-Veronica Marchio-
Macchine collettive contro l’innovazione capitalistica
Questa opera raccoglie e sistematizza gli interventi del seminario organizzato dal collettivo Hobo di Bologna “Tecniche viventi, vite macchiniche”, riportando la cornice teorica che ha stimolato la messa in discussione di alcune tendenze odierne per pensare una critica dell’innovazione capitalistica.
Si tratta di una nuova uscita nella collana Input di DeriveApprodi, dedicata alla formazione politica e connotata da volumi – come questo – agili e di ampia diffusione, al contempo introduttivi del tema e con rigorosi livelli di approfondimento
I contributi sono quelli di Salvatore Cominu, Andrea Fumagalli, Franco Berardi Bifo; il libro è arricchito dalle interviste a Federico Chicchi, Christian Marazzi, Maurizio Lazzarato. Proprio per il carattere fortemente articolato del testo, ricco di sfumature differenti e interrogativi aperti tutti da approfondire, sarebbe impossibile, se non addirittura inutile, pretendere di poter scrivere una recensione che tenga dentro tutto. Ecco perché, cogliendo lo stimolo al ragionamento teorico e politico che un tipo di scritto come questo si propone di offrire, proverò ad interagire con i contenuti del libro, individuando soprattutto gli elementi comuni dei vari interventi e problematizzando ulteriormente i nodi irrisolti che emergono con grande urgenza.
Innanzitutto ciò che di fondamentale viene fuori dal libro, è che non può esistere una critica dell’innovazione capitalistica, tesa a costruire una progettualità politica antagonista, che non tenga insieme una serie di livelli di ragionamento e di realtà quando ci si interroga sul rapporto tra macchine, tecnologia, soggettività capitalistiche e potenziali soggettività-contro.
C’è infatti un livello di dominio alto, in cui la dimensione del capitalismo finanziario – come spiega Fumagalli – si coniuga con lo sviluppo tecnologico e macchinico, producendo accumulazione di dominio e potenziamento capitalistico sempre più esteso. Questo livello alto di ragionamento permette di caratterizzare la critica con un punto di vista di parte: la macchina e l’innovazione non sono elementi neutrali, ma strumenti attualmente in mano alla civiltà capitalistica.
Questo elemento, per quanto apparentemente scontato, è in realtà fondamentale, poiché permette di affermare che le macchine, in quanto strumento di moltiplicazione delle forze, di potenziamento dell’attività dell’uomo, sono sempre esistite. L’uomo si è sempre dotato di esse. L’utilizzo capitalistico delle macchine non è naturale, ma storicamente determinato. Ciò di cui il libro si occupa quindi, sono le macchine capitalistiche, un sistema articolato che è costituito come macchina sociale complessiva.
Prima di entrare nel merito di alcune questioni a mio avviso centrali, vorrei individuare due elementi ricorrenti nel testo, che possono fungere da premessa di questa recensione. In primo luogo emerge chiaramente il tentativo di mettere a verifica e a critica alcune concezioni e categorie del pensiero politico operaista italiano, in particolare attraverso gli studi e le ricerche che Romano Alquati e Raniero Panzieri – con differenze e anche contrasti tra di loro, giustamente evidenziati nel contributo dei curatori – hanno portato avanti sul tema. Secondariamente i vari autori provano in qualche modo a distanziarsi tanto da posizioni tecnofile, quanto da posizioni tecnofobe. Nelle prime l’innovazione tecnologica e il potenziamento delle macchine, ad esempio quelle biologiche come spiega Chicchi, sono viste come una grande risorsa per l’interazione della specie e per inventare nuove soggettività; oppure sono maggiormente legate al mondo della pratica politica, dove spesso l’apparato tecnologico appiattisce completamente la dimensione di realtà, rischiando di disincarnare le lotte e le soggettività. Le seconde prevedono che la tecnologia dominerà in modo totalitario e senza residui la vita dell’uomo, e perciò la soluzione che si prospetta è una rinuncia ad essa.
Nello stesso tempo, e in ciò sta l’elemento di grande stimolo del libro, la semplice terza strada del controuso della tecnologia e delle macchine – contro uso contro l’utilizzo capitalisticamente direzionato –, è posta certamente come punto dirimente, ma viene continuamente problematizzata. In questo senso il ragionamento che viene portato avanti è correttamente ambizioso: apre una sfida tutt’altro che semplice da affrontare. Tutto sommato ciò che alla fine si può affermare è che il contrario di innovazione capitalistica è rivoluzione. Ma ci arriveremo.
Nel loro saggio introduttivo, che delinea il quadro teorico di riferimento e pone degli interrogativi, Molinari e Narda ci introducono alla definizione che Borio dà di macchina riprendendo Alquati: essa è un sistema complesso, articolato, espropriativo di capacità umane e finalizzato. Questo tipo di modo di considerare la macchina come un sistema e non come mero macchinario, viene in qualche modo riempito nel corso della trattazione. È un sistema articolato, nella misura in cui si caratterizza come sistema di macchine che sono tese alla produzione, all’organizzazione, alla gestione burocratica, macchine biologiche, sociali, che dispiegano un modo di funzionamento. Questo sistema articolato costituisce una macchina sociale complessiva – che Lazzarato definisce anche come macchina di guerra globale. È un sistema espropriativo di capacità umane. Ritengo che questo secondo elemento sia decisamente uno dei punti del libro che più necessitano di essere presi in considerazione, e difatti è anche un nodo su cui i vari interventi ritornano continuamente.
Affermare ciò significa prima di tutto due cose: la questione dello sviluppo tecnologico delle macchine – la digitalizzazione, i big data, il mutamento delle forme del lavoro, come frontiera dell’innovazione capitalistica – non può essere assunta, come specifica Chicchi, al di fuori dei rapporti sociali di produzione, “della tensione di soggettività, estrazione del valore e sua accumulazione” (pag. 80). Cominu aggiunge che qualunque visione si abbia del rapporto tra innovazione, sapere sociale e natura del nuovo capitalismo, è difficile negare “che lo sviluppo del macchinario digitale sia stato decisivo, negli ultimi decenni, non solo per creare nuove merci ma anche per riformulare le modalità di comando sulla società” (pag. 30). Nonostante le nuove tecnologie siano specialistiche e automatiche, sono anche macchine relazionali e quindi sociali, che hanno assorbito capacità di dialogo, di regolazione ecc. Questo discorso non è in fondo contrastante con ciò che dice Lazzarato in chiusura del libro, e cioè che è la macchina sociale che crea le macchine tecniche.
In secondo luogo, ricorrente è la critica alle teorie del cosiddetto capitalismo cognitivo secondo cui nel “postfordismo”, il lavoratore – a differenza del passato – sarebbe lasciato autonomo di cooperare per poi essere successivamente espropriato dal capitale, che succhierebbe in modo parassitario la ricchezza della cooperazione sociale. Potremmo quasi affermare che questa posizione – duramente criticata, soprattutto perché poi la presunta autonomia non ha portato a nessun sovvertimento della civiltà capitalistica –, ricade in una posizione tecnofila, affidando la progettualità politica totalmente in mano all’innovazione capitalistica. Mentre, come dice Bifo, è una temporalità autonoma che andrebbe contrapposta a quella accelerata del capitale.
