Caterina Morbiato*
il Messico si scopre un paese xenofobo: “prima i messicani”
L’annuncio della partenza collettiva
è stato diffuso nelle reti sociali e in breve tempo ha sommato migliaia di partecipanti
che si sono messi in marcia con lo stretto indispensabile, zainetto leggero con dei vestiti, un paio di scarpe di ricambio, qualche provvista, tanti i passeggini con bimbi a bordo. Nel giro di poche settimane, per primi sono partiti gli honduregni, poi guatemaltechi e salvadoregni hanno intrapreso il cammino seguiti anche dai nicaraguensi
un esodo simultaneo di dimensioni così massicce non si era mai visto
è stato diffuso nelle reti sociali e in breve tempo ha sommato migliaia di partecipanti
che si sono messi in marcia con lo stretto indispensabile, zainetto leggero con dei vestiti, un paio di scarpe di ricambio, qualche provvista, tanti i passeggini con bimbi a bordo. Nel giro di poche settimane, per primi sono partiti gli honduregni, poi guatemaltechi e salvadoregni hanno intrapreso il cammino seguiti anche dai nicaraguensi
un esodo simultaneo di dimensioni così massicce non si era mai visto
Il clima è di festa. Gli slogan dipingono sorrisi su
decine di volti e le bandiere tricolori sventolano con foga. Se fossimo ancora
in tempo di mondiali, il gruppo potrebbe sembrare una compagnia di tifosi:
“Messico! Messico! Messico!”, scandiscono a pieni polmoni. Il ronzio di
decine di trombette e un’eccitazione contagiosa riempiono l’aria. La scena è
molto simile a quella che si è vista pochi mesi prima in questo stesso posto.
Era tempo di mondiali, il 23 giugno 2018, il Tri – che è come
si conosce da queste parti la nazionale messicana – vinceva contro la Corea del
Sud e i tifosi si riversavano in strada per celebrare il trionfo. Ma
questa volta è il 18 di novembre 2018 e siamo sull’orlo di una crisi
umanitaria.
Da mesi migliaia di persone di origine centroamericana
attraversano il Messico dal sud al nord: si muovono a piedi, in autostop, in
autobus, dormendo per strada, nei rifugi gestiti dalle associazioni umanitarie
o nei centri d’accoglienza improvvisati dalle istituzioni. Vengono
dall’Honduras, da El Salvador, dal Guatemala e il loro migrare non è qualcosa
di nuovo ma un fenomeno che dura da decenni. Ora però si sono organizzati per
viaggiare in gruppo. Lo fanno per poter affrontare in maniera più economica, sicura
e rapida un paese che ha fama di essere ostile con persone come loro: migranti
che non riescono ad ottenere i visti giusti per entrare in territorio messicano
e che vogliono ad ogni costo raggiungere gli Stati Uniti per presentare domanda
d’asilo. I loro paesi costituiscono la curva violenta dell’istmo
centroamericano, una regione minuta e ricolma di morti che da decenni continua
ad esportare migranti: tra 200.000 e 300.000 all’anno. Una regione che conta
solamente quando è ora di stilare le statistiche di omicidi o la classifica
delle città più violente del mondo.
Contare i morti è necessario ma non spiega la
complessità della violenza. Un tasso di omicidi non si vive: non rende conto di
come né di perché le relazioni più intime e i gesti più quotidiani si stiano
gravemente deteriorando in città come San Pedro Sula, Tegucigalpa o San
Salvador. Per capire, per esempio, la dimensione e i significati del potere che
esercitano gang come la Mara Salvatrucha (MS-13) o il Barrio
18 – che in questa piccola regione del globo hanno costruito una fitta e
complicata rete di relazioni che comprendono la sfera economica e politica, ma
anche quella simbolica e affettiva – c’è bisogno di sommergersi nella
storia politica ed economica di ognuno dei paesi centroamericani. In
particolare bisognerebbe prestare attenzione a come gli Stati Uniti abbiano
interferito nella vita politica della regione, contribuendo a mantenerne una
lunga e costosa instabilità.
