martedì 8 marzo 2022

"COME SIAMO ARRIVATI A QUESTO?"

 



    tratto da 

"La guerra in Ucraina, l’Occidente e noi" 

Maurizio Lazzarato -


Per capire la guerra in corso, bisogna risalire alla caduta del muro di Berlino e spiegare i cambiamenti strategici che, all’epoca, non sono stati realmente compresi, per mancanza di un’analisi delle rivoluzioni del XX secolo    

Gli occidentali rappresentano il più grande pericolo per la pace nel mondo perché sono ben consapevoli del doppio declino che li minaccia: quello dell’Europa, a partire dalla prima guerra mondiale e quello degli USA, a partire dalla fine degli anni Sessanta. Essi producono incessantemente disordine politico ed economico, diffondono il caos e la guerra perché, inoltre, si sono pesantemente ingannati sulla nuova fase politica aperta dal crollo dell'Unione Sovietica.

Gli occidentali (e soprattutto i governi americani con tutto l’establishment industriale, finanziario, la burocrazia armata del pentagono ecc., da distinguere dal popolo americano diviso da una latente guerra civile in corso!) erano convinti di aver trionfato, mentre avevano perso, anche se in modo diverso dai sovietici. Questo è un punto molto importante che spiega tutte le scelte catastrofiche che hanno compiuto in trent'anni, compresa quella dell'allargamento della Nato verso la Russia, all'origine della guerra in Ucraina, che non sarà certo l'ultima.

Scriveva in questi giorni Alberto Negri: «Eppure gli Usa erano stati avvertiti da George Kennan, artefice della politica di contenimento dell'Unione Sovietica nel 1997: “L'allargamento della Nato è il più grave errore della politica americana dalla fine della guerra fredda […] questa decisione spingerà la politica estera russa in direzione contraria a quella che vogliamo”».

Per capire perché gli americani continuano a fare scelte catastrofiche, portandoci dritti al disastro, dobbiamo tornare al XX secolo, perché esso non è stato né «breve» (Hobsbawn) né «lungo» (Arrighi) ma il secolo delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni, le più importanti delle quali, quelle che hanno configurato la nostra attualità, sono avvenute nel sud del mondo.

Per gli occidentali, l'economia di mercato e la democrazia avevano vinto la battaglia di «civiltà» del XX secolo. Non restava che capitalizzare la vittoria imponendo il «neoliberismo» e i diritti umani in tutto il mondo. In realtà, il XX secolo è stato il secolo della «rivolta contro l'Occidente», il secolo delle guerre contro il suo imperialismo, il secolo delle guerre civili mondiali (e non solo europee) che sono continuate dopo la seconda guerra mondiale. Ed è da qui che bisogna partire per capire qualcosa della situazione contemporanea.

Gli occidentali concentrati sullo scontro Est/Ovest non hanno compreso che le guerre anticoloniali, in meno di un secolo, stavano rovesciando gli equilibri di potere tra Nord e Sud. I «popoli oppressi» avevano attaccato la divisione economica e politica tra centro e periferia che dal 1492 governava il funzionamento del capitalismo. Il potere europeo si basava sulla separazione del proletariato mondiale, tra i lavoratori che fornivano lavoro astratto al nord e i proletari, i contadini, le donne, gli schiavizzati, i servi ecc. che garantivano un lavoro svalorizzato, gratuito o mal pagato al sud e un lavoro domestico gratuito sia al nord che al sud.

Il grande merito della rivoluzione bolscevica è stato di aprire la strada alla rivoluzione dei «popoli oppressi», che cambierà radicalmente i rapporti di forza sul «mercato mondiale». E tuttavia gli Stati Uniti avevano condotto un'aspra guerra politica ed economica contro il sud (all’epoca «Terzo Mondo») dopo la seconda guerra mondiale. Sono effettivamente riusciti a sconfiggere la rivoluzione mondiale, ma questa ha sedimentato dei cambiamenti così radicali nell'organizzazione del mercato mondiale e nelle società liberate dall'imperialismo, che le rivoluzioni anticoloniali, pur avendo abbandonato il progetto comunista o socialista, sono all'origine della distribuzione contemporanea del potere politico e dello spostamento dei centri del capitalismo dal nord al sud e all’est del mondo.

La grande novità non è da ricercare nella rivoluzione digitale, nel capitalismo cognitivo, nella biopolitica, nella bioeconomia ecc. (tutti questi concetti riflettono un ristretto punto di vista eurocentrico) ma in questo cambiamento dei rapporti tra forze economiche e politiche su scala mondiale. La riconfigurazione del capitalismo non ha avuto luogo principalmente al Nord, ma nel Sud del mondo, come ora appare sempre più evidente.

Per Giovanni Arrighi, il cuore dell'antagonismo della seconda metà del Novecento «non è altro che la lotta di potere durante la quale il governo americano cercò di contenere, con l'uso della forza, il doppio fronte della sfida che rappresentavano il comunismo e il nazionalismo nel Terzo Mondo».

