domenica 14 aprile 2019

IL CONFLITTO FUORI/DENTRO LA FORMA DEL SALARIO

 Michele Ambrogio

 non sapremmo cosa sia esattamente 

 una vera democrazia o il comunismo 

 ma possiamo intuire facilmente  

 quando manchino 

\ gli universali marxiani sono astrazioni determinate in una conflittualità che non è mai completamente iscritta nella forma del rapporto di scambio
\ il valore del lavoro è un eccesso che non si riduce alla sua rappresentazione monetaria
\ un universale assente è un particolare che si lega ad altri particolari rappresentandone proprio la dimensione non meramente fattuale
\ognuno di questi particolari può funzionare da universale in modo contingente, se ne consideriamo la diacronia, la sequenza storica


Quella di Lacan è una fortuna retrospettiva, che, conseguentemente, si presta all’infedeltà delle tradizioni. È il caso dell’espressione “significante vuoto”, a lui attribuita, oggi spesso associata ad un altro termine, anch’esso usato come un passe par tout: populismo. In Italia, di questa rilettura sommaria è stato recente artefice Marco Revelli (La fine della politica, Einaudi, 2019). Il suo Lacan è un esempio di “recalcatismo” di sinistra. Più meditato il collegamento a Lacan nei lavori di E. Laclau e C. Mouffe; di quest’ultima soprattutto, si parla oggi, grazie al suo fortunato, e malinteso, Per un populismo di sinistra (vedi NOTEBLOCK).
Facile fraintendere l’espressione significante vuoto o fluttuante (Laclau preferiva, spero sia chiaro in fondo perché, “vuoto” a fluttuante o equivoco): anche nel linguaggio corrente un discorso che gira attorno al vuoto, “una parola priva di contenuto”, è una sorta di specchietto per le allodole. Come ad esempio sarebbero oggi il popolo, l'identità o la sovranità nazionale nella dilagante retorica delle destre. Ecco che allora il cerchio si chiuderebbe senza dover perder tempo a studiare strutturalisti o semiologi: in assenza di un movimento reale alternativo al sistema capitalistico, le destre avanzano, usando una retorica vuota e fallace, buona per gli “ottentotti”. La riproposizione di un argomento antico, quello dell’esercito di riserva, con la nostalgia per la cara estinta classe operaia di una volta, mossa consolatoria e nostalgica, sono un corollario inevitabile. Senza pretendere di essere neanche lontanamente esaustivo, cercherò di indicare dei crocevia, utilizzando il significante vuoto e il populismo come posizioni approssimative di campi o programmi di ricerca. Parto dal primo, il significante vuoto, o fluttuante, un'espressione (Levi Strauss chiamò così il “mana”) con "valore simbolico zero", che già nel primo strutturalismo era vista come necessaria per "permettere al pensiero simbolico di operare nonostante la contraddizione ad esso inerente" (Jeffrey Mehlman, The "Floating Signifier”: From Lévi-Strauss to Lacan, Yale French Studies, No. 48, French Freud: Structural Studies in Psychoanalysis, 1972).
Nella psicanalisi secondo Lacan, il significante vuoto è piuttosto il significante di un’assenza, un punto cieco nella significazione che articola il discorso del soggetto. Nella rilettura che Lacan fa di Freud, questo significante è il fallo, il segno che opera simbolicamente nel contesto della castrazione, rinviando all’oggetto immaginario del desiderio dell’Altro. Non articolo quella che è una logica della parte e del tutto in relazione ad un valore simbolico, un complemento immaginario ed una mancanza di significato reale. Mi limito a sottolineare che è solo separandolo dal corpo che il fallo può funzionare come regia del tutto. Se associamo al fallo, come significante o funzione, l’organo, anch’esso è parte, non tutto, né semplice elemento o parte del tutto, né “parte per il tutto”, secondo una definizione della metonimia che andrebbe rivista (cfr. G. B. Contri, Opera Omnia, Nozioni fondamentali nella teoria della struttura di J. Lacan, II, pp.28 e sgg.). Nel linguaggio, è la metonimia ad assicurare quella funzione di parzialità che nell’inconscio, “strutturato come un linguaggio”, è ripresa dal significante metonimico fallico. La cosa notevole è che la struttura si