L’annuncio della partenza collettiva è stato diffuso
nelle reti sociali e in breve tempo ha sommato migliaia di partecipanti che si
sono messi in marcia con lo stretto indispensabile, zainetto leggero con dei
vestiti, un paio di scarpe di ricambio, qualche provvista, tanti i passeggini
con bimbi a bordo. Nel giro di poche settimane, per primi sono partiti gli
honduregni, poi guatemaltechi e salvadoregni hanno intrapreso il cammino
seguiti anche dai nicaraguensi: un esodo simultaneo di dimensioni così massicce
non si era mai visto.
La Carovana Migranti – così è stata battezzata questa
imponente compagnia di viaggiatori – ha sommato circa 10.000 persone
distribuite in vari spezzoni che risalgono le dorsali di tutto il Messico.
Nella capitale, Città del Messico, i gruppi sono alloggiati nello stadio Jesús
Martínez “Palillo” e approfittano di un momento di riposo prima di riprendere
la marcia. Da qui il viaggio verso nord diventa più spedito, quasi non si
cammina più: stati come il Jalisco e il Nayarit offrono autobus per velocizzare
il passaggio dei migranti e non dover imbastire nessun sistema d’accoglienza.
Le ultime migliaia di chilometri vengono macinate in fretta e in pochi giorni
vari spezzoni della Carovana raggiungono il confine con gli Stati Uniti.
I primi che arrivano a Tijuana, verso metà novembre,
trovano una città spaccata in due. Non tutti gli abitanti vedono di buon occhio
la loro presenza. “Non posso affermare che si tratta di tutti i migranti, ma
alcuni sono una banda di fannulloni che fumano marijuana e che sono arrivati in
maniera aggressiva, sfidando l’autorità” —i primi commenti che il sindaco Juan Manuel
Gastélum rilascia a una televisione locale fomentano l’irritazione e il rifiuto
verso i nuovi arrivati—: “qui a Tijuana non siamo abituati a questi
comportamenti”, spiega il primo cittadino.
In territorio messicano, Tijuana è la tappa finale per
la maggior parte dei migranti della Carovana. È attraverso questa frangia di
frontiera che cercheranno di entrare negli USA. Ma Tijuana non è o non vuole
essere preparata ad accoglierli. Nelle ultime settimane la gestione della
Carovana è rimbalzata da uno stato all’altro, e ora si temono le conseguenze
della mancata coordinazione istituzionale.
“Tornatevene al vostro paese!”
Quello che sembra un raggruppamento di tifosi esaltati
non smette di intonare nuovi cori. “Migranti sì, invasori no! Migranti sì,
invasori no!” cantano ora dall’alto del monumento a Cuauhtémoc. È domenica
mattina e la Zona Rio, il distretto finanziario di Tijuana, è immersa ancora
nella quiete salvo che in questo punto: la rotonda dedicata all’ultimo degli
imperatori aztechi. Alle nove è stato indetto un raduno contro la presenza dei
migranti e i giornalisti sono già pronti, microfono e videocamera alla mano,
per documentare l’arrivo dei manifestanti.
Sono circa cento ma diventeranno tre volte di più
durante la mattinata. Sono di ogni età: ci sono le signore di mezza età,
occhiali scuri e cappellino con visiera. Sembrano divertirsi e davanti alle
telecamere sfoderano un tono di sfida che sorprende. Adolescenti sbarbati si
muovono tra la folla, hanno visto l’evento nelle reti sociali e sono accorsi
per curiosità ma anche perché, dicono, sono preoccupati per la presenza dei
centroamericani. Dalla cima del monumento, vari quarantenni tatuati, dal
portamento marziale e i bicipiti gonfi, attendono con impazienza l’arrivo di
altri partecipanti.
“Basta migrazione incontrollata”, grida il cartello
nelle mani di una bambina pienotta dai lunghi capelli neri. Come lei, molti dei
presenti sventolano manifesti scritti a mano e posano davanti agli obiettivi
dei fotografi; con i microfoni – meglio se di qualche televisione – sono
generosi e spiegano nel dettaglio i motivi del loro disappunto.
“Se fossero migranti messicani che vengono da altre
parti del paese, sarebbe diverso”, puntualizza Joel Barrera, taglio di capelli
militare e occhiali scuri rettangolari. “Ma in questo caso è un’invasione: sono
arrivati a casa nostra senza chiedere il permesso, sono entrati in Messico
abbattendo le frontiere”. Barrera è sulla sessantina, fa l’impiegato ed è
furioso. Accigliato per il sole e per la rabbia, spiega che da due anni gli
insegnanti interinali di Tijuana non vengono pagati: l’arrivo dei
centroamericani, assicura, peggiorerà un panorama lavorativo già di per sé
precario. “Non bisogna stanziare fondi per questi migranti”, insiste. “Finora
si sono comportati in modo molto ingrato, non meritano di essere aiutati”.
Per primi sono partiti gli honduregni, poi
guatemaltechi e salvadoregni hanno intrapreso il cammino seguiti anche dai
nicaraguensi: un esodo simultaneo di dimensioni così massicce non si era mai
visto.
Qualche metro più in là Angelica Villalobos,
tijuanense diciottenne, esibisce un cartellone con una serie di frasi scritte
fitto. Bisogna fermarsi per lunghi secondi se si vuole distinguere il lungo
scritto che interroga i migranti: “Perché non avete il coraggio e le palle per
restare nei vostri paesi d’origine ed esigere dei miglioramenti ai vostri
governi?”, è la frase che ne sintetizza meglio il senso. Angelica partecipa
alla manifestazione in compagnia delle sorelle, che ora siedono al suo fianco e
soffocano risatine mentre la giovane racconta perché ha deciso di venire qui
oggi. “Non credo che tutti siano cattivi, ma sono arrivati in modo aggressivo.
L’arrivo dei centroamericani dovrebbe essere organizzato, come lo è stato nel
caso degli haitiani”, spiega.
Durante il 2016 circa 16.000 haitiani raggiunsero
Tijuana. Fuggivano dalla crisi economica che si abbatteva sul Brasile, il Cile,
e altri paesi latinoamericani dove erano approdati come migranti anni prima.
Anche loro arrivarono a Tijuana con l’intenzione di entrare negli Stati Uniti e
fare richiesta di asilo per ragioni umanitarie. In quel momento potevano ancora
farlo: in seguito al terremoto che nel 2012 aveva squassato Haiti provocando
circa 250mila morti, il governo USA aveva concesso alla popolazione caraibica
il diritto di ottenere lo stato di protezione temporanea.
Di fronte all’arrivo di migliaia di migranti, nel
settembre del 2016, la frontiera è stata però improvvisamente chiusa e la
burocrazia migratoria è diventata più selettiva. Oggi sono circa 3500 gli
haitiani che vivono sparsi tra vari quartieri di Tijuana, l’irrigidimento
delle politiche migratorie statunitensi li ha spinti a gettar radici qui.
“I centroamericani hanno picchiato la gente e hanno
abbattuto le frontiere”, afferma Angelica, poco convinta ma in linea con il
discorso che caratterizza la manifestazione. “Ora ci sarà molta più
insicurezza”.
“Non siamo razzisti, ma…”
Il corteo è capeggiato da un gruppetto di teste
rasate, giovani palestrati e accaldati dall’ira. Trascinano e incitano le
trecento persone che li seguono. “Andiamo al centro dove stanno i migranti!”,
propone uno di loro al resto. La folla è più bellicosa, ma anche più smagrita.
Il monumento a Cuauhtémoc è rimasto indietro e l’ampio viale su cui ora
camminano i manifestanti offre una prospettiva diversa della protesta.
I ragazzi alla testa del corteo puntano verso il
centro sportivo Benito Juárez, il rifugio temporaneo dove sono stati accolti la
maggior parte dei migranti. Non tutti però sono della stessa idea: c’è chi, più
cauto, suggerisce di raggiungere il municipio e manifestare lì davanti. Per
qualche secondo tentennano, sembra smarriti, poi riprendono il cammino verso il
rifugio: è domenica, le istituzioni sono chiuse e il branco ha bisogno di una
preda.
