mercoledì 15 maggio 2019

IUS EXISTENTIAE. PREMESSA DELLA PROPOSTA



La rivendicazione di uno ius existentiae

 per i cittadini europei 

 come contrasto del 

 populismo sovranista 






Giuseppe Bronzini



 A sostegno del rilancio del tema del reddito di base 

nel dibattito internazionale degli ultimi anni 
vi sono le nuove tecnologie informatiche 
 che minacciano di distruggere irreversibilmente il lavoro disponibile 
 e le dinamiche di globalizzazione sregolate 
 che generano un nuovo bisogno di protezione e le politiche di austerity, 
 viene ricercato in una nuova chiusura dei confini nazionali, 
 alimentando così le spinte populiste 

Solo un deciso rilancio dell’Europa sociale 
con la garanzia di un reddito minimo che recuperi una solidarietà paneuropea 
può rompere questa spirale distruttiva 
mediante la combinazione tra la razionalizzazione inclusiva 
degli esistenti schemi (nazionali) di reddito minimo garantito 
 (che proteggono chi si trova a rischio concreto di esclusione sociale) 
ed una piccola quota di reddito di base per tutti i residenti stabili nel vecchio continente, 
finanziato attraverso risorse proprie dall’Unione 
che mostrino la “potenza” coesiva della  cittadinanza sovranazionale 


