La rivendicazione di uno ius existentiae
per i cittadini europei
come contrasto del
populismo sovranista
Giuseppe Bronzini
A sostegno del rilancio
del tema del reddito di base
nel dibattito internazionale degli ultimi anni
vi sono le nuove tecnologie informatiche
nel dibattito internazionale degli ultimi anni
vi sono le nuove tecnologie informatiche
che minacciano di distruggere
irreversibilmente il lavoro disponibile
e le dinamiche di globalizzazione
sregolate
che generano un nuovo bisogno di protezione e le politiche di austerity,
viene
ricercato in una nuova chiusura dei confini nazionali,
alimentando così le
spinte populiste
Solo un deciso rilancio dell’Europa sociale
con la garanzia
di un reddito minimo che recuperi una solidarietà paneuropea
può rompere questa
spirale distruttiva
mediante la combinazione tra la razionalizzazione inclusiva
degli esistenti schemi (nazionali) di reddito minimo garantito
(che proteggono
chi si trova a rischio concreto di esclusione sociale)
ed una piccola quota di
reddito di base per tutti i residenti stabili nel vecchio continente,
finanziato attraverso risorse proprie dall’Unione
che mostrino la “potenza”
coesiva della cittadinanza sovranazionale
Prima
di illustrare in che modo la proposta di uno ius existentiae per i cittadini dell’Unione (e conseguentemente per
i residenti stabili in Ue alla luce dell’articolo 34 della Carta dei diritti
che – a proposito del diritto ad una assistenza sociale ed abitativo diretta ad
assicurare un’esistenza libera e dignitosa – parla di “ognuno” il che implica,
secondo il metodo classificatorio utilizzato nella Carta1 , ogni persona
residente stabilmente nel territorio dell’Unione) può essere interpretata come
una risposta alle dinamiche sovversive messe in atto dalle forze politiche
cosiddette populiste contro gli assetti istituzionali sovranazionali occorre
fare delle premesse terminologiche. Utilizziamo il termine ius existentiae nella sua accezione più larga di misura di
assicurazione dei “minimi vitali” intermedia tra la nozione di reddito minimo
garantito (d’ora in poi Rmg) destinato a coloro che sono concretamente in una
situazione di rischio esclusione sociale, in genere subordinato
all’accettazione di offerte di lavoro o corsi di formazione2 , e reddito di base (o
di cittadinanza) che invece spetta a tutti indipendentemente dalle condizioni
economiche e sociali del soggetto che lo riceve3 . Questo perché – come
si accennerà brevemente più avanti – la direzione da seguire (come riteneva
anche Stefano Rodotà4 ) non può che essere nel senso
dell’introduzione di una misura più radicale di quella attualmente diffusa nei
Paesi occidentali che separi più nettamente reddito e lavoro, soluzione
necessitata sul lungo periodo dall’innovazione tecnologica ed anche dalle nuove
modalità di generazione della ricchezza collettiva che mal si prestano ad
essere ricondotte nella costellazione otto-novecentesca del “lavoro”, ma oggi
questa svolta implicherebbe trasformazioni rivoluzionarie dei sistemi sociali
occidentali (a cominciare da quelli fiscali) ancora difficilmente gestibili,
oltre a non essere ancora pienamente in agenda perché ancora il “lavoro”
costituisce un aspetto potente nelle nostre vite, anche se sempre più spesso
attraverso modalità inedite. Questo percorso gradualistico ed attento alle
obiezioni delle forze politiche e culturali pro-labour verso il reddito di base
oggi viene in genere riconosciuto anche nelle proposte che vengono dalla Scuola
del Basic Income Earth Network e dai suoi Autori più noti ed autorevoli come
Philippe Van Parijs e Yannick Vanderborght, come si dirà più avanti nella loro
recente summa sul tema5 , che mirano ad un rafforzamento in senso
inclusivo (e di affievolimento degli strumenti di controllo e coercizione sui
destinatari ) degli esistenti sistemi di Rmg (soprattutto di quelli europei che
sono più avanzati ed hanno copertura costituzionale nella Carta di Nizza) e
all’introduzione di una piccola e gestibile (sul piano finanziario) quota di
reddito di base per tutti (tra 150 e i 200 euro), che però – essendo erogata
nella stessa misura a tutti i cittadini Ue – realizzerebbe una embrionale forma
di redistribuzione equitativa del reddito dai member states più ricchi a quelli
ove questo piccolo contributo sarebbe significativo. Il termine di ius existentiae rende bene, a nostro
avviso, l’aria di famiglia tra le due strade per realizzare una “dignità” per
tutti che condividono una medesima storia e gli stessi fini; esistono peraltro
anche soluzioni intermedie6 che tengono conto delle difficoltà
realizzative o delle obiezioni ancora forti all’idea in sé di un “reddito per
tutti”, anche se sempre più deboli e meno ideologiche o di principio7
. Si tratterebbe, quindi, di partire da ciò che è già stato realizzato
soprattutto in Europa come momento più avanzato del welfare post-bellico e cioè
una copertura dei bisogni di base per tutti (che quindi si aggiunge allo
zoccolo propriamente universalistico dello Stato sociale costituito dal diritto
alla salute ed all’istruzione) per renderlo coerente in via tendenziale con le
nuove urgenze e gli interrogativi che l’automazione e la cosiddetta economia
data driven (fondata sui dati) pone ai nostri sistemi di sicurezza sociale.