Sin dall’inizio, la Carovana ha ricevuto un’attenzione
mediatica potentissima e particolarmente attenta a mettere sotto i riflettori i
momenti di tensione. Le recinzioni sfasciate al confine tra Guatemala e
Messico, gli scontri con la polizia nello stato del Chiapas, la giovane
honduregna che storce il naso per il cibo che le viene dato in un rifugio — un
paio di pallide tortillas, una cucchiaiata di crema di fagioli — e
che in cambio riceve una marea di insulti e minacce di morte, il video in cui
un ragazzo centroamericano assicura che trentamila suoi compatrioti starebbero
arrivando a Tijuana per “mitragliare” tutti quelli che si oppongono alla loro
presenza. Molte delle notizie sulla Carovana vengono diffuse senza nessuna
contestualizzazione: gli umori si fanno tesi e i commenti di stampo xenofobo
iniziano a inondare i social network. Molto prima di arrivare a Tijuana i
migranti sono già stati confezionati come un’orda di invasori violenti,
soggetti indesiderati che non meritano nessun diritto perché “questa non è casa
loro”, “avrebbero dovuto bussare prima di entrare”, perché “le cose si fanno
con ordine”, “qui abbiamo già i nostri problemi, i nostri poveri”, “prima i
messicani”.
L’orda si arrampica per tutto il paese e raggiunge
Tijuana, città del nord, industriale e di confine, in cui c’è chi considera il
resto del Messico come uno sconfinato meridione.
“Il discorso che circola in rete, per cui i
migranti sporcano le strade e lasciano un macello lungo il tragitto, ha
alimentato il rifiuto degli abitanti della Baja California [lo stato in
cui si trova Tijuana]”, commenta Gabriel Pérez Duperou, ricercatore del
Colegio de la Frontera Norte, uno dei più importanti centri di border
studies del paese. “Mano a mano che i migranti avanzavano ci
chiedevano se sarebbero arrivati a Tijuana o se avrebbero percorso la rotta del
Golfo del Messico. Ci sembrava difficile che arrivassero fin qua”.
Eppure l’orda si arrampica per tutto il
paese e raggiunge Tijuana, città del nord, industriale e di confine, in cui,
spiega Duperou, c’è chi considera il resto del Messico come uno sconfinato
meridione. Quello che sta più a sud è totalmente un altro pianeta: visto da qui
il Centroamerica appare come una terra distante, sprofondata in una povertà
estrema e pericolosa. “Molti tijuanensi si muovono costantemente da una parte
all’altra della frontiera: parlano perfettamente inglese, hanno la residenza
negli Stati Uniti e sostengono un discorso che celebra la difesa del
territorio, la sicurezza nazionale, l’importanza dell’esercito, il rispetto della
legge” continua il ricercatore, “tutto questo si è tradotto in un rifiuto verso
la popolazione migrante centroamericana”.
La manifestazione di domenica 18 novembre non è stato
il primo rigurgito razzista. Le derive più intolleranti si erano materializzate
già qualche giorno prima nel quartiere di Playas de Tijuana, un sobborgo
residenziale di classe media e medio-bassa incastonato lungo il litorale
dell’oceano Pacifico. Circa sessanta persone raggiungono il Parco dell’Amicizia
con l’intenzione di cacciare i migranti che sono lì riuniti per passare la
notte.
Arrivato per documentare quello che stava succedendo,
Gabriel si trova davanti a uomini e donne che intonano l’inno nazionale e
lanciano insulti ai centroamericani. “Molti mi dicevano: ormai sono arrivati
qui in città e non ci possiamo far nulla, ma almeno che se li portino via dal
quartiere, che li mandino da un’altra parte! È interessante perché nella
periferia è dove vivono i poveri. Non si trattava solamente della difesa di uno
spazio: quella gente non voleva che i migranti si mescolassero con la classe
media”.
“Non siamo razzisti: vogliamo solo proteggere le
nostre famiglie e le nostre città. Vogliamo che i delinquenti restino a casa
loro” si sente in un Facebook live trasmesso durante le
proteste dall’account “Paloma for Trump”. La voce è quella di Paloma Zuñiga,
integrante del gruppo Latinos for Trump che si autodefinisce
come “un’attivista nata in Messico ma entrata legalmente negli
Stati Uniti”. Da quando l’esodo migrante ha iniziato a fare capolino a Tijuana,
le sue trasmissioni —in cui narra in inglese e in spagnolo quella che definisce
come un’ “invasione migrante”— hanno ottenuto migliaia di like.
Le associazioni di assistenza ai migranti fanno i
conti con la resistenza delle autorità che sembrano volerli spingerli a
scegliere il ritorno volontario.