Nel saggio introduttivo – e ciò in linea con lo stesso titolo del libro – i due curatori vanno invece direttamente al cuore del problema, ripartendo dal Frammento sulle macchine di Marx e dai concetti di capacità e attività umana di Alquati. Il capitale ha sempre avuto l’esigenza di liberarsi (ovvero sussumere la forza) del sapere e delle abilità operaie (viste come arma di ricatto), di impoverire la capacità umana nel senso di incorporarla dentro la macchina in funzione anti-operaia – si parla di macchinizzazione delle capacità umane – , di separarla, in quanto risorsa calda, dal corpo di chi la possiede, per inglobarla nella risorsa fredda macchinica. In altre parole, la costituzione di una contrapposizione tra la macchina e la capacità umana, che ha come effetto un potenziamento di essa per il capitale, e un impoverimento della sua potenziale linea di arricchimento contro il capitale. Come direbbe Alquati, la risorsa calda entra essa stessa in un processo di mercificazione. Pensiamo, come suggerisce Marazzi, al rapporto tra capacità umane e digitale: il lavoro vivo, che ha incorporato una serie di funzioni del capitale fisso, genera informazione e dati a partire dalle forme di vita, non solo quindi nel mondo del lavoro classicamente inteso, ma anche nel vasto mondo della riproduzione sociale.
Il sistema macchina è infine, e di conseguenza, finalizzato. L’ovvio rischio a cui tutte le posizioni tecnofile si espongono è quello di considerare l’innovazione – e quindi le macchine – come dispositivi neutri e neutrali. Come spiega in modo eccellente Cominu, le macchine costituiscono una potenza ostile per l’agente umano, sono l’esito di un rapporto di forza, sono intrinsecamente una parzialità – direbbe Panzieri – e portano perciò ad una situazione di ambivalenza. Quest’ultimo concetto viene ripreso da Alquati, il quale ipotizzava, in modo esplorativo, un’ambivalenza irriducibile, per cui la capacità umana è solo tendenzialmente capitale e può rifiutarsi di funzionare come tale. In altre parole, se il capitale ha sempre bisogno della capacità umana per compiere il processo di innovazione – chiudendo o lasciando aperta l’ambivalenza –, la risorsa calda – per quanto impoverita – rimane comunque dentro al corpo caldo come potenzialità che può rompere i processi di lavorizzazione e mercificazione. L’ambivalenza allora, come suggerisce Cominu, va coltivata, come campo di battaglia.
Prima di arrivare a conclusioni e interrogativi, vorrei toccare un’ultima questione importante che nel libro viene affrontata: il rapporto tra macchine e lavoro. In particolare mi sembra molto utile ciò che dice Cominu, quando afferma – riprendendo tutto un dibattito che non posso qui sintetizzare per motivi di spazio – che gli scenari sull’impatto della trasformazione digitale, anche in termini quantitativi di numero di lavori in diminuzione, sono irrealistici; più che parlare della fine del lavoro dovremmo parlare di lavoro senza fine, “laddove lavoro è meno distinguibile dall’insieme delle attività co-implicate nella produzione di valore” (pag. 37). Chicchi specifica ancora meglio questo rapporto, dicendo che in questo modello di relazione della tecnologia con il mondo del lavoro, la prestazione lavorativa deve essere assoluta e smisurata, e riguarda tanto il tempo produttivo, quanto quello riproduttivo. La gamma di capacità umane impoverite è dunque molto estesa.
Per concludere, riprendo una domanda che Cominu, a conclusione del suo intervento, rivolge a mo di apertura di un dibattito in merito: “cosa significa contro-usare l’organizzazione infrastrutturata delle macchine digitali?” e “fino a che punto la persona umana è mezzificabile?” (pag. 40). Aggiungerei io: come immaginare un contro alla macchina sociale capitalistica complessiva, per riprendere il ragionamento sviluppato da Lazzarato? Penso che siano questi degli interrogativi cruciali, soprattutto per il fatto che la riduzione della capacità umana a mezzo è un processo, ed è un processo non risolto una volta per tutte: la risorsa umana è pur sempre calda – ritorna qui il concetto alquatiano di residuo irrisolto.
Alla luce della sfida che questo libro propone, mi sembra del tutto urgente ragionare sul fatto che, se l’innovazione capitalistica decantata come progresso dell’umano, in realtà impoverisce l’umano, potenziandolo ma privandolo della sua possibile ricchezza, costituendosi come forza ostile ad esso, è plausibile pensare a come rovesciare questa ostilità? Se l’innovazione e il progresso non sono, di conseguenza, figli della necessità di uno sviluppo che tende verso il bene, se essi sono sinonimo di sussunzione delle lotte e dei comportamenti dotati di politicità intrinseca – e quindi il contrario di rivoluzione –, come ripensare l’ipotesi del contro-uso delle macchine, in una direzione che immagini la costituzione di macchinette collettive, che producano ricchezza di capacità, organizzazione, contro-formazione e contro-soggettività?
Frammenti sulle macchine. Per una critica dell’innovazione capitalistica, a cura di Giuseppe Molinari e Loris Narda, collana Input, ed. Derive Approdi, Roma 2020, pp. 104, 8,00 euro
Innanzitutto ciò che di fondamentale viene fuori dal libro, è che non può esistere una critica dell’innovazione capitalistica, tesa a costruire una progettualità politica antagonista, che non tenga insieme una serie di livelli di ragionamento e di realtà quando ci si interroga sul rapporto tra macchine, tecnologia, soggettività capitalistiche e potenziali soggettività-contro.
C’è infatti un livello di dominio alto, in cui la dimensione del capitalismo finanziario – come spiega Fumagalli – si coniuga con lo sviluppo tecnologico e macchinico, producendo accumulazione di dominio e potenziamento capitalistico sempre più esteso. Questo livello alto di ragionamento permette di caratterizzare la critica con un punto di vista di parte: la macchina e l’innovazione non sono elementi neutrali, ma strumenti attualmente in mano alla civiltà capitalistica.
Questo elemento, per quanto apparentemente scontato, è in realtà fondamentale, poiché permette di affermare che le macchine, in quanto strumento di moltiplicazione delle forze, di potenziamento dell’attività dell’uomo, sono sempre esistite. L’uomo si è sempre dotato di esse. L’utilizzo capitalistico delle macchine non è naturale, ma storicamente determinato. Ciò di cui il libro si occupa quindi, sono le macchine capitalistiche, un sistema articolato che è costituito come macchina sociale complessiva.
Prima di entrare nel merito di alcune questioni a mio avviso centrali, vorrei individuare due elementi ricorrenti nel testo, che possono fungere da premessa di questa recensione. In primo luogo emerge chiaramente il tentativo di mettere a verifica e a critica alcune concezioni e categorie del pensiero politico operaista italiano, in particolare attraverso gli studi e le ricerche che Romano Alquati e Raniero Panzieri – con differenze e anche contrasti tra di loro, giustamente evidenziati nel contributo dei curatori – hanno portato avanti sul tema. Secondariamente i vari autori provano in qualche modo a distanziarsi tanto da posizioni tecnofile, quanto da posizioni tecnofobe. Nelle prime l’innovazione tecnologica e il potenziamento delle macchine, ad esempio quelle biologiche come spiega Chicchi, sono viste come una grande risorsa per l’interazione della specie e per inventare nuove soggettività; oppure sono maggiormente legate al mondo della pratica politica, dove spesso l’apparato tecnologico appiattisce completamente la dimensione di realtà, rischiando di disincarnare le lotte e le soggettività. Le seconde prevedono che la tecnologia dominerà in modo totalitario e senza residui la vita dell’uomo, e perciò la soluzione che si prospetta è una rinuncia ad essa.
Nello stesso tempo, e in ciò sta l’elemento di grande stimolo del libro, la semplice terza strada del controuso della tecnologia e delle macchine – contro uso contro l’utilizzo capitalisticamente direzionato –, è posta certamente come punto dirimente, ma viene continuamente problematizzata. In questo senso il ragionamento che viene portato avanti è correttamente ambizioso: apre una sfida tutt’altro che semplice da affrontare. Tutto sommato ciò che alla fine si può affermare è che il contrario di innovazione capitalistica è rivoluzione. Ma ci arriveremo.