Prima di illustrare in che modo la proposta di uno ius existentiae per i cittadini dell’Unione (e conseguentemente per i residenti stabili in Ue alla luce dell’articolo 34 della Carta dei diritti che – a proposito del diritto ad una assistenza sociale ed abitativo diretta ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa – parla di “ognuno” il che implica, secondo il metodo classificatorio utilizzato nella Carta1 , ogni persona residente stabilmente nel territorio dell’Unione) può essere interpretata come una risposta alle dinamiche sovversive messe in atto dalle forze politiche cosiddette populiste contro gli assetti istituzionali sovranazionali occorre fare delle premesse terminologiche. Utilizziamo il termine ius existentiae nella sua accezione più larga di misura di assicurazione dei “minimi vitali” intermedia tra la nozione di reddito minimo garantito (d’ora in poi Rmg) destinato a coloro che sono concretamente in una situazione di rischio esclusione sociale, in genere subordinato all’accettazione di offerte di lavoro o corsi di formazione2 , e reddito di base (o di cittadinanza) che invece spetta a tutti indipendentemente dalle condizioni economiche e sociali del soggetto che lo riceve3 . Questo perché – come si accennerà brevemente più avanti – la direzione da seguire (come riteneva anche Stefano Rodotà4 ) non può che essere nel senso dell’introduzione di una misura più radicale di quella attualmente diffusa nei Paesi occidentali che separi più nettamente reddito e lavoro, soluzione necessitata sul lungo periodo dall’innovazione tecnologica ed anche dalle nuove modalità di generazione della ricchezza collettiva che mal si prestano ad essere ricondotte nella costellazione otto-novecentesca del “lavoro”, ma oggi questa svolta implicherebbe trasformazioni rivoluzionarie dei sistemi sociali occidentali (a cominciare da quelli fiscali) ancora difficilmente gestibili, oltre a non essere ancora pienamente in agenda perché ancora il “lavoro” costituisce un aspetto potente nelle nostre vite, anche se sempre più spesso attraverso modalità inedite. Questo percorso gradualistico ed attento alle obiezioni delle forze politiche e culturali pro-labour verso il reddito di base oggi viene in genere riconosciuto anche nelle proposte che vengono dalla Scuola del Basic Income Earth Network e dai suoi Autori più noti ed autorevoli come Philippe Van Parijs e Yannick Vanderborght, come si dirà più avanti nella loro recente summa sul tema5 , che mirano ad un rafforzamento in senso inclusivo (e di affievolimento degli strumenti di controllo e coercizione sui destinatari ) degli esistenti sistemi di Rmg (soprattutto di quelli europei che sono più avanzati ed hanno copertura costituzionale nella Carta di Nizza) e all’introduzione di una piccola e gestibile (sul piano finanziario) quota di reddito di base per tutti (tra 150 e i 200 euro), che però – essendo erogata nella stessa misura a tutti i cittadini Ue – realizzerebbe una embrionale forma di redistribuzione equitativa del reddito dai member states più ricchi a quelli ove questo piccolo contributo sarebbe significativo. Il termine di ius existentiae rende bene, a nostro avviso, l’aria di famiglia tra le due strade per realizzare una “dignità” per tutti che condividono una medesima storia e gli stessi fini; esistono peraltro anche soluzioni intermedie6 che tengono conto delle difficoltà realizzative o delle obiezioni ancora forti all’idea in sé di un “reddito per tutti”, anche se sempre più deboli e meno ideologiche o di principio7 . Si tratterebbe, quindi, di partire da ciò che è già stato realizzato soprattutto in Europa come momento più avanzato del welfare post-bellico e cioè una copertura dei bisogni di base per tutti (che quindi si aggiunge allo zoccolo propriamente universalistico dello Stato sociale costituito dal diritto alla salute ed all’istruzione) per renderlo coerente in via tendenziale con le nuove urgenze e gli interrogativi che l’automazione e la cosiddetta economia data driven (fondata sui dati) pone ai nostri sistemi di sicurezza sociale. L’altra avvertenza riguarda invece il termine “populismo”. Come bene illustra l’ultimo saggio di Marco Revelli8 è arduo ricondurre il fenomeno “populismo” ad univoche categorie definitorie: sin dagli anni 20 e 30 i politologi (ma non solo, basterà pensare agli studi sulla psicologia delle masse su cui si misurarono Sigmund Freud o Elias Canetti) si sono cimentati con questa sfida ma con dubbi risultati classificatori che – al più- rivelano degli “indici” comportamentali che possono aiutare nell’impresa ricostruttiva ed anche nelle politiche di contrasto. È quindi utile seguire le tracce che ci consegna la ricerca di Revelli senza la pretesa di poter cogliere i mille risvolti del fenomeno della cosiddetta “rinascita del populismo” ma concentrandoci su alcune caratteristiche che in questa fase sembrano salienti e che sembrano rappresentare una discontinuità rispetto a quanto già sperimentato nel 900 (un “populismo 2.0”, quindi). Senza soprattutto la pretesa di una riconduzione forzata di questa “piaga” delle democrazie (anche di quelle più avanzate del Nord Europa) alla coppia destra/sinistra perché purtroppo è innegabile che esiste un nuovo ed aggressivo “populismo di sinistra” che talvolta con Ernesto Laclau9 e Chantal Mouffe si è dotata di un apparato argomentativo filosofico e gauchista; momenti “populisti“, tutto sommato rimasti non egemoni, hanno certamente conosciuto il primo governo greco di Tsipras (con l’indizione di un improvvisato referendum sul no all’Europa) ed anche il Movimento Podemos, così come fortissima è sempre sembrata la componente folkish10 del Labour inglese di Jeremy Corbin al punto da non contrastare davvero l’avventura della Brexit. Cerchiamo di seguire, quindi, alcuni brillanti spunti di Revelli, sotto il profilo del nesso con il rilancio del tema dello ius existentiae nell’impostazione offre la scuola, diffusa a livello planetario, del “reddito di base”.



1. Ma notoriamente anche per la direttiva 2003/109/Ce che, a certi fini previdenziali ed assistenziali (soprattutto per quest’ultimi in ordine alle prestazioni di carattere essenziale), equipara il trattamento dei cittadini Ue a quelli dei Paesi terzi legalmente residenti nei territori dell’Unione; cfr. la sentenza della Corte di giustizia del 2012, C-571/2010, Kamberay nella quale viene anche richiamato l’articolo 34 della Carta dei diritti a proposito di un contributo per l’alloggio della Provincia di Bolzano.
2. Come ormai è chiaro a tutti il Reddito di cittadinanza del Governo italiano è in realtà un reddito minimo garantito che protegge coloro che sono a rischio sociale; da questo punto di vista si tratta di un abuso terminologico che tuttavia chi scrive non ritiene particolarmente grave in quanto anche questa misura rafforza in sé la cittadinanza impedendo che si determini una popolazione di “serie b” che concretamente non riesce a dare il proprio contributo alla società in cui vive, anche dal punto di vista della partecipazione democratica. Alla fine si tratta di una distinzione nata in ambito accademico che già nel 2004 era stata ignorata allorché il reddito minimo della Regione Campania (che comportava una minima copertura per soggetti davvero in situazioni di estrema difficoltà) fu chiamata enfaticamente “Reddito di cittadinanza”.
3. Sulla distinzione cfr. E. Granaglia, M. Bulzoni, M., Il reddito di base, Ediesse, Roma, 2016; S. Toso S., Reddito di cittadinanza o reddito minimo?, Il Mulino, Bologna, 2016.
4. Cfr. S. Rodotà, Il diritto di avere dei diritti, Laterza, Roma- Bari, 2014; G. Bronzini, Il diritto a un reddito di base. Il welfare nell’età dell’innovazione, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2017; Giuseppe Allegri, Il reddito di base nell’era digitale. Libertà, solidarietà, condivisione, Fefè Editore, Roma, 2018.
5. P. Van Parijs , Y. Vanderborght Y., Il reddito di base. Una proposta radicale, Bologna, Il Mulino, 2017; su tale Volume cfr. G. Bronzini, Verso una maggiore inclusività e promozionalità individuale, in Rassegna sindacale n. 3/2018.
6. Cfr. la proposta di reddito di partecipazione (reddito condizionato allo svolgimento di un’attività socialmente utile ivi comprese quella di cura, di formazione, il lavoro volontario) avanzata dal notissimo economista neo-keynesiano Tony Atkinson nel recente, Disuguaglianza. Che cosa si può fare?, Raffaello Cortina, Milano, 2017.
7. Per un panorama del dibattito internazionale cfr. a cura del BIN (Basic income network) Italia, Reddito per tutti. Un’utopia possibile, Manifestolibri, Roma, 2009.
8. M. Revelli, La politica senza politica. Perché la crisi ha fatto entrare il populismo nelle nostre vite, Einaudi, Torino, 2019; cfr. anche M. Revelli, Populismo 2.0, Einaudi, Torino, 2017.
9. E. Laclau, La ragione populista, Laterza, Roma-Bari, 2019, C. Mouffe, For a left populism, Verso, London, 2018. Nel volume del primo però il termine “populismo” è reso in una maniera così originale da rivelarsi piuttosto inservibile per le rozze e riduzioniste battaglie che si compiono nel suo nome perché si parte della negazione che esista un collante ontologico del “popolo”, una sua connotazione primaria e determinante, ma piuttosto si afferma che il “ popolo” si forma nella rivendicazione di significati e contenuti che trascendono il piano del discorso dominante e consolidato, il cosiddetto “linguaggio del padre” per dirla con Jacques Lacan o con il femminismo differenzialista («il popolo è in altre parole il profilo che la società assume nella sua rappresentazione politica, che è sempre distorta. Nevrotizzata, sintomatizzata dall’inaccessibilità della Cosa sociale ... È un popolo nella misura in cui si contrappone ad un sistema (differenziale ) antagonistico» – Introduzione di D. Tarizzo al Volume di Laclau, p. XVII); nel rendersi produttivo di questa apertura “comunicativa” democratica si costituisce il popolo (che non avendo presupposti sociali è più il contrario che il sostituto della vecchia “classe”) e questo stesso processo non può essere predefinito come di destra come di sinistra. Questa vuotezza della definizione del filosofo argentino è già stata individuata da S. Žižek, In difesa della cause perse, Ponte alle grazie, Milano, 2009, che ne ha mostrato l’astrattezza irriducibile che la distanzia dalle battaglie oggi imprescindibili come quelle in difesa dei migranti o per la salvaguardia dello Stato sociale. Il confronto è ricostruito anche nei primi capitoli del libro già citato di M. Revelli; cfr. anche P. Baker, Cos’è davvero il populismo, in Internazionale, 15.2.2019.
10. Per una critica di stampo libertario e neo- anarchico alla politica folkish cfr. Srnicek N., Williams A., Inventare il futuro. Roma, Nero Edizioni, 2018.

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