Nel Parco dell’Amicizia le bandiere con i colori patri
sventolano; qualcuno accenna un breve “El pueblo unido jamás será vencido” con
tono sciovinista. Il nemico comune è lì, davanti a loro; ogni rabbia, ogni
paura, ogni insoddisfazione può finalmente trovare uno sfogo. La tensione
arriva al punto massimo quando qualcuno tra i manifestanti inizia a tirare dei
sassi e dal gruppo dei migranti c’è chi risponde con la stessa
moneta. Questa miccia d’odio è la stessa che si accenderà durante la
manifestazione della domenica. Qui però, anche se all’inizio i manifestanti
sono molti, poco a poco i più agguerriti rimarranno soli.
“Non siamo tutti violenti. Dovete dirlo, dovete dirlo!”,
ripete una donna dal volto teso, in un impeccabile inglese dall’accento latino.
“Si sta parlando molto male di Tijuana e dei suoi abitanti, ma noi non siamo
razzisti, non siamo violenti. Per favore, si sta dando un’immagine molto
negativa della città”.
I manifestanti che effettivamente arrivano nelle
vicinanze del centro Benito Juárez sono pochi, li aspetta un cordone di
poliziotti in assetto antisommossa e si fermeranno a qualche centinaio di metri
dalla struttura. Sono molti meno dei trecento iniziali. I giornalisti, che
ancora stanno documentando gli ultimi conati di disprezzo, sembrano essere
quasi più di loro. Dai balconi delle case vicine varie donne si sporgono per
godersi la scena. Da lassù questi piccoli “Donald Trump tijuanensi” sicuramente
fanno sorridere mentre ripetono lo stesso discorso razzista che gli
dedicherebbero i loro simili statunitensi.
Un’accoglienza pianificata male
Nel centro sportivo Benito Juárez i migranti sono
stati stipati a centinaia. I più fortunati, quelli che sono arrivati per primi,
hanno trovato spazio per accampare nelle zone asfaltate o al riparo sotto un
tetto di lamiera: il resto si è arrangiato, montando le tende nell’esteso campo
da baseball della struttura. Alcuni giovani hanno addirittura costruito un rifugio
con rami e foglie, ottimo per proteggersi dalla calura ma fragile in caso di
acquazzoni.
“Il colmo sono state le piogge: la fognatura è
collassata e tutto si è riempito di fango, la gente non aveva più abiti
asciutti da indossare”, ricorda Soraya Vázquez, avvocata che fa parte del
Comitato Strategico di Aiuto Umanitario, un’organizzazione di Tijuana
incaricata di ricevere e distribuire le donazioni e gli aiuti internazionali.
Vázquez, insieme alle sue colleghe del Comitato, ha visto deteriorarsi le condizioni
di salute fisica ed emotiva della popolazione migrante ospitata nel centro
d’accoglienza, l’unico spazio messo a disposizione dalle autorità municipali.
La struttura poteva contenere circa due mila persone, ma presto ve ne sono
state ammassate più del doppio.
Come scritto nel dossier presentato a inizio dicembre
dal Colegio de la Frontera Norte, “La Carovana Migrante Centroamericana a
Tijuana 2018. Diagnostico e proposte d’azione”, questo rifugio temporale non è
stato attrezzato con servizi sufficienti: di fronte alle necessità di migliaia
di persone vengono installati appena diciotto bagni chimici; per farsi la
doccia si usano degli idranti, ma all’aria aperta e senza nessuna possibilità
di privacy. “Come Comitato Strategico siamo riuscite a essere operative
una settimana dopo l’apertura del rifugio” continua Vázquez, “però prima
abbiamo fatto i conti con la resistenza delle autorità: era come se non
volessero che i migranti ricevessero informazioni accurate, volevano mantenerli
nelle peggiori condizioni per spingerli a scegliere il ritorno volontario”.
Senza nessuna comunicazione ufficiale e con il timore
costante di essere deportati, molti migranti si sono accampati in strada.
Il centro sportivo Benito Juárez è stato svuotato
verso la fine di novembre: oramai si era trasformato in una distesa puzzolente
di acque nere e fango. Le persone sono state caricate su degli autobus e
trasportate verso est in una nuova struttura chiamata El Barretal, uno spazio
in cui normalmente si organizzano concerti ed eventi culturali. “Per la
mancanza di coordinamento tra le varie istituzioni, i migranti si sono trovati
a vivere in condizioni assolutamente precarie. Ma questo non si vede”, spiega
con durezza Nancy Landa, consulente specializzata in tematiche migratorie che
ha avuto modo di osservare da vicino la disorganizzazione in cui stagnavano le
autorità ancor prima dell’arrivo della Carovana. “È successa la stessa cosa
quando hanno cercato di attraversare la frontiera: si è data visibilità alle
immagini in cui le persone si arrampicano sul muro senza spiegare cosa le
spinge a farlo, senza mostrare le condizioni gravi in cui stanno vivendo”.