Solo tra gli operaisti ad aver compreso le rivoluzioni del Novecento, Arrighi dimostra che la controrivoluzione monetaria, iniziata con la dichiarazione dell'inconvertibilità del dollaro (1971), costituisce una risposta diretta alla più importante guerra anticoloniale dopo la seconda guerra mondiale, quella che ha dato l'indicazione della mobilitazione generale contro l’imperialismo a tutti i paesi del sud. «Dobbiamo fare come Dien Ben Phu», proclamava Fanon dall’Algeria ancora sotto l'occupazione francese.

Mentre i marxisti europei collegavano la riorganizzazione capitalista esclusivamente alle lotte capitale-lavoro e alla concorrenza tra i capitalisti, Arrighi afferma che le politiche americane a cavallo degli anni Sessanta e Settanta miravano «a strappare ai vincoli monetari la lotta per il dominio che gli USA conducevano nel terzo mondo».

I costi (esterni e interni) della guerra guidata dagli americani contro i Viet Cong «non solo hanno contribuito alla riduzione dei profitti, ma sono stati la causa fondamentale del crollo del sistema dei cambi fissi stabilito a Bretton Woods, e la conseguente forte svalutazione del dollaro USA».

La colonia è «moderna» quanto la fabbrica di Manchester, fa parte della catena del valore come Detroit o Torino e si rivelerà il luogo più favorevole alla soggettivazione rivoluzionaria, mettendo così in crisi il centro a partire dalle periferie.

«Come per la liquidazione della parità oro/dollaro, furono le guerre e le rivoluzioni nel sud, e non la concorrenza tra i capitalisti delle tre grandi economie mondiali, a essere il motore principale della controrivoluzione monetarista del 1979-1982».

Lo stimolo più forte per liberare la moneta dai vincoli economici (l’oro) non viene dalla «crisi di profittabilità», ma dalla crisi di «egemonia statunitense nel Terzo Mondo». Le differenze tra nord e sud alla fine dell'Ottocento e alla fine del Novecento «sono più importanti di quelle dei rapporti tra lavoro e capitale».

Anche nella prima metà del secolo, le cose essenziali sono accadute all’est e al sud, perché l’organizzazione delle rivoluzioni, che si affermeranno dopo la seconda guerra mondiale, si definisce e si consolida dopo i massacri della «grande guerra».

Al cuore di queste lotte che hanno rovesciato alcuni secoli di dominio coloniale, i comunisti hanno avuto un ruolo fondamentale, perché sono riusciti a trasformare la «piccola guerra» di Clausewitz in guerre rivoluzionaria, in «guerra dei partigiani». Invenzione strategica, di una importanza paragonabile all’oblio di cui è stata l’oggetto da parte di coloro che vorrebbero cambiare il mondo, perché farà definitivamente cadere gli imperi europei e coloniali e determinerà uno sconvolgimento dell’ordine mondiale, che spiega anche quello che stiamo vivendo.

Il grande conservatore Carl Schmitt (a suo tempo nazista e sempre anticomunista) ha il merito di riconoscere l’enorme energia e potenza politiche sviluppate dalle rivoluzioni anticoloniali, mentre il suo ammiratore, Mario Tronti, che l’ha introdotto nella sinistra italiana, esprime un’insopportabile condiscendenza per queste rivoluzioni «contadine».

«L’irregolarità della “lotta di classe organizzata dalla lotta dei partigiani, articolata alle forme più classiche del combattimento condotto dalla Armata Rossa o dall’esercito del popolo “mette in discussione non soltanto una linea ma intera costruzione dell’ordinamento politico e sociale. […] l’alleanza della filosofia col partigiano, compiuta da Lenin, […] ha provocato nientemeno che il crollo del vecchio mondo eurocentrico, che Napoleone aveva sperato di salvare e il Congresso di Vienna di restaurare».

Clausewitz, «ufficiale di professione di un esercito regolare, non avrebbe potuto sviluppare fino in fondo la logica insita nel partigiano come invece [era] in grado di fare Lenin […] la cui esistenza era sempre stata quella del rivoluzionario di professione. Ma il partigiano del bolscevismo russo è poca cosa – voglio dire nella sua realtà concreta – paragonato al partigiano cinese. Mao stesso ha creato il suo esercito di partigiani e la sua élite di partigiani».

In una conversazione del 1969 con un maoista (Joachim Schickel), Carl Schmitt afferma che la dimensione globale della lotta è stata introdotta dalla guerra dei partigiani: «il problema del partigiano non è soltanto un problema internazione, ma anche globale».

E aggiunge che, nel 1949, dopo la proclamazione della repubblica popolare cinese «si pensava di poter avere finalmente la pace mondiale, e meno di un anno dopo è cominciata la guerra di Corea», senza dimenticare Dien Bien Phu, l’Algeria, Cuba, ecc. situazione che definirà, nel 1961, contemporaneamente ad Hannah Arendt, «guerra civile mondiale».

Ryamond Aron ha espresso lo stesso pregiudizio eurocentrico degli operaisti alla Tronti, quando scriveva a Schmitt «che il problema del partigiano era il problema dei popoli poveri» e senza industria, gravati dai ritardi tecnologici e organizzativi, potremmo aggiungere noi.

Evocare la «guerra dei partigiani» non è una semplice commemorazione storica, perché essa continua, animata da altri «popoli poveri» e da altre forze politiche, riuscendo a sconfiggere gli imperialisti anche dopo la sconfitta del socialismo.


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