Nel loro saggio introduttivo, che delinea il quadro teorico di riferimento e pone degli interrogativi, Molinari e Narda ci introducono alla definizione che Borio dà di macchina riprendendo Alquati: essa è un sistema complesso, articolato, espropriativo di capacità umane e finalizzato. Questo tipo di modo di considerare la macchina come un sistema e non come mero macchinario, viene in qualche modo riempito nel corso della trattazione. È un sistema articolato, nella misura in cui si caratterizza come sistema di macchine che sono tese alla produzione, all’organizzazione, alla gestione burocratica, macchine biologiche, sociali, che dispiegano un modo di funzionamento. Questo sistema articolato costituisce una macchina sociale complessiva – che Lazzarato definisce anche come macchina di guerra globale. È un sistema espropriativo di capacità umane. Ritengo che questo secondo elemento sia decisamente uno dei punti del libro che più necessitano di essere presi in considerazione, e difatti è anche un nodo su cui i vari interventi ritornano continuamente.
Affermare ciò significa prima di tutto due cose: la questione dello sviluppo tecnologico delle macchine – la digitalizzazione, i big data, il mutamento delle forme del lavoro, come frontiera dell’innovazione capitalistica – non può essere assunta, come specifica Chicchi, al di fuori dei rapporti sociali di produzione, “della tensione di soggettività, estrazione del valore e sua accumulazione” (pag. 80). Cominu aggiunge che qualunque visione si abbia del rapporto tra innovazione, sapere sociale e natura del nuovo capitalismo, è difficile negare “che lo sviluppo del macchinario digitale sia stato decisivo, negli ultimi decenni, non solo per creare nuove merci ma anche per riformulare le modalità di comando sulla società” (pag. 30). Nonostante le nuove tecnologie siano specialistiche e automatiche, sono anche macchine relazionali e quindi sociali, che hanno assorbito capacità di dialogo, di regolazione ecc. Questo discorso non è in fondo contrastante con ciò che dice Lazzarato in chiusura del libro, e cioè che è la macchina sociale che crea le macchine tecniche.
In secondo luogo, ricorrente è la critica alle teorie del cosiddetto capitalismo cognitivo secondo cui nel “postfordismo”, il lavoratore – a differenza del passato – sarebbe lasciato autonomo di cooperare per poi essere successivamente espropriato dal capitale, che succhierebbe in modo parassitario la ricchezza della cooperazione sociale. Potremmo quasi affermare che questa posizione – duramente criticata, soprattutto perché poi la presunta autonomia non ha portato a nessun sovvertimento della civiltà capitalistica –, ricade in una posizione tecnofila, affidando la progettualità politica totalmente in mano all’innovazione capitalistica. Mentre, come dice Bifo, è una temporalità autonoma che andrebbe contrapposta a quella accelerata del capitale.
Nel saggio introduttivo – e ciò in linea con lo stesso titolo del libro – i due curatori vanno invece direttamente al cuore del problema, ripartendo dal Frammento sulle macchine di Marx e dai concetti di capacità e attività umana di Alquati. Il capitale ha sempre avuto l’esigenza di liberarsi (ovvero sussumere la forza) del sapere e delle abilità operaie (viste come arma di ricatto), di impoverire la capacità umana nel senso di incorporarla dentro la macchina in funzione anti-operaia – si parla di macchinizzazione delle capacità umane – , di separarla, in quanto risorsa calda, dal corpo di chi la possiede, per inglobarla nella risorsa fredda macchinica. In altre parole, la costituzione di una contrapposizione tra la macchina e la capacità umana, che ha come effetto un potenziamento di essa per il capitale, e un impoverimento della sua potenziale linea di arricchimento contro il capitale. Come direbbe Alquati, la risorsa calda entra essa stessa in un processo di mercificazione. Pensiamo, come suggerisce Marazzi, al rapporto tra capacità umane e digitale: il lavoro vivo, che ha incorporato una serie di funzioni del capitale fisso, genera informazione e dati a partire dalle forme di vita, non solo quindi nel mondo del lavoro classicamente inteso, ma anche nel vasto mondo della riproduzione sociale.