Landa si riferisce al primo tentativo di
attraversamento del muro, avvenuto la mattina del 25 novembre: un migliaio di
migranti avevano marciato pacificamente fino a El Chaparral, una delle porte
d’accesso al territorio USA e punto in cui ci si annota per fare domanda
d’asilo. Dal corteo principale vari manifestanti si erano poi divisi in vari
spezzoni, provando l’attraversamento in varie zone del confine. Nonostante i
migranti fossero ancora in territorio messicano, la polizia statunitense li
aveva attaccati con gas lacrimogeni e pallottole di gomma. C’erano stati vari
feriti e uomini, donne e bambini avevano finito con sciacquarsi gli occhi con
l’acqua fetida e stagnante del canale che corre lungo il confine.
La stessa mano dura è stata applicata durante la
chiusura del centro Benito Juárez. Quando gli autobus sono arrivati davanti al
centro sportivo i migranti non sapevano quello che sarebbe successo. Nessuno
gli spiegava dove sarebbero stati portati. Gli autisti dei bus solamente
dicevano di salire sui veicoli. Niente più. Senza nessuna comunicazione
ufficiale previa e con il timore costante di essere deportati, molti hanno preferito
rimanere davanti alla struttura ormai fantasma e accamparsi in strada.
Ma quella del centro Benito Juárez, è una delle zone
più pericolose di Tijuana: per le strade si vende eroina, crack, ci sono casi
documentati di tratta di persone. Le organizzazioni civili hanno spesso
ripetuto alle autorità che sarebbe meglio non alloggiare la popolazione
migrante da queste parti. Troppo rischioso.
“Con tutti i
migranti raggruppati in questo centro avrebbero potuto dargli delle istruzioni
rispetto alla città, per fargli capire dove sono le zone pericolose. Ma nessuno
gli ha mai detto niente, mai. La mia impressione è che per le autorità queste
persone non avevano alcun diritto. Non gli hanno mai chiesto nulla, non le
informavano di quello che stava succedendo: dovevano semplicemente fare quello
che gli veniva ordinato”. Soraya suona incredula mentre ripercorre con la
memoria la maniera in cui è stato gestito il centro sportivo. “La gente ha
diritto di sapere dove la portano e per quali ragioni, ha diritto di conoscere
quali saranno le nuove condizioni in cui si troverà a vivere”.
Spesso, in situazioni come quella vissuta durante le
prime settimane d’accoglienza della Carovana Migrante, non viene mostrato ogni
dettaglio del puzzle: si vede la corda che si spezza ma non le forze che la
tirano. Le immagini di decine di migranti che cercano d’oltrepassare una
palizzata sulla frontiera facilmente vengono usate per occultare le ragioni che
li spingono a farlo. Mentre si ripete che Tijuana è una città di migranti non
si dice che è anche una città in cui esistono forti pregiudizi verso le
popolazioni migranti più marginali: quelle che non sono state accettate e che
sopravvivono tra mille ostilità. Trionfa invece la rappresentazione del buon migrante:
quello che non si lamenta mai, quello che sempre tace e ringrazia, quello che
riceve le umiliazioni con piglio stoico e che accoglie gli insulti come se
fossero pane.
“Sono discorsi ipocriti: la gente nasconde il proprio
razzismo dietro a delle leggi ingiuste”, afferma con sarcasmo Nancy Landa. Dopo
aver vissuto per vent’anni a Los Angeles come migrante senza documenti, Nancy è
stata deportata a Tijuana nel 2009. Qui è passata per il calvario che si
riserva ai migranti deportati, una delle popolazioni più vulnerabili di questa
città di frontiera. “Molte persone sono convinte che esista una specie di senso
morale che sostiene e giustifica le leggi. A me sembra che il loro interesse
sia piuttosto selettivo. Poi però non prendono in considerazione il quadro
normativo che garantisce la protezione dei diritti umani delle persone
migranti: il loro è un interesse selettivo, di convenienza”.
