universalità e incondizionalità dei diritti di cittadinanza
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Prima d’ogni cosa è bene capire di cosa stiamo esattamente parlando, perché purtroppo le innumerevoli ipotesi, pubblicazioni, e varie sperimentazioni sul campo, spesso finiscono per ingenerare confusione a causa di differenze di impostazione, anche molto marcate.
Quello che più spesso appare fuorviante è la tendenza a dare una interpretazione molto elastica e incoerente dei due attributi di “universalità” e “incondizionalità” che sono invece ciò che esattamente definisce la natura e il significato del “reddito di base”. Ipotizzare, per esempio, che esso possa essere erogato solo a chi ha raggiunto la maggiore età, oppure che i beneficiari, per una qualche ragione, possano percepire cifre diverse, o altri distinguo e differenziazioni simili, sono tutte ipotesi che negano il senso vero del provvedimento in questione.
Ciò che è veramente dirimente per capire i termini del problema, e per evitare di fare confusione con provvedimenti di aiuto e sostegno sociale apparentemente simili, è avere ben chiaro che l’erogazione di un reddito uguale per tutti deve essere considerato come espressione del diritto di ciascun individuo a partecipare alla distribuzione della ricchezza prodotta da quella cooperazione sociale di cui tutti siamo parte, seppure con modi e ruoli diversi.
In questo senso il reddito di base è da considerare sostanzialmente un diritto della persona, che come tale, ed esattamente come tutti i diritti, ha un valore, per così dire, assoluto e quindi non declinabile secondo considerazioni di opportunità, di scelta politica, o secondo qualunque altra ipotesi o evidenza di natura empirica. Esso deve dunque essere universale e incondizionato, esattamente come ogni altro diritto; o volendolo dire con più enfasi, potremmo affermare che la sola condizionalità richiesta dovrebbe essere la permanenza in vita, o anche il solo fatto del respirare. Naturalmente, non trattandosi di un diritto “formale” o “negativo” come i diritti di libertà, ma piuttosto di un diritto sociale come il diritto alla salute o all’istruzione, esattamente come questi ultimi, ha bisogno dell’intervento attivo della mano pubblica, il che pone sempre problemi di fattibilità secondo le circostanze politiche e le disponibilità economiche. Ma queste condizioni particolari, se possono anche portare a pensare a scelte e compromessi di fase, non devono mai inficiare la chiarezza strategica e l’intangibilità valoriale del principio e del diritto considerati in sé.
La non chiarezza su questo punto può creare parecchi equivoci, i quali tuttavia sembrano convergere, e possono essere perciò sintetizzati, nella questione di quale rapporto è possibile pensare tra reddito di base, come diritto, con la complessità dei diritti sociali, cosi come vengono messi in gioco dalle politiche di welfare. Il modo con cui si pensa questo rapporto, tra reddito di base e welfare, diventa in questo modo, estremamente significativo, e direi esemplificativo, delle profonde differenze di orientamento politico, e di scelte etiche e culturali, che caratterizzano i vari modi di intendere le meccaniche, le ipotesi di fattibilità, e il ruolo sociale di un reddito di base. Per chiarezza schematizzeremo la complessità del dibattito in tre differenti posizioni.
1- Il reddito di base come sostitutivo delle politiche di welfare.
In questa ipotesi il reddito di base diviene semplicemente una specie di contributo (per altro inevitabilmente molto limitato) per assicurarsi quei servizi che nella logica delle politiche di welfare dovrebbero essere erogate in modo generalizzato e gratuito come diritti (salute. Istruzione ecc.). Una sorta di presa d’atto e di punto d’arrivo del (già più o meno avvenuto) smantellamento dello Stato sociale. Le vecchie e note politiche keynesiane di intervento sociale, che sin dal loro nascere, anche con eventi altamente simbolici come il new deal roosveltiano o il piano Beveridge nel Regno Unito, e fino alla metà degli anni settanta, nel quadro del modello produttivo fordista, avevano assicurato la riproduzione della società a comando di capitale, anche attraverso il ruolo centrale di una classe operaia massificata e fondata sull’archetipo del lavoratore al tempo stesso produttore e consumatore.
