- Benedetto Vecchi -
Il potere della gratuità nell’economia globale
Cosa vuol dire «PLATFORM CAPITALISM»? Innanzitutto precarietà dei rapporti di lavoro, proliferazione delle forme contrattuali, forte differenziazione e nuove forme di gerarchia nella divisione sociale del lavoro, ruolo di governo della finanza nell’economia mondiale, la città pensata come uno indistinto, poroso spazio produttivo. In altri termini parlare di capitalismo delle piattaforme vuol dire analizzare il regime di accumulazione contemporaneo
Un punto di vista forte, critico sulle piattaforme digitali sarebbe claudicante se non affrontasse il tema del gioco, meglio della dimensione ludica della partecipazione ai social network e alla guerriglia mediatica contro gli algoritmi di Facebook.
Certo, appropriarsi degli algoritmi vuol dire conoscerli e saperli usare, forzarli, metterli in crisi al fine di bloccare il flusso ordinato delle informazioni e dei contenuti veicolati dalle piattaforme digitali. Ma sono sempre tattiche e momenti di conflitto circoscritti, che hanno bisogno di discrezione per essere efficaci. Sono parte, ma non esauriscono la soluzione di come avviare processi di conflitto e di autorganizzazione. Il gioco è inoltre parte integrante dell’etica hacker che si è affiancata, senza dunque sostituirla interamente, a quella protestante nel garantire stabilità al capitalismo delle piattaforme. Sarebbe altresì interessante capire come il gioco, la gratuità entrano in relazione con la renaissance del confucianesimo in Cina o l’induismo in India. Gli stratosferici investimenti nella ricerca e sviluppo decisi da Pechino sono certo finalizzati al passaggio dal made in China al Design in China, ma altrettanto pressante è stato l’impegno del governo cinese nel promuovere i centri culturali su Confucio, all’interno della retorica della Società dell’armonia, dove l’etica hacker è piegata a una politica di potenza e dove l’attitudine ludica del lavoro lascia il posto al lavoro come mezzo per elevare lo spirito e per far crescere il conto in banca. Sta di fatto che l’etica del lavoro che emerge dal capitalismo delle piattaforme è si carica di jouissance, ma vincolata alla produzione di plusvalore relativo. E’ un doppio movimento tra oltrepassamento dei limiti posti dal regime di accumulazione e produzione normativa di un nuovo campo dove collocare i comportamenti collettivi e individuali operanti nel patto luciferino esistente nel capitalismo delle piattaforme tra gratuità delle app, cioè dell’accesso ai social network in cambio della cessione dei propri dati personali che fanno accrescere i Big data.
Da una
parte, quindi, materia prima del capitalismo delle piattaforme sono anche dati,
informazioni, contenuti prodotti nella comunicazione on line. E’ noto che i Big
Data vengono assemblati, elaborati, spacchettati per campagne pubblicitarie
personalizzate, ma anche per essere venduti a chi è interessato ad usarli per
altri business. E’ questo l’altro versante dove la distinzione tra materiale e
immateriale, tra virtuale e reale perde la sua capacità di indicare polarità
nel modo di produzione. C’è immateriale, perché il materiale è indispensabile.
L’energia, i server, i computer, la localizzazione dei data server definisce un
rapporto dinamico tra imprese e potere politico. Possiamo dire, senza cadere in
una indebita sovrapposizione, che avviene le stesse dinamiche attinenti gli
spazi infrastrutturali e la scalarità interstatale che caratterizza la
logistica nel rapporto con gli stati nazionali.
Prendiamo
l’energia. Per gestire i Big Data ne serve molta: i computer devono operare a
una certa temperatura e devono essere protetti. Da qui la necessità di
collegamenti sicuri alle reti elettriche e l’uso congiunto di polizia
“ufficiale” e vigilantes. In questo caso il tema della militarizzazione del
territorio torna ad essere rilevante. Interessante è a questo proposito
l’autonomia energetica perseguita da Google, attraverso l’uso del solare e del
fotovoltaico. La società di Mountain View ha collocato i suoi data center
statunitensi vicino a dighe gestiti da privati o ha acquistato lotti estesi di
terreno per installarvi pannelli fotovoltaici. La retorica green di
Sergej Brin e Larry Page ha fondamenti molti pragmatici, perché Google non vuol
dipendere dagli Stati nazionali per avere energia elettrica. E anche per
contenere i costi derivanti dalla quantità di energia necessaria e per le
oscillazioni del petrolio, carbone e biocarburanti.
Attorno alla
sicurezza, invece, il discorso è altresì articolato. A guardia dei data center
ci sono vigilantes, polizia, anche se le procedure per il controllo del
territorio sono spesso quelle definite dalle imprese. La polizia è un guardiano
che risponde all’impresa. Un altro caso di frammentazione della sovranità.