Indietro è meglio non tornare
Quando il centro sportivo Benito Juárez sembrava
ancora un posto pulito e vivibile e quando il suo campo da baseball sembrava
ancora un campo da baseball e non un improvvisato campo profughi, tra le tende
accampate c’era ancora spazio per lo svago: frotte di bambini si rincorrevano
nel piccolo parco giochi, i più grandi si sfidavano a una partita di calcio
sull’asfalto nel vicino campetto da basket, tra i vialetti si incrociavano
sguardi civettuoli. C’era già chi percepiva il rifiuto che gli riservava una
parte della popolazione tijuanense e in tanti smaniavano per attraversare il
confine, stanchi di aspettare ancora: chi non lo sarebbe stato, dopo
quattromila kilometri di viaggio e a solo una manciata di metri dal sogno
americano?
Jesús Membreño, un trentenne honduregno originario
della cittadina di Choloma, nel dipartimento di Cortés, era tra questi.
Ingannava l’attesa insieme a dei compaesani e a un messicano di Guadalajara
che, vista l’opportunità, aveva deciso di unirsi alla carovana per tentar
fortuna una volta arrivato alla frontiera. “Impara in fretta il cabrón!”
ripetono Jesús e compagni indicando il messicano che prova a parlare in catracho,
ovvero in spagnolo honduregno, provocando incontrollabili attacchi di risa. In
America Latina la ricca diversità di accenti e parlate è sempre motivo di
scherno, affettuoso o feroce a seconda degli animi. “Se continua così gli diamo
la cittadinanza honduregna!”, insistono divertiti i giovani.
“La gente decide andarsene dal proprio paese per molte
ragioni”, inizia a spiegare Jesús quando le risate si calmano. “La povertà, la
violenza delle gang, la disoccupazione. L’attuale governo ha stabilito
un decreto per cui le persone non possono lavorare per più di due mesi di
seguito, così tutti hanno la possibilità di lavorare. Poi peró ti licenziano
poco prima che scadano i due mesi e non ti danno diritto a nulla. Anche la
sanità è precaria: gli ospedali sono vuoti, praticamente non ci sono medicine.
E scendere in strada per manifestare è un rischio: se lo facciamo, il giorno
dopo la polizia ci viene a cercare”.
Secondo il dossier sui salari, pubblicato a novembre
2018 dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, l’Honduras è il paese
dell’America Latina che ha registrato la più alta perdita in termini di valore
del salario (-5,4%) durante il 2017, e la previdenza sociale ai minimi termini.
Intorno al 60% della popolazione vive nella povertà, uno dei livelli più
critici dell’America Latina. A un anno dal colpo di stato che nel novembre del
2017 ha portato al governo Juan Orlando Hernández, nel paese centroamericano
l’uso di metodi illegali e violenti per ridurre al silenzio chiunque dissenta
continua ad essere la norma insieme agli alti indici di corruzione e impunità.
Jesús Membreño è preoccupato: ritornare in Honduras gli fa paura, lo inquieta
soprattutto l’estrema precarietà lavorativa. Inoltre ha sentito dire che per
quelli tornano, dopo essere partiti in Carovana, ci saranno rappresaglie.
Intorno, i suoi compagni di viaggio assentono: non importa che si tratti di
voci più o meno confermate, la paura condivisa rispecchia le condizioni in cui
vive buona parte della popolazione honduregna.
La nuova strategia politica dovrebbe lavorare su due
punti principali: facilitare la distribuzione di visti umanitari di un anno e
sostenere gli investimenti nella regione centroamericana per favorirne lo
sviluppo economico.
Le misure adottate negli ultimi mesi dal governo degli
Stati Uniti con l’obiettivo di ostacolare la messa in pratica del diritto
d’asilo, non hanno contribuito ad alleviare la tensione. Durante le ultime
settimane dell’anno appena passato molti migranti sono rimasti bloccati in
Messico, correndo il rischio di essere arrestati in maniera illegale. Dopo la
chiusura del centro d’accoglienza Benito Juárez, la polizia ha iniziato a
fermare le persone accusandole di aver commesso un qualche tipo di illecito
amministrativo per poi consegnarle agli agenti migratori. Oltre a questa
pratica — che nei fatti ha propiziato l’espulsione dal paese—si è anche notata
la tendenza a persuadere i migranti dell’idea che né negli Stati Uniti né in
Messico sarebbero riusciti a far accogliere le proprie domande d’asilo e che la
migliore opzione era quella del ritorno volontario nei loro paesi.