Superata la centralità della vecchia fabbrica con la sua catena di montaggio (magari, anche e in parte, delocalizzandola in altre parti del mondo), l’imperante neo liberismo ha imposto un nuovo modello antropologico: quello dello Homo Oeconomicus, imprenditore di se stesso e responsabile del successo del proprio capitale umano, attraverso il costante scontro egoistico con “l’altro”, in una società ridotta a competizione di mercato. E’ evidente che in un simile contesto un reddito di base senza welfare, si caratterizza come fattore di piena legittimazione e potenziamento del modello imperante, agendo come una sorta di incentivo alla competizione, un punto di partenza, una specie di pari opportunità simbolica come stimolo per una piena assunzione del proprio ruolo nel ring della vita.
In aggiunta, e a completamento, di questa visione agonistica dell’ordine sociale di mercato, in alcune ipotesi di fattibilità di un reddito generalizzato, vi può essere anche l’idea di una misura di tipo assistenziale (ma con evidenti finalità di controllo sociale) nei confronti del “pigri” o degli “sconfitti”. In sostanza di tutti quegli emarginati di cui viene sancito il definitivo fallimento nella capacità di gestire il proprio capitale umano:
Credo sia del tutto legittimo, a questo proposito, rimanere alquanto perplessi intorno a sperimentazioni sulla distribuzione di un reddito di base, di fatto senza welfare, in paesi come gli attuali Stati Uniti, dove non esiste né una vera scuola pubblica, né un’assistenza sanitaria universale.
Per noi resta indiscutibile il fatto che il reddito di base deve essere indissolubilmente associato alle politiche sociali e alla piena realizzazione dei diritti, di cui va considerato, per così dire, il punto d’arrivo, il farsi (reale e simbolico) della loro completa realizzazione.
2- Il reddito di base come sostitutivo delle politiche di tipo assistenziale.
Questa posizione è quella più difficile da contrastare perché meno eclatante, e purtroppo anche largamente diffusa tra studiosi e militanti della sinistra, anche radicale.
In pratica dei pilastri del welfare, i primi tre che riguardano la sanità, l’istruzione e la previdenza, anche in queste ipotesi, vengono considerati diritti fondamentali e vanno quindi assicurati dallo Stato a tutti e gratuitamente, e del tutto a prescindere dalla contemporanea e possibile erogazione di un reddito di base, universale e incondizionato.
A questo proposito, per la verità, andrebbe aperta una parentesi su un “quarto pilastro” del welfare che riguarda il fondamentale diritto alla abitazione. Il diritto ad occupare uno spazio fisico sicuro contro la condizione di precarietà, che diviene poi (anche in senso simbolico e psicologico) parte della certezza di sé e dunque base e fondamento di qualunque ipotesi di condivisione e socializzazione. Se il welfare è stato ovunque smantellato, “il diritto alla casa” pare essere colpevolmente scomparso ormai anche dalle riflessioni teoriche e dalle piattaforme di lotta e di rivendicazione sociale.
In ogni caso, l’ultimo ed “estremo” pilastro del welfare, che riguarda l’assistenza nei confronti dei più fragili e bisognosi, si pensa erroneamente che possa essere cancellato e, per così dire, inglobato nella ipotesi di un concreto attuarsi di un reddito garantito per tutti. In realtà le conseguenze potrebbero essere paradossali.
Cerchiamo di spiegarlo con un esempio immaginario (che poi tanto immaginario non è!). Siamo in Italia. C’è una famiglia con una madre impiegata e con uno stipendio di 3.000 euro mensili, e c’è un padre con una pensione di 2000 euro. Poi ci sono due figli grandi che non vivono con i genitori. Il primo è stato da poco licenziato e percepisce 800 euro mensili come indennità di disoccupazione. Il secondo è in cerca di prima occupazione e percepisce 800 euro di reddito di cittadinanza. Immaginiamo ora (con molta fantasia trattandosi del nostro paese) che venga istituito un reddito di base uguale per tutti, di 800 euro mensili, ma che malauguratamente preveda la soppressione di tutte la misure di tipo assistenziale. La madre avrà ora, sommando stipendio e reddito di base, un introito mensile di 3800 euro. Il padre di 2800 euro. I figli invece continueranno a percepire solo 800 euro mensili, ma col nome cambiato in “reddito di base”.
Credo non ci sia bisogno d’altre spiegazioni per dimostrare come il reddito di base, (specialmente nelle ipotesi di una sua realizzazione solo parziale) non possa e non debba mai cancellare misure di tipo assistenziali, in tutti quei casi in cui queste si dovessero rendere necessarie.
Certo in un’ottica strategica e di lungo periodo la realizzazione, perfettamente compiuta in tutti i suoi aspetti, del reddito di base non è neppure pensabile in un contesto in cui sono ancora necessarie forme generalizzate di assistenza contro la povertà.
Ma proprio per questa ragione è fondamentale non fare confusione tra una ipotesi di radicale trasformazione sociale quale è quella presupposta da un reddito universale pienamente realizzato, con forme di sostegno agli indigenti. D’altra parte in un futuribile e auspicabile contesto sociale, in cui fosse realizzata una equa e giusta distribuzione della ricchezza, l’assistenza nei confronti dei soggetti “fragili” (ma non poveri) non andrebbe ovviamente realizzata attraverso inutili distribuzioni monetarie ma con misure di quella che viene chiamata oggi “la società della cura”.
3- Il reddito di base come completamento del welfare “perfetto”.
In sostanza il reddito di base deve essere considerato come completamento del welfare nel senso che ne rappresenta la “perfetta” realizzazione, senza la quale i diritti che stanno alla base delle politiche di intervento sociale resterebbero inespressi e irrealizzati, o per meglio dire, non compiutamente espressi e non del tutto realizzati.
Per meglio comprendere la cosa prendiamo in considerazione quel complesso rapporto circolare e complementare, ed anche contraddittorio, esistente tra libertà ed uguaglianza.
In partenza possiamo dire che solo la piena fruizione dei benefici legati ai diritti sociali può permettere che le cosiddette libertà personali possano entrare in modo significativo e fattuale, nel vissuto della gente. E’ infatti a tutti evidente che condizioni di povertà o di disagio sociale rendono del tutto insignificante e senza effetti reali, il principio di libertà, anche se correttamente previsto a livello normativo. lo dice espressamente anche la nostra Costituzione all’Art. 3, quando afferma l’esigenza di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” per un pieno godimento dei diritti, che altrimenti resterebbero pure formule senza effetti concreti. Solo una società fondata sull’eguaglianza “reale” può essere anche una società di donne e uomini liberi.
In linea di fatto tuttavia ciò sarà vero solo a condizione che l’uguaglianza sociale sia concepita in modo da potere esprimere tutte le sue potenzialità emancipative, anche rispetto al concreto esercizio della libertà. A condizione cioè che non si affermino logiche stataliste e di gestione dall’alto, che inevitabilmente finirebbero col ridurre l’individuo sociale a puro oggetto del welfare, a semplice fruitore passivo, nella migliore delle ipotesi, di una “macchina del benessere” precostituita e preordinata nei modi del suo funzionamento e nell’erogazione dei suoi servizi. In sostanza, se non può esserci libertà senza eguaglianza, è anche vero che una eguaglianza determinata da misure gestite totalmente dall’alto, può rappresentare, se non la fine, certamente una forte limitazione nell’esercizio delle libertà.
A questo punto un reddito di base, correttamente concepito come ultimo e conclusivo pilastro del welfare, potrebbe rappresentare il punto di ricomposizione strategica tra libertà e uguaglianza. La possibilità concreta che la distribuzione universale, e in modi ugualitari, di una parte significativa della ricchezza prodotta, in una dimensione di libertà dal bisogno, possa riaffermare il valore centrale della autonomia del soggetto e della libera scelta individuale. La possibilità stessa che i diritti sociali, in quanto diritti della persona, possano essere negati come concessioni dall’alto, e si aprano invece ad una gestione dal basso, che oltre la stessa libertà individuale, finirebbe con lo spingere, in quanto caratterizzata da interessi generalizzati, verso una gestione comune e condivisa del sociale.
Il reddito di base come chiusura del cerchio. Dalla libertà formale ed egoistica alla libertà sostanziale e “comunista”, passando per il ruolo centrale dell’uguaglianza sociale.
4- Il welfare perfetto come comunismo.
Il discorso intorno al reddito di base inteso come diritto della persona, ci ha portato a delineare un quadro di natura generale e strategica, come il solo possibile per fare chiarezza sul valore delle tante proposte in campo. Su questo occorre andare ancora di più alla radice delle questioni.
L’ipotesi di un reddito realmente universale e incondizionato, così come l’abbiamo delineato nella prospettiva “ideale”, deve essere considerato, nelle attuali condizioni, come fondamentale risposta “rivoluzionaria” alle profonde trasformazioni che i modi del dominio capitalista nell’estrazione del valore e nell’accumulazione e centralizzazione della ricchezza, hanno subito nel corso del tempo, e di cui non sempre sono consapevoli alcuni dei sostenitori di varie ipotesi “ibride” di reddito di base, molte delle quali possono anche avere un significativo valore politico e di mobilitazione di fase, purché il realismo e l’immediatezza della proposta non inficino la chiarezza della prospettiva a lungo termine.
Un esempio di tale “ambiguità” tra il politicamente possibile e lo strategico si può ritrovare nella sempre annosa questione di come finanziare il reddito di base. Su questo punto occorre essere estremamente chiari. Un reddito realmente universale ed incondizionato, così come lo abbiamo descritto, è del tutto incompatibile con le leggi e le logiche che regolano la finanza e il suo dominio globale. Inutile fare calcoli. E’ proprio la ratio di quei calcoli che va ribaltata, in tempi e modi che solo il percorso di lotta potrà chiarire. La fattibilità, entro le leggi conosciute della finanza (anche elasticamente considerate), riguarda oggi solo forme di reddito “ibride” e parziali, comunque assolutamente auspicabili entro la logica della necessaria mediazione politica, e che sarà compito delle soggettività e dei movimenti sapere incanalare verso la realizzazione di un compiuto reddito di base.
Per capire il reale valore strategico del reddito di base bisogna inquadrarlo, dunque, entro le dinamiche del comando capitalista e della capacità di risposta delle forze sociali.
La stessa idea di una distribuzione monetaria universale, almeno nei termini con cui può oggi essere pensata, non sarebbe stata possibile entro Il vecchio paradigma taylorista e fordista che ha rappresentato per lungo tempo, il punto d’arrivo di una organizzazione sociale legata alla centralità del lavoro salariato.
La fabbrica come centro dello sfruttamento operaio, e cuore del dominio capitalista. La fabbrica come luogo della disciplina del lavoro obbligato e alienato, attraverso la sussunzione del tempo di lavoro e l’appropriazione del prodotto. In queste condizioni la lotta per il salario, e le lotte per il salario differito come welfare, rappresentavano il cuore della resistenza operaia che attraverso l’aumento del costo della propria prestazione lavorativa, negoziavano migliori condizioni nella distribuzione della ricchezza. La lotta per il salario, come misura della valorizzazione del lavoro necessario e svalorizzazione del pluslavoro, si presentava innanzitutto come lotta sindacale, scandita dall’alternanza, non lineare e mai conclusiva, tra il momento della lotta e quello della mediazione. Un circolo dunque, che se da un lato permetteva il riconoscimento del ruolo sociale della classe operaia e il possibile miglioramento delle sue condizioni di vita, per altro verso diveniva un meccanismo ineludibile delle stesse dinamiche riproduttive del modo di produzione capitalistico, costringendo la soggettività del dominio ad una continua trasformazione dei suoi modi, delle sue forma e delle sue strutture, per riaffermare le logiche dello sfruttamento di fronte al continuo ripresentarsi dello scontro.
La lotta sindacale dunque, se semplicemente considerata in sé, si presentava come una sorta di “cattivo infinito”. Un processo dove la capacità distruttiva della lotta non riusciva mai a compiersi spontaneamente come costruzione di un nuovo mondo, che andasse oltre l’esistente capitalistico.
Tuttavia nelle condizioni materiali del costante riprodursi dello scontro sindacale era inevitabile che nella consapevolezza dei soggetti operai si producessero pratiche ed ipotesi di nuove forme di relazioni sociali e di nuovi assetti sociali, che nella loro generalità prefiguravano la possibilità che la lotta sul salario assumesse la valenza di una lotta per la “liberazione del lavoro” come complessivo superamento della società capitalista.
Nella tradizione marxista, così come interpretata dal leninismo, la ricomposizione di questi frammenti di nuova socialità e di antagonismo trovavano la loro sintesi nella cosiddetta “coscienza di classe”, e nel “partito” come sua massima espressione, capaci di pensare la “liberazione del lavoro” nella forma compiuta del “socialismo”, come definitivo superamento del comando di capitale, e costruzione di una società fondata su strutture e valori radicalmente alternativi. La lotta per il salario diveniva pertanto una sorta di campo di battaglia privilegiato, nel quale si confrontavano la capacità di mediazione capitalista verso la riproduzione dinamica dell’esistente e la spinta di rottura rivoluzionaria della classe.
Quella che oggi viene definita come la svolta bio-cognitiva del capitalismo, o anche come capitalismo delle piattaforme, sta ad indicare la fine della centralità del lavoro e della fabbrica come produttori della ricchezza. Il fondamentale passaggio nei modi del dominio di capitale per la produzione e appropriazione della ricchezza, dalla sussunzione del tempo lavoro alla sussunzione dell’intero tempo vita. Dalla estrazione del valore attraverso la disciplina del lavoro alla estrazione del valore attraverso il controllo dell’intera esistenza. Dallo sfruttamento della forza lavoro alla capacità, grazie ai processi di digitalizzazione, di appropriarsi e mettere in valore l’enorme mole di informazioni che si producono nell’insieme delle relazioni sociali. Dalla fabbrica come luogo fisico del dominio, alla finanza e alla finanziarizzazione come luogo intangibile del controllo sociale.
Potremmo dire , semplificando al massimo, che se la lotta per il salario era (ed è ancora, in modi diversi) il momento centrale del riconoscimento dello sfruttamento del lavoro, la lotta per il reddito di base ha come suo fondamento il riconoscimento dello sfruttamento del nostro semplice vivere, come luogo della produzione, ed espropriazione, della ricchezza socialmente prodotta. Ma esattamente come la lotta per il salario operaio non rappresentava automaticamente la consapevolezza dell’esigenza della soppressione della proprietà privata dei mezzi di produzione, allo stesso modo la lotta per il reddito di base non rappresenta di per sé la coscienza compiuta del bisogno di superamento delle attuali logiche di dominio capitalista. Con inoltre una ulteriore difficoltà legata al fatto che nella storia dei movimenti e delle resistenze alle forme del comando, il ruolo preponderante e immediatamente coinvolgente assunto in passato (e in modo ridimenzionato anche oggi, pur nelle attuali difficoltà) dalle lotte sindacali centrate sul salario, non è al momento paragonabile al coinvolgimento di massa delle lotte e delle tematiche legate al reddito di base, che appare ancora, per molti versi, il frutto di riflessioni analitiche di intellettuali e di settori d’avanguardia, più che una consapevolezza, in qualche modo antagonista, e largamente condivisa dal basso.
Resta comunque il fatto che, nella auspicabile prospettiva di una crescita dello scontro, la battaglia per il reddito di base dovrebbe diventare, esattamente come lo è stato in modi diversi il salario operaio nell’epoca fordista, un terreno di scontro politico. Da una parte il reddito diffuso come luogo in cui le meccaniche e le logiche del dominio di capitale opererebbero per riaffermare l’attuale tipo di riproduzione sociale, fortemente individualizzata e finalizzata all’estrazione del valore dalle capacità, dai saperi e dalla fecondità delle reti relazionali di singolarità e moltitudini, esattamente come in passato le forze capitaliste usavano il terreno di scontro del salario operaio e del welfare per la riproduzione sociale massificata entro il vecchio paradigma fordista. In contrapposizione a questa prospettiva il reddito di base dovrebbe diventare luogo di lotta, di ricerca e di sperimentazione, per il superamento dell’esistente verso un nuovo ordine egualitario e libertario. Non si tratta di scrivere un ipotetico libro dei sogni, quanto piuttosto di intraprendere, nel cuore dei processi reali di lotta, un lungo cammino di ricerca e sperimentazione, di cui tuttavia alcune prospettive generali sono chiare fin da ora.
Ciò che nel vecchio mondo fordista caratterizzava l’ipotesi rivoluzionaria era la prospettiva socialista, intesa come “liberazione del lavoro” che sarebbe sfociata nella presa del potere. Nella attuale dimensione del capitalismo bio-cognitivo la prospettiva è divenuta quella della “liberazione dal lavoro” per la riappropriazione del proprio tempo vita, e di tutte le potenzialità bio- relazionali dell’essere sociale. In questa dinamica Il punto d’arrivo non si può più porre come presa del potere per la realizzazione del socialismo, quanto piuttosto come “attualità del comunismo” (quanto meno come bisogno), che non presuppone la presa del potere intesa come conquista dei luoghi del comando, ma apre al contrario un processo di costruzione antagonista, ma positiva, di istanze, valori e percorsi di gestione democratica e partecipata, verso la realizzazione di nuove strutture sociali fondate su un nuovo senso del comune e della cooperazione associativa.
Di questo processo, come abbiamo visto, il reddito di base, e più in generale l’equa distribuzione della ricchezza, sono (o meglio saranno) in qualche modo un punto d’arrivo in quanto sintesi “comunista” tra libertà e uguaglianza, tra individuo e comunità. Ma il reddito di base è anche un punto di partenza, o meglio ancora, un aspetto essenziale di tutto il processo, perché comunque la rivendicazione di un reddito come diritto segna il passaggio ad una condizione di liberazione dalla precarietà, che è liberazione dal lavoro obbligato e dalle catene del debito. Il reddito libera il soggetto sociale e al tempo stesso, proprio in quanto lo libera, lo pone di fronte alle sue responsabilità sociali.
Il prendersi carico di queste responsabilità non è scontato. Nell’ottica che abbiamo definito di riproduzione sociale individualizzata, le singolarità sono costantemente spinte a leggere ogni parziale e incompleta ridistribuzione della ricchezza, come una sorta di input verso un modus operandi che abbina il proprio interesse egoistico a disimpegno e passività sociale.
L’accesso al reddito, al contrario, ha tutte le caratteristiche per diventare un potente incentivo verso una matura etica della responsabilità, fondata sull’attenzione verso l’altro e verso la comunità, che ponga al centro i valori della reciprocità tra uguali. Il reddito di base come luogo ideale in cui si incontrano il diritto del singolo a godere dei benefici che la società rende disponibili e il dovere di ciascuno a contribuire con il proprio impegno al bene comune.
La realizzazione compiuta di questa libera compenetrazione tra il “diritto ad avere” e il “dovere di dare”, è nella lunga prospettiva un punto di svolta storico. Ad oggi, nelle società storiche di tipo classista, organizzate secondo logiche gerarchiche e di potere, “l’avere” è sempre stato subordinato al “dare” in termini di prestazioni forzose. Nella società capitalista, in particolare il contributo del singolo viene misurato attraverso la monetizzazione della prestazione lavorativa, non più obbligata dall’uso della forza, ma resa ugualmente forzosa dal ricatto del bisogno. “l’animale politico” aristotelico non è messo nelle condizioni di esprimere la propria natura sociale e politica come propensione verso la comunità, perché la propria “generosità costruttiva” viene ingabbiata nel lavoro obbligato come puro strumento della propria sopravvivenza.
Parallelamente al perpetuarsi nella storia delle logiche del dominio, l’idea di liberare l’agire umano dal bisogno è questione molto antica, che si è espressa da sempre nelle lotte, ma anche nella letteratura.
Nel primo libro della “Repubblica” di Platone, Trasimaco discutendo con Socrate di cosa sia giusto, fa la famosa affermazione che “La giustizia è l’utile del più forte”, e per suffragare la sua tesi, che parte dall’idea che tutti i rapporti umani sono dominati dall’egoismo, cita i pastori che accudiscono le loro pecore, apparentemente in modo benevolo, in realtà per ucciderle e vendere la loro carne per denaro. Socrate risponde che non si può confondere “l’arte” della pastorizia con l’utile che se ne può ricavare, esattamente come non si può confondere il profitto del medico con la sua capacità di guarire il malato.
In buona sostanza il discorso di Socrate parrebbe porre l’esigenza di liberare l’agire nell’interesse comune dal ricatto del bisogno individuale.
In conclusione si può dire che Il punto d’arrivo di tutti i ragionamenti fin qui fatti, lo si può trovare nella vecchia formula attraverso la quale si definisce il comunismo: “Da ognuno secondo le sue capacità. Ad ognuno secondo i suoi bisogni”. Un modo di concepire il rapporto sociale come luogo in cui per individui e comunità, il rapporto tra ciò che si da e ciò che si prende non è subordinato al potere altrui, né ad una logica meritocratica del puro calcolo egoistico. Si da quel che si può e si riceve quel che è necessario
Si tratta evidentemente di una utopia, nel senso letterale di “luogo che non c’è”. Di questa utopia tuttavia l’idea stessa di reddito di base, in quanto figlia della prospettiva “comunista” dell’uguaglianza, e quindi potenzialmente capace di una compenetrazione di diritti e doveri che si realizza come scelta consapevole di un soggetto libero, può rappresentare un piccolo spiraglio aperto sul futuro.