L’altra avvertenza riguarda invece il termine “populismo”. Come bene illustra
l’ultimo saggio di Marco Revelli8 è arduo ricondurre il fenomeno “populismo”
ad univoche categorie definitorie: sin dagli anni 20 e 30 i politologi (ma non
solo, basterà pensare agli studi sulla psicologia delle masse su cui si
misurarono Sigmund Freud o Elias Canetti) si sono cimentati con questa sfida ma
con dubbi risultati classificatori che – al più- rivelano degli “indici”
comportamentali che possono aiutare nell’impresa ricostruttiva ed anche nelle
politiche di contrasto. È quindi utile seguire le tracce che ci consegna la
ricerca di Revelli senza la pretesa di poter cogliere i mille risvolti del
fenomeno della cosiddetta “rinascita del populismo” ma concentrandoci su alcune
caratteristiche che in questa fase sembrano salienti e che sembrano
rappresentare una discontinuità rispetto a quanto già sperimentato nel 900 (un
“populismo 2.0”, quindi). Senza soprattutto la pretesa di una riconduzione
forzata di questa “piaga” delle democrazie (anche di quelle più avanzate del
Nord Europa) alla coppia destra/sinistra perché purtroppo è innegabile che esiste
un nuovo ed aggressivo “populismo di sinistra” che talvolta con Ernesto Laclau9
e Chantal Mouffe si è dotata di un apparato argomentativo filosofico e
gauchista; momenti “populisti“, tutto sommato rimasti non egemoni, hanno
certamente conosciuto il primo governo greco di Tsipras (con l’indizione di un
improvvisato referendum sul no all’Europa) ed anche il Movimento Podemos, così
come fortissima è sempre sembrata la componente folkish10 del Labour inglese di
Jeremy Corbin al punto da non contrastare davvero l’avventura della Brexit.
Cerchiamo di seguire, quindi, alcuni brillanti spunti di Revelli, sotto il
profilo del nesso con il rilancio del tema dello ius existentiae nell’impostazione offre la scuola, diffusa a
livello planetario, del “reddito di base”.
1.
Ma notoriamente anche per la direttiva 2003/109/Ce che, a certi fini
previdenziali ed assistenziali (soprattutto per quest’ultimi in ordine alle
prestazioni di carattere essenziale), equipara il trattamento dei cittadini Ue
a quelli dei Paesi terzi legalmente residenti nei territori dell’Unione; cfr.
la sentenza della Corte di giustizia del 2012, C-571/2010, Kamberay nella quale
viene anche richiamato l’articolo 34 della Carta dei diritti a proposito di un
contributo per l’alloggio della Provincia di Bolzano.
2.
Come ormai è chiaro a tutti il Reddito di cittadinanza del Governo italiano è
in realtà un reddito minimo garantito che protegge coloro che sono a rischio
sociale; da questo punto di vista si tratta di un abuso terminologico che
tuttavia chi scrive non ritiene particolarmente grave in quanto anche questa
misura rafforza in sé la cittadinanza impedendo che si determini una
popolazione di “serie b” che concretamente non riesce a dare il proprio
contributo alla società in cui vive, anche dal punto di vista della
partecipazione democratica. Alla fine si tratta di una distinzione nata in
ambito accademico che già nel 2004 era stata ignorata allorché il reddito
minimo della Regione Campania (che comportava una minima copertura per soggetti
davvero in situazioni di estrema difficoltà) fu chiamata enfaticamente “Reddito
di cittadinanza”.
3.
Sulla distinzione cfr. E. Granaglia, M. Bulzoni, M., Il reddito di base,
Ediesse, Roma, 2016; S. Toso S., Reddito di cittadinanza o reddito minimo?, Il
Mulino, Bologna, 2016.
4.
Cfr. S. Rodotà, Il diritto di avere dei diritti, Laterza, Roma- Bari, 2014; G.
Bronzini, Il diritto a un reddito di base. Il welfare nell’età dell’innovazione,
Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2017; Giuseppe Allegri, Il reddito di base
nell’era digitale. Libertà, solidarietà, condivisione, Fefè Editore, Roma,
2018.
5.
P. Van Parijs , Y. Vanderborght Y., Il reddito di base. Una proposta radicale,
Bologna, Il Mulino, 2017; su tale Volume cfr. G. Bronzini, Verso una maggiore
inclusività e promozionalità individuale, in Rassegna sindacale n. 3/2018.
6.
Cfr. la proposta di reddito di partecipazione (reddito condizionato allo
svolgimento di un’attività socialmente utile ivi comprese quella di cura, di
formazione, il lavoro volontario) avanzata dal notissimo economista
neo-keynesiano Tony Atkinson nel recente, Disuguaglianza. Che cosa si può
fare?, Raffaello Cortina, Milano, 2017.
7.
Per un panorama del dibattito internazionale cfr. a cura del BIN (Basic income
network) Italia, Reddito per tutti. Un’utopia possibile, Manifestolibri, Roma,
2009.
8.
M. Revelli, La politica senza politica. Perché la crisi ha fatto entrare il
populismo nelle nostre vite, Einaudi, Torino, 2019; cfr. anche M. Revelli,
Populismo 2.0, Einaudi, Torino, 2017.
9.
E. Laclau, La ragione populista, Laterza, Roma-Bari, 2019, C. Mouffe, For a
left populism, Verso, London, 2018. Nel volume del primo però il termine
“populismo” è reso in una maniera così originale da rivelarsi piuttosto
inservibile per le rozze e riduzioniste battaglie che si compiono nel suo nome
perché si parte della negazione che esista un collante ontologico del “popolo”,
una sua connotazione primaria e determinante, ma piuttosto si afferma che il “
popolo” si forma nella rivendicazione di significati e contenuti che
trascendono il piano del discorso dominante e consolidato, il cosiddetto
“linguaggio del padre” per dirla con Jacques Lacan o con il femminismo
differenzialista («il popolo è in altre parole il profilo che la società assume
nella sua rappresentazione politica, che è sempre distorta. Nevrotizzata,
sintomatizzata dall’inaccessibilità della Cosa sociale ... È un popolo nella
misura in cui si contrappone ad un sistema (differenziale ) antagonistico» –
Introduzione di D. Tarizzo al Volume di Laclau, p. XVII); nel rendersi
produttivo di questa apertura “comunicativa” democratica si costituisce il
popolo (che non avendo presupposti sociali è più il contrario che il sostituto
della vecchia “classe”) e questo stesso processo non può essere predefinito
come di destra come di sinistra. Questa vuotezza della definizione del filosofo
argentino è già stata individuata da S. Žižek, In difesa della cause perse,
Ponte alle grazie, Milano, 2009, che ne ha mostrato l’astrattezza irriducibile
che la distanzia dalle battaglie oggi imprescindibili come quelle in difesa dei
migranti o per la salvaguardia dello Stato sociale. Il confronto è ricostruito
anche nei primi capitoli del libro già citato di M. Revelli; cfr. anche P.
Baker, Cos’è davvero il populismo, in Internazionale, 15.2.2019.
10.
Per una critica di stampo libertario e neo- anarchico alla politica folkish
cfr. Srnicek N., Williams A., Inventare il futuro. Roma, Nero Edizioni, 2018.
scarica il .pdf del saggio integrale