Dopo un mese dall’arrivo a Tijuana, la Carovana ha
cominciato a sfaldarsi. C’é chi ha fatto ritorno al propio paese, deportato o
volontariamente accompagnato. C’è chi ha provato o ancora prova ad attraversare
la frontiera pagando un coyote — ovvero una guida che gli
dovrebbe facilitare il passaggio — e sperando di non essere intercettato dagli
agenti statunitensi che pattugliano la zona che si estende lungo il muro. Altri
ancora sono rimasti accampati nel centro d’accoglienza El Barretal, cercando di
mantenere i nervi saldi e aspettando che arrivasse il proprio turno per
iniziare il processo d’asilo. Alcuni sono riusciti ad entrare negli Stati Uniti
e ora aspetteranno lunghi mesi prima di sapere l’esito del loro caso.
Il governo di Andrés Manuel López Obrador, entrato in
carica il primo dicembre 2018, ha avviato una nuova politica migratoria che
dovrebbe rispettare i principi del “Global Compact for Migration”, l’accordo
ONU sulla migrazione firmato anche dal Messico in occasione della recente
Conferenza di Marrakech.
La nuova strategia politica dovrebbe lavorare su due
punti principali: facilitare la distribuzione di visti umanitari della durata
di un anno e sostenere gli investimenti nella regione centroamericana e nel
sudest messicano per favorirne lo sviluppo economico. Lo scorso gennaio, il
nuovo governo ha effettivamente distribuito visti umanitari e altrettanti
permessi di lavoro ai migranti che sono arrivati in nuove carovane.
L’efficacia, però, non può darsi solo in casi di emergenza; come ha segnalato
l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) il
Messico dovrebbe anche risolvere le migliaia di domande di rifugio che sono
state fatte prima delle carovane e che ancora aspettano risposta. Un processo
molto più costoso della distribuzione dei visti umanitari, cui dovrebbe essere
destinato un budget adeguato.
Per ora, nonostante i buoni propositi, i fondi alle
istituzioni che si occupano dell’emissione di visti e permessi di rifugio sono
stati abbondantemente tagliati con l’inizio della nuova amministrazione. Se le
previsioni non errano e nel 2019 il numero di migranti che cercheranno rifugio
in Messico si duplicherà (passando da 28mila a 47mila domande d’asilo), il
paese potrebbe non essere in grado di gestire in maniera efficace, umana e
ordinata l’alta quantità di richieste.
Intanto, a fine gennaio, altre derive xenofobe si sono
abbattute sui migranti honduregni che si trovavano nella piazza centrale della
cittadina guatemalteca di Tecún Umán, al confine con il Messico. Circa 300
persone, armate di bastoni e pietre, hanno attaccato i migranti e li hanno
costretti a rifugiarsi sul lato messicano della frontiera. La manifestazione
era stata convocata attraverso le reti sociali con l’intenzione di “buttar
fuori queste scorie dalla nostra città” ed è avvenuta sotto lo sguardo
impassibile della polizia guatemalteca.
“Quello che è successo con la prima Carovana in certa
misura ha dato il via libera alla completa criminalizzazione di tutte le
persone che migrano, un fenomeno che stiamo già osservando in vari paesi
europei, tra cui l’Italia”, sottolinea allarmata Nancy Landa. “Mi preoccupa
come la disinformazione abbia influenzato così negativamente l’opinione
pubblica. Quando si riesce a sdoganare il discorso anti-migranti allora diventa
più facile applicare misure rigide e di repressione. Ora, per esempio, stiamo
assistendo alla messa in discussione del sistema di protezione umanitaria, un
diritto che gli Stati Uniti dovrebbero assicurare ai migranti che vogliono
presentare richiesta d’asilo. È inquietante vedere come quelli che dovrebbero
essere i più protetti sono invece i più pregiudicati”.
*Caterina
Morbiato è antropologa e
giornalista freelance
da: iltascabile.com