viviamo in un “momento Polibio”? -Francesco Raparelli-
La carestia, la pestilenza, la guerra, il corpo collettivo si corrompe,
una civiltà tramonta: così lo storico greco-romano esordisce
nel VI libro delle sue Storie
Facciamo nostra una mossa teorica della Rinascenza ai suoi inizi: la forza dell’ignoranza. No, il problema non è la conoscenza di Dio, ma la conquista di uno sguardo d’insieme sull’interregno. È senz’altro qualcosa di più, di un semplice interregno, ciò che stiamo vivendo: non c’è solo la crisi dell’egemonia americana, con i suoi colpi di coda che destabilizzano un po’ ovunque e senza sosta dall’autunno del 2001 in poi; c’è che siamo ancora immersi in una pandemia per nulla risolta, nonostante vaccini e terapie farmacologiche più efficaci; c’è che la pandemia ha generato uno shock economico con rari precedenti, dal quale il mondo tutto, l’Europa in particolare, non si sono ancora ripresi. Il Blitzkrieg (o quasi) del despota del Cremlino, con la Cina silente che pensa a Taiwan, giungono dunque nel mezzo del disastro, nella crepa che sembra senza fondo.
Si tratta allora di condividere
appunti, semilavorati, idee annusate, digressioni, lampi e visioni offuscate,
con ignoranza quanto più possibile dotta.
Tutto ci
spinge a pensare che viviamo in un “momento Polibio”. La carestia, la
pestilenza, la guerra, il corpo collettivo si corrompe, una civiltà tramonta:
così lo storico greco-romano esordisce nel VI libro delle sue Storie.
Nel vuoto e nella rarefazione, continua Polibio, i dispersi ricominciano, con
loro il «ciclo costituzionale», dalla monarchia all’oligarchia, alla
democrazia, con le degenerazioni delle tre costituzioni che scandiscono il
movimento, il ritorno, il cerchio necessario e naturale. Come noto, Polibio è
lettura decisiva nel Rinascimento ed è Machiavelli a farne un uso irregolare e
fecondo. Il Nostro aveva letto e tradotto Lucrezio, che pure e più di Polibio
di peste aveva scritto, prima che il suo capolavoro si fermasse inconcluso.
Dal De rerum natura, e dunque dall’epicureismo, Machiavelli
riprende il clinamen, la deviazione infinitesimale che genera
l’incontro tra gli atomi; dall’incontro, le combinazioni e i corpi;
dall’incontro, l’avvelenamento e la decomposizione; di corpo in corpo, di
combinazione in combinazione, si fa il mondo; così, in eterno (senza origine né
fine). Eternità e necessità sono, e ciò non è banale né intuitivo,
continuamente segnati dall’indeterminazione. I corpi muoiono, le civiltà
deperiscono, ma il ciclo non è più chiuso, per il lucreziano Machiavelli: la
politica della libertà, ovvero la «repubblica tumultuaria», combattono la
corruzione della città, la disunione fonda istituzioni espansive.
Le cause della guerra in corso sono
più o meno note. Senza gerarchie: transizione ecologica e questione energetica;
la grande occasione russa dopo la fuga scomposta dell’Occidente da Kabul;
l’avventurismo nazionalista di Putin, motore insaziabile del suo autoritarismo;
la spregiudicatezza nonché la permanente provocazione USA nell’Est Europa,
quella di Zelenskij con la NATO. Senz’altro la lista è lacunosa, ma, pur
completandola, non si spiega l’invasione di queste ore drammatiche, l’assedio
di Kiev. Si tratta per tutti, anche per chi da mesi prevedeva gli esiti della
crisi ucraina, di un «cigno nero». Come tale, chiede uno sforzo del pensiero e
una prassi inediti, anche perché, al momento, è tutt’altro che facile prevedere
gli effetti dell’invasione. Vero, gli Stati Uniti non interverranno
direttamente o così dicono; vero, la resistenza ucraina pare non potere nulla
nei confronti dell’esercito russo; vero, è molto probabile che Putin si fermi
all’Ucraina e non stia pensando ai Paesi baltici: ma è proprio tutto così vero
e indubitabile?
Ciò su cui è
lecito dubitare da subito sono le sanzioni. In primo luogo perché, come
chiarisce Thomas Piketty, per colpire davvero oligarchi e multimiliardari russi
e sodali di Putin servirebbe un «catasto finanziario internazionale»;
operazione, questa, che di certo non piacerebbe ai multimiliardari d’Occidente
i quali, al pari dei loro colleghi russi, usano opacità e assenza di regole per
arricchirsi senza freno e per sfuggire alla morsa fiscale. In secondo luogo
perché – e ciò è stato chiarito in Italia, tra gli altri, da Romano Prodi –
perché le sanzioni colpirebbero fortemente l’Europa, Germania e Bel Paese in
particolare. E il problema non è solo energetico, l’import di gas che Gazprom
ha ripreso a pompare proprio in questi giorni, dopo mesi di strategico
razionamento; il problema riguarda più in generale l’export di tecnologie
industriali, essendo la Russia uno degli sbocchi di mercato più rilevanti della
manifattura tedesca e italica. Una eventuale sostituzione cinese all’export
italo-tedesco vanificherebbe, nel giro di pochi mesi, gli sforzi per la ripresa
di Next Generation EU, il «cataclisma occupazionale» sin qui
arginato tornerebbe a scuotere la già precaria fiducia nelle istituzioni degli
europei tutti.