Il sistema macchina è infine, e di conseguenza, finalizzato. L’ovvio rischio a cui tutte le posizioni tecnofile si espongono è quello di considerare l’innovazione – e quindi le macchine – come dispositivi neutri e neutrali. Come spiega in modo eccellente Cominu, le macchine costituiscono una potenza ostile per l’agente umano, sono l’esito di un rapporto di forza, sono intrinsecamente una parzialità – direbbe Panzieri – e portano perciò ad una situazione di ambivalenza. Quest’ultimo concetto viene ripreso da Alquati, il quale ipotizzava, in modo esplorativo, un’ambivalenza irriducibile, per cui la capacità umana è solo tendenzialmente capitale e può rifiutarsi di funzionare come tale. In altre parole, se il capitale ha sempre bisogno della capacità umana per compiere il processo di innovazione – chiudendo o lasciando aperta l’ambivalenza –, la risorsa calda – per quanto impoverita – rimane comunque dentro al corpo caldo come potenzialità che può rompere i processi di lavorizzazione e mercificazione. L’ambivalenza allora, come suggerisce Cominu, va coltivata, come campo di battaglia.
Prima di arrivare a conclusioni e interrogativi, vorrei toccare un’ultima questione importante che nel libro viene affrontata: il rapporto tra macchine e lavoro. In particolare mi sembra molto utile ciò che dice Cominu, quando afferma – riprendendo tutto un dibattito che non posso qui sintetizzare per motivi di spazio – che gli scenari sull’impatto della trasformazione digitale, anche in termini quantitativi di numero di lavori in diminuzione, sono irrealistici; più che parlare della fine del lavoro dovremmo parlare di lavoro senza fine, “laddove lavoro è meno distinguibile dall’insieme delle attività co-implicate nella produzione di valore” (pag. 37). Chicchi specifica ancora meglio questo rapporto, dicendo che in questo modello di relazione della tecnologia con il mondo del lavoro, la prestazione lavorativa deve essere assoluta e smisurata, e riguarda tanto il tempo produttivo, quanto quello riproduttivo. La gamma di capacità umane impoverite è dunque molto estesa.
Per concludere, riprendo una domanda che Cominu, a conclusione del suo intervento, rivolge a mo di apertura di un dibattito in merito: “cosa significa contro-usare l’organizzazione infrastrutturata delle macchine digitali?” e “fino a che punto la persona umana è mezzificabile?” (pag. 40). Aggiungerei io: come immaginare un contro alla macchina sociale capitalistica complessiva, per riprendere il ragionamento sviluppato da Lazzarato? Penso che siano questi degli interrogativi cruciali, soprattutto per il fatto che la riduzione della capacità umana a mezzo è un processo, ed è un processo non risolto una volta per tutte: la risorsa umana è pur sempre calda – ritorna qui il concetto alquatiano di residuo irrisolto.
Alla luce della sfida che questo libro propone, mi sembra del tutto urgente ragionare sul fatto che, se l’innovazione capitalistica decantata come progresso dell’umano, in realtà impoverisce l’umano, potenziandolo ma privandolo della sua possibile ricchezza, costituendosi come forza ostile ad esso, è plausibile pensare a come rovesciare questa ostilità? Se l’innovazione e il progresso non sono, di conseguenza, figli della necessità di uno sviluppo che tende verso il bene, se essi sono sinonimo di sussunzione delle lotte e dei comportamenti dotati di politicità intrinseca – e quindi il contrario di rivoluzione –, come ripensare l’ipotesi del contro-uso delle macchine, in una direzione che immagini la costituzione di macchinette collettive, che producano ricchezza di capacità, organizzazione, contro-formazione e contro-soggettività?
Frammenti sulle macchine. Per una critica dell’innovazione capitalistica, a cura di Giuseppe Molinari e Loris Narda, collana Input, ed. Derive Approdi, Roma 2020, pp. 104, 8,00 euro