tratto da
"La guerra in Ucraina, l’Occidente e noi"
- Maurizio Lazzarato -
Gli occidentali rappresentano il più grande pericolo per la pace nel mondo
perché sono ben consapevoli del doppio declino che li minaccia: quello
dell’Europa, a partire dalla prima guerra mondiale e quello degli USA, a
partire dalla fine degli anni Sessanta. Essi producono incessantemente
disordine politico ed economico, diffondono il caos e la guerra perché,
inoltre, si sono pesantemente ingannati sulla nuova fase politica aperta dal
crollo dell'Unione Sovietica.
Gli occidentali (e soprattutto i governi americani con tutto l’establishment
industriale, finanziario, la burocrazia armata del pentagono ecc., da
distinguere dal popolo americano diviso da una latente guerra civile in
corso!) erano convinti di aver trionfato, mentre avevano perso, anche se in
modo diverso dai sovietici. Questo è un punto molto importante che spiega tutte
le scelte catastrofiche che hanno compiuto in trent'anni, compresa quella
dell'allargamento della Nato verso la Russia, all'origine della guerra in
Ucraina, che non sarà certo l'ultima.
Scriveva in questi giorni Alberto Negri: «Eppure gli Usa erano stati
avvertiti da George Kennan, artefice della politica di contenimento dell'Unione
Sovietica nel 1997: “L'allargamento della Nato è il più grave errore della
politica americana dalla fine della guerra fredda […] questa decisione spingerà
la politica estera russa in direzione contraria a quella che vogliamo”».
Per capire perché gli americani continuano a fare scelte catastrofiche,
portandoci dritti al disastro, dobbiamo tornare al XX secolo, perché esso non è
stato né «breve» (Hobsbawn) né «lungo» (Arrighi) ma il secolo delle rivoluzioni
e delle controrivoluzioni, le più importanti delle quali, quelle che hanno
configurato la nostra attualità, sono avvenute nel sud del mondo.
Per gli occidentali, l'economia di mercato e la democrazia avevano vinto la
battaglia di «civiltà» del XX secolo. Non restava che capitalizzare la vittoria
imponendo il «neoliberismo» e i diritti umani in tutto il mondo. In realtà, il
XX secolo è stato il secolo della «rivolta contro l'Occidente», il secolo delle
guerre contro il suo imperialismo, il secolo delle guerre civili mondiali (e
non solo europee) che sono continuate dopo la seconda guerra mondiale. Ed è da
qui che bisogna partire per capire qualcosa della situazione contemporanea.
Gli occidentali concentrati sullo scontro Est/Ovest non hanno compreso che
le guerre anticoloniali, in meno di un secolo, stavano rovesciando gli
equilibri di potere tra Nord e Sud. I «popoli oppressi» avevano attaccato la
divisione economica e politica tra centro e periferia che dal 1492 governava il
funzionamento del capitalismo. Il potere europeo si basava sulla separazione
del proletariato mondiale, tra i lavoratori che fornivano lavoro astratto al
nord e i proletari, i contadini, le donne, gli schiavizzati, i servi ecc. che garantivano
un lavoro svalorizzato, gratuito o mal pagato al sud e un lavoro domestico
gratuito sia al nord che al sud.
Il grande merito della rivoluzione bolscevica è stato di aprire la strada
alla rivoluzione dei «popoli oppressi», che cambierà radicalmente i rapporti di
forza sul «mercato mondiale». E tuttavia gli Stati Uniti avevano condotto
un'aspra guerra politica ed economica contro il sud (all’epoca «Terzo Mondo»)
dopo la seconda guerra mondiale. Sono effettivamente riusciti a sconfiggere la
rivoluzione mondiale, ma questa ha sedimentato dei cambiamenti così radicali
nell'organizzazione del mercato mondiale e nelle società liberate
dall'imperialismo, che le rivoluzioni anticoloniali, pur avendo abbandonato il
progetto comunista o socialista, sono all'origine della distribuzione
contemporanea del potere politico e dello spostamento dei centri del
capitalismo dal nord al sud e all’est del mondo.
La grande novità non è da ricercare nella rivoluzione digitale, nel
capitalismo cognitivo, nella biopolitica, nella bioeconomia ecc. (tutti questi
concetti riflettono un ristretto punto di vista eurocentrico) ma in questo
cambiamento dei rapporti tra forze economiche e politiche su scala mondiale. La
riconfigurazione del capitalismo non ha avuto luogo principalmente al Nord, ma
nel Sud del mondo, come ora appare sempre più evidente.
Per Giovanni Arrighi, il cuore dell'antagonismo della seconda metà del
Novecento «non è altro che la lotta di potere durante la quale il governo
americano cercò di contenere, con l'uso della forza, il doppio fronte della
sfida che rappresentavano il comunismo e il nazionalismo nel Terzo Mondo».
Solo tra gli operaisti ad aver compreso le rivoluzioni del Novecento,
Arrighi dimostra che la controrivoluzione monetaria, iniziata con la dichiarazione
dell'inconvertibilità del dollaro (1971), costituisce una risposta diretta alla
più importante guerra anticoloniale dopo la seconda guerra mondiale, quella che
ha dato l'indicazione della mobilitazione generale contro l’imperialismo a
tutti i paesi del sud. «Dobbiamo fare come Dien Ben Phu», proclamava Fanon
dall’Algeria ancora sotto l'occupazione francese.
Mentre i marxisti europei collegavano la riorganizzazione capitalista
esclusivamente alle lotte capitale-lavoro e alla concorrenza tra i capitalisti,
Arrighi afferma che le politiche americane a cavallo degli anni Sessanta e
Settanta miravano «a strappare ai vincoli monetari la lotta per il dominio che
gli USA conducevano nel terzo mondo».
I costi (esterni e interni) della guerra guidata dagli americani contro i
Viet Cong «non solo hanno contribuito alla riduzione dei profitti, ma sono
stati la causa fondamentale del crollo del sistema dei cambi fissi stabilito a
Bretton Woods, e la conseguente forte svalutazione del dollaro USA».
La colonia è «moderna» quanto la fabbrica di Manchester, fa parte della
catena del valore come Detroit o Torino e si rivelerà il luogo più favorevole
alla soggettivazione rivoluzionaria, mettendo così in crisi il centro a partire
dalle periferie.
«Come per la liquidazione della parità oro/dollaro, furono le guerre e le
rivoluzioni nel sud, e non la concorrenza tra i capitalisti delle tre grandi
economie mondiali, a essere il motore principale della controrivoluzione
monetarista del 1979-1982».
Lo stimolo più forte per liberare la moneta dai vincoli economici (l’oro)
non viene dalla «crisi di profittabilità», ma dalla crisi di «egemonia
statunitense nel Terzo Mondo». Le differenze tra nord e sud alla fine
dell'Ottocento e alla fine del Novecento «sono più importanti di quelle dei
rapporti tra lavoro e capitale».
Anche nella prima metà del secolo, le cose essenziali sono accadute all’est
e al sud, perché l’organizzazione delle rivoluzioni, che si affermeranno dopo
la seconda guerra mondiale, si definisce e si consolida dopo i massacri della
«grande guerra».
Al cuore di queste lotte che hanno rovesciato alcuni secoli di dominio
coloniale, i comunisti hanno avuto un ruolo fondamentale, perché sono riusciti
a trasformare la «piccola guerra» di Clausewitz in guerre rivoluzionaria, in
«guerra dei partigiani». Invenzione strategica, di una importanza paragonabile
all’oblio di cui è stata l’oggetto da parte di coloro che vorrebbero cambiare
il mondo, perché farà definitivamente cadere gli imperi europei e coloniali e determinerà
uno sconvolgimento dell’ordine mondiale, che spiega anche quello che stiamo
vivendo.
Il grande conservatore Carl Schmitt (a suo tempo nazista e sempre
anticomunista) ha il merito di riconoscere l’enorme energia e potenza politiche
sviluppate dalle rivoluzioni anticoloniali, mentre il suo ammiratore, Mario
Tronti, che l’ha introdotto nella sinistra italiana, esprime un’insopportabile
condiscendenza per queste rivoluzioni «contadine».
«L’irregolarità della “lotta di classe organizzata dalla lotta dei
partigiani, articolata alle forme più classiche del combattimento condotto
dalla Armata Rossa o dall’esercito del popolo “mette in discussione non
soltanto una linea ma intera costruzione dell’ordinamento politico e sociale.
[…] l’alleanza della filosofia col partigiano, compiuta da Lenin, […] ha
provocato nientemeno che il crollo del vecchio mondo eurocentrico, che
Napoleone aveva sperato di salvare e il Congresso di Vienna di restaurare».
Clausewitz, «ufficiale di professione di un esercito regolare, non avrebbe
potuto sviluppare fino in fondo la logica insita nel partigiano come invece
[era] in grado di fare Lenin […] la cui esistenza era sempre stata quella del
rivoluzionario di professione. Ma il partigiano del bolscevismo russo è poca
cosa – voglio dire nella sua realtà concreta – paragonato al partigiano cinese.
Mao stesso ha creato il suo esercito di partigiani e la sua élite di
partigiani».
In una conversazione del 1969 con un maoista (Joachim Schickel), Carl
Schmitt afferma che la dimensione globale della lotta è stata introdotta dalla
guerra dei partigiani: «il problema del partigiano non è soltanto un problema
internazione, ma anche globale».
E aggiunge che, nel 1949, dopo la proclamazione della repubblica popolare
cinese «si pensava di poter avere finalmente la pace mondiale, e meno di un
anno dopo è cominciata la guerra di Corea», senza dimenticare Dien Bien Phu,
l’Algeria, Cuba, ecc. situazione che definirà, nel 1961, contemporaneamente ad
Hannah Arendt, «guerra civile mondiale».
Ryamond Aron ha espresso lo stesso pregiudizio eurocentrico degli operaisti
alla Tronti, quando scriveva a Schmitt «che il problema del partigiano era il
problema dei popoli poveri» e senza industria, gravati dai ritardi tecnologici
e organizzativi, potremmo aggiungere noi.
Evocare la «guerra dei partigiani» non è una semplice commemorazione
storica, perché essa continua, animata da altri «popoli poveri» e da altre
forze politiche, riuscendo a sconfiggere gli imperialisti anche dopo la
sconfitta del socialismo.
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