Come è stato
evidenziato nel saggio Confine come metodo di Sandro Mezzadra
e Brett Neilson l’implosione della sovranità ha nei confini il suo contesto
“naturale. Ma allo stesso tempo c’è un confine poco esplorato, anche se citato
nel saggio sopracitato: è quello che presidia la separazione da economia
informale e economia formale, e che è da considerare il contesto dove vengono
definiti processi di soggettivazione, di sfruttamento e di governance del
lavoro vivo nell’economia della Rete. Il capitalismo delle piattaforme è quindi
il lato presentabile in società del capitalismo predatorio, di quella
sempiterna accumulazione originaria che caratterizza il mondo contemporaneo.
In altri termini, parlare di capitalismo delle piattaforme significa parlare del capitalismo en general. Ognuna delle caratteristiche che emergono andrebbero messe in relazione con modelli organizzativi, mission diversificate, varianti nel rapporto con la dimensione statale, come acutamente sottolinea Giorgio Grappi nel saggio sulla Logistica (Ediesse). Facebook è infatti cosa diversa da Google, ma ha molto in comune con Twitter, così come Netflix ha poco a vedere con Istagram ma può essere equiparato a Amazon. Ma ognuna di queste imprese globali è cosa diversa dai produttori di software per gestire la logistica su scala mondiale. Gli elementi unificanti ce ne sono ed emergono solo se si parte dall’analisi del lavoro vivo, dai suoi conflitti, dai suoi processi di autovalorizzazione.
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Il «Manifesto per la costruzione di una comunità globale» di Mark Zuckeberg può essere considerato l’espressione politica più aderente allo spirito di quel «capitalismo delle piattaforme» sul quale si concentra l’attenzione di una nutrita schiera di studiosi, opinion makers, come testimonia il recente volume di Nick Srnicek Platform Capitalism (Polity, il manifesto del 14 febbraio 2017). Il documento di Zuckeberg illustra in maniera dettagliata la strategie imprenditoriale di Facebook, che ha come materia prima l’elaborazione della comunicazione, delle emozioni, dei contenuti di oltre un miliardo di persone.
COME È NOTO,
il social network gestisce una mole enorme e in continua crescita di dati che
servono successivamente come data base per la vendita di spazi pubblicitari e
per strategie personalizzate di messaggi pubblicitari. Non è però passato
inosservato il fatto che il «manifesto» è uscito negli stessi giorni della
pubblicazione del decreto del presidente Donald Trump che vieta l’ingresso
negli Stati Uniti alle donne e agli uomini nati in alcuni paesi islamici.
L’USCITA DI
ZUCKEBERG, e un testo di critica sottoscritto dalle maggiori imprese della
Silicon Valley, ha fatto scrivere dell’opposizione delle imprese operanti in
Rete verso la politica del presidente statunitense. In molti hanno scritto che
le imprese delle Rete hanno deciso la loro scesa in campo. Ma non è certo la
prima volta che queste come altre imprese si comportano come «soggetti
politici».
La
rappresentazione emergente vede da una parte i «globalisti», cioè le imprese
protagoniste del capitalismo delle piattaforme, che propongono politiche
cosmopolite di difesa dei diritti civili delle donne, delle «minoranze» e dei
migranti; dall’altra un immaginario popolo statunitense. Due modi di concepire
lo sviluppo capitalistico e di governo della cosa pubblica che entrano in
conflitto, dando vita a inedite e contingenti «alleanze». I globalisti assieme
ai movimenti delle donne, dei migranti. I protezionisti che invocano
l’unitarietà e l’omogeneità del popolo e del «made in Usa», ignorando il fatto
che gran parte dei manufatti – materiali o digitali – vengono prodotti in
luoghi certo non americani.
Sta di fatto che la tensione tra vocazione globale del capitalismo e difesa
delle imprese locali è salita negli Stati Uniti a livelli inimmaginabili solo
alcuni mesi fa. È certo una semplificazione che coglie tuttavia un elemento di
verità. Il suo limite sta semmai nell’incapacità di fare i conti con un
elemento centrale del capitalismo delle piattaforme, sintetizzato efficacemente
dalla studiosa Tiziana Terranova in un testo pubblicato on line a commento del
documento di Zuckeberg: Facebook: come molte altre imprese della Rete, il
«capitalismo delle piattaforme» punta a «un governo delle vita», cioè delle
emozioni, degli stili di vita, delle relazioni sociali che ogni singolo uomo o
donna ha dentro e fuori la Rete (www.technoculture.it/category/blog/).
abbiamo estratto una sintesi da due articoli dell'autore raggruppati da EuroNomade col titolo IL CAPITALE DELLE PIATTAFORME E LE PIATTAFORME DEL CAPITALE, a cui si rinvia per la lettura integrale