Poniamoci dunque la domanda: e se il
vero obiettivo di Putin, e tutto sommato anche quello di Biden, fosse la
destabilizzazione dell’Unione Europea e, più in particolare, dell’Eurozona? Il
despota russo sa che l’Europa non potrà che soffrire delle sanzioni, dalle
quali la UE d’altronde non può sottrarsi – l’ostilità americana di fronte alle
iniziali timidezze di Scholz e Draghi parla chiaro. Biden sa che l’Europa,
senza il gas russo, senza Nord Stream 2, avrà bisogno del suo gas liquefatto;
conosce bene, e avversa, la significativa apertura a Est, dalla Russia fino al
Guangdong, della Germania e non solo; sa già che la nuova crisi dei rifugiati
solleciterà fratture nel corpo politico e sociale europeo, già provato dalla
crisi dei debiti sovrani e da quella imposta dalla pandemia. All’America,
l’Europa a trazione tedesca non piace; dal punto di vista geopolitico, poi, è
un ostacolo nel confronto competitivo con la Cina. Lasciar accadere, stimolare
in modo non sempre diretto ed esplicito il nazionalismo di Putin: questa, pare,
la mossa americana – le parole di Papa Francesco, che ha raggiunto di persona
l’Ambasciata russa a Roma, e del Cardinal Bagnasco, rafforzano gli indizi.
Al “momento
Polibio”, allora, dovremmo contrapporre un “momento Machiavelli” (o Lenin, il
nemico di Putin) e uno “Hamilton”. Secondo il primo dei due, dovremmo pensare
la «congiuntura», cogliere l’occasione, rovesciare la catastrofe in
combattimento politico, per la pace, per la libertà. Pace e libertà, contro
guerra e autoritarismo, ma anche contro l’economia di guerra che si imporrà da
subito, e dopo lo shock pandemico non ancora superato. E pace vorrà dire anche,
oltre la mobilitazione d’opinione e di piazza che dovrà essere costante,
conoscere e disertare la macchina bellica nelle sue articolazioni retoriche,
sicuritarie, produttive. Il “momento Hamilton” riguarda l’Europa: è ora di dire
basta al Patto di stabilità, come aggravato dal Fiscal compact; è
ora di pretendere un vero bilancio federale, la piena mutualizzazione dei
debiti pubblici; è ora di estendere in tutta Europa il salario minimo legale di
12 euro approvato da Scholz, in Germania, pochi giorni fa; è ora di eliminare i
paradisi fiscali, dal Lussemburgo all’Irlanda, e di costituire il pilastro
fiscale continentale; è ora – perché non dirlo? – di sciogliere la NATO e
avanzare verso una forza di difesa, e non di attacco, europea. Infine, ma
all’inizio, accoglienza dei profughi «senza se e senza ma».
Tutto ciò è folle? Non è dietro
l’angolo, senz’altro. Necessiterà lotte assai radicali e al momento per nulla
scontate, anzi. Ma la follia è un’altra cosa, è la guerra nucleare minacciata,
potenziale, che nessuno può del tutto escludere.
Poche
battute ancora, sulla follia, su quella di Putin in particolar modo. Le élite
americane, in generale occidentali, adorano stigmatizzare i leader all’America
ostili definendoli pazzi. Da Hitler in poi, c’è sempre un pazzo che, pur
essendo stato ampiamente foraggiato dalle borghesie locali, poi prende in mano il
potere, lo gestisce in modo assoluto, e nessun può più far nulla. Domanda: come
fa il Paese di Donald Trump – che tra l’altro ritiene Putin «un genio» –, quel
Paese che faceva buoni affari con Bin Laden e Saddam Hussein, lo stesso che non
disdegna gli affari con Bolsonaro, ad affibbiare al solo Putin l’epiteto, Vlad
the mad? Il lungo discorso storico di Putin, come la diretta del Consiglio
di sicurezza, indubbiamente hanno esibito segni poco convenzionali. Ma siamo
certi che l’ispirazione nazionalista, il riferimento alla maschia patria
ferita, da contrapporre virile alla mollezza morale dell’Occidente
consumistico, alla «banda di drogati» di Zelensky, sia farina del sacco del
nuovo Zar e di nessun altro?
Per chiudere. Le lacune e le
forzature di quanto scritto sono palesi. Serve un cervello collettivo, che
torni a incontrarsi nelle piazze e nelle strade, nel picchetto e nello
sciopero, per afferrare un orientamento possibile. Viviamo in una crepa del
mondo, il nostro XIV secolo. Con l’augurio di uscirne Ciompi, apriamo la
discussione, procediamo per approssimazioni, facciamo giri larghi. È troppo
tempo che affermiamo che le bussole non funzionano più. Era vero già dieci anni
fa, camminiamo nel buio è abbiamo bisogno di luce: mondana, dei corpi che
disobbediscono e dicono “Signor no, Signore”.
immagine: particolare da “Il mercato della nostra democrazia”, di Ilya Sergeevich Glazunov (1999)
Questo articolo è stato pubblicato su DinamoPress il
27 febbraio 2022