente accettata) è divenuta parte del mainstream dominante, le Banche Centrali, diventando di fatto soggetti di mercato, sono state sottratte al controllo dei governi secondo il principio di assoluta autonomia dei mercati dal potere statale.
4 – In realtà quello che viene comunemente chiamato homo oeconomicus a nostro avviso dovrebbe più propriamente essere indicato come homo occidentalis, poiché tutte le sue caratteristiche più salienti sono legate alle peculiarità del libero mercato così come viene interpretato quasi esclusivamente nel modello capitalista di stampo occidentale. Lo sviluppo capitalista non ha necessariamente bisogno della narrazione retorica del libero mercato. Per un approccio iniziale: G. Arrighi, “Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo”, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI), 2021.
5 - Curiosamente (ma non troppo), si può notare come l’homo oeconomicus, delineato, da liberisti e neo liberisti, intorno ad una razionalità calcolistica al servizio dell’egoismo proprietario, sia, almeno nelle premesse, molto vicino all’idea di uomo allo stato di natura così come lo concepiva Hobbes. Le conclusioni sono ovviamente opposte. Per il filosofo inglese lo scontro di tutti contro tutti poteva essere controllato solo dallo Stato Leviatano. Per liberisti e neo liberisti, come abbiamo visto, basta “la mano invisibile” a mettere tutti d’accordo. (Evidentemente, per tutti i neo liberisti, Hobbes è venuto al mondo troppo presto per rendersi conto delle virtù taumaturgiche del mercato).
Hobbes, “Leviatano” BUR, Milano, 2011. Ma anche Hobbes “De cive”, Editori Riuniti, Roma, 2019.
6 – Il presupposto antropologico delle ideologie libertartariane pur rifacendosi in qualche modo all’uomo allo stato di natura del giusnaturalismo classico, si avvale tuttavia anche della lezione darwiniana, soprattutto nel senso del darwinismo sociale. Si veda a questo proposito, come esempio, l’opera di F. A. Von Hayek e la sua ipotesi percui le istituzioni della società libera, compreso diritto ed economia, si possano considerare il risultato di una selezione naturale basata sul criterio di efficienza (su Hayek si veda la “bibliografia essenziale”)
7 – Per libertariani e anarco capitalisti le grandi rivoluzioni che hanno caratterizzato la storia dell’Occidente, come appare logico seguendo il loro percorso concettuale, non vengono lette secondo una impostazione di tipo classista o secondo precise caratteristiche di specificità storicamente determinate, ma come rivolte intese genericamente come scontro con la dittatura rappresentata dallo statalismo e dai poteri pubblici comunque essi si esprimano. Questa lettura è per la verità spesso implicita, non essendo questo argomento di loro specifico interesse. (Si veda la “bibliografia essenziale”).
8 – Le problematiche che si aprono nel momento in cui si decide di cancellare il pubblico per affermare l’unicità del privato sono praticamente senza fine. Si pensi ad esempio alle questione che riguardano la costruzione e la gestione delle infrastrutture (strade, ferrovie ecc.), oppure alla gestione di beni pubblici come l’acqua, la rete elettrica e la rete informatica. Inutile entrare nei dettagli tecnici. Basterà limitarsi ad argomentare esclusivamente sulle questioni delicatissime che riguardano l’ordine pubblico e l’uso della forza. Tra queste abbiamo deciso di ignorare il problema della difesa nazionale, dando per scontato che esso, in una visione ultra utopica, si risolverebbe con l’estinzione globale di tutti gli Stati. Ipotesi che comunque getta ancora maggiore discredito sull’aspetto inverosimile delle teorie libertariane, specialmente se si guardano in una prospettiva che travalica i confini del mondo occidentale per divenire ipotesi globale di estinzione di tutti i poteri in ogni angolo della terra.
9 –Il pensiero di Nozick, che spesso viene sintetizzato con la formula che indica lo Stato come “guardiano notturno” della società di libero mercato, può trovare il suo antecedente storico più proprio nel pensiero di J. Loche, il vero fondatore del pensiero liberale classico. Secondo Loche lo Stato ha l’esclusivo compito di garantire la sicurezza e la proprietà dei cittadini, perché questi possano trarre il massimo vantaggio dalla loro libertà. J. Loche, “Secondo trattato sul governo”, Editori Riuniti, Roma, 1980. (Su Nozick si veda la “Bibliografia essenziale”).
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Economisti classici e Marx
A Smith, “La ricchezza delle nazioni”, De Agostini, Novara, 2013.
D. Ricardo, “I principi dell’economia politica e dell’imposta”, UTET, Milano, 2006.
K. Marx, “Il Capitale”, UTET, Milano, 2017
K. Marx, “Grundisse”, Pgreco, Milano, 2012
Economisti marginalisti
L. Walras, “Elementi di economia politica pura”, UTET, Milano, 2013.
W, Jevons, “La teoria dell’economia politica”, UTET, Milano, 1948.
C. Menger, “Principi fondamentali di economia”, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2001
Neo liberisti del XX secolo
F. Von Hayek, “La via della schiavitù”, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ), 2011.
F. Von Hayek, “Liberalismo”, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2012.
M. Friedman e A. Schwartz, “Storia monetaria degli Stati Uniti 1867-1960”, IBL libri, Milano, 2022.).
M. Friedman, “Capitalismo e libertà”, IBL libri, Milano, 2010
Libertariani e Anarco capitalisti
R. Nozick, “Anarchia, Stato e utopia”, il Saggiatore, Milano 2000.
Murray N. Rothbard, “Per una nuova libertà”, Liberilibri, Macerata, 2004.
Marray N. Rrothbard, L’etica della libertà”, Liberilibri, Macerata, 2017.
A. Rand, “La virtù dell’egoismo”, Liberilibri, Macerata, 2017.
G. O’Driscol e M. J. Rizzo,”L’economia del tempo e dell’ignoranza”, Rubbettino, Sovenia Mannelli (CZ) 2004.
P. Lemieux, “L’anarco-capitalismo”, Liberilibri, Macerata, 2018.