articola a partire da un insuccesso, una significazione mancata, un impossibile reale, che ciononostante assegna posizioni, valori differenziali ai segni che un significato lo avranno solo a partire dalla regia di un significante padrone o vuoto. Sembra difficile, ma è banale: una donna non ha il fallo, ma può far dono di un figlio (un fallo immaginario) a un uomo (che lo riconoscerà simbolicamente dandogli un nome proprio). Quell’uomo, col suo riconoscimento simbolico, dimostrerà la realtà del suo desiderio, lui che il fallo lo ha ma solo a condizione di assoggettarsi alla legge della castrazione simbolica; cioè lo ha solo se accetta il rischio di perderlo, vietando a se stesso la soddisfazione del desiderio della madre. Il fallo quindi come supplente di una mancanza che produce effetti di senso, e inceppi o nodi che possono articolarsi. Non entro ovviamente nel merito, limitandomi a sottolineare come nessuno dei segni che entrano in gioco nella struttura (padre, madre, figlio) abbia un significato proprio che non sia meramente differenziale; il fallo, il significante di una mancanza, inoltre ha un valore che è simbolico perché operativo, è una funzione, o se si preferisce un performativo; il soggetto si definisce solo come resto di queste operazioni (o tempi, come in un dramma). Il fallo, come significante ha un privilegio reale, contingente ma necessario ex post, perché soccorre nell’emergenza di un contesto non padroneggiato. La struttura è quella patriarcale, storicamente determinata, ma proprio a partire da quel particolare contingente delimitato come campo della differenza sessuale, quell’operazione condotta dal significante dell’assenza è necessaria. Finché la struttura tiene (cfr. J. Lacan, Scritti, Einaudi, Torino, 1974: “La significazione del fallo”, 1958, vol. II, pp. 682-693). Salto i passaggi storici e i rapporti non solo teorici tra Lacan, Althusser, Deleuze, Badiou, Zizek (fermandomi a generazioni di filosofi del secolo scorso e ignorando colpevolmente i loro allievi attuali) notando che tutti, in vario modo hanno ripreso il concetto di significante vuoto, con il lascito dello strutturalismo.
Passando il testimone, protesi fallica anch’esso, dalla psicanalisi alla politica. Credo che il tema ricorrente, il filo conduttore sia stata e sia la relazione tra la contingenza, il particolare, e la necessità, l’universale. Riporto, per capirci, un esempio di Laclau lettore di Gramsci: la classe operaia, una parte della società, deve realizzare un’autentica unità nazionale, un progetto complessivo, un’idea universale, costruendo attorno a questo significante vuoto un’egemonia ed un’identità. Se il tema della costruzione identitaria, con una dimensione narrativa soggettiva, diventa esclusivo, ci tireremmo addosso gli strali dedicati ai postmoderni che considerano la realtà il frutto di un successo performativo. Se però pensassimo di squarciare i veli rivelando la storia per quello che è realmente, ad esempio, in una vasta letteratura marxista, come lotta di classe, il ruolo del soggetto sarebbe ridotto a quello di un osservatore. E la storia sarebbe storia naturale. Poniamo perciò che un contenuto particolare, contingente e relativo ad un insieme finito, si candidi a rappresentare un universale, senza che le situazioni contingenti ne predeterminino necessariamente gli sviluppi futuri. Non sarebbe possibile farlo in un contesto di pure equivalenze, a meno di non voler rappresentare soltanto gli esiti previsti nelle differenze che hanno un senso, rimandandosi reciprocamente l’un l’altra. Il sistema sarebbe bloccato negli esiti prevedibili e le novità sarebbero solo catastrofiche.
Un universale, un significante vuoto, dovrà necessariamente operare come mediatore con i particolarismi e gli antagonismi, in un tutto che è attraversato da antagonismi, domande, senza risposta. La riproposizione di un universale sarebbe il modo in cui si riattiva ciò che altrimenti si sedimenterebbe nei dispositivi di governance. Così potremo dire che questa qui non è una vera democrazia, che non lo è anche quella che toglie le discriminazioni sociali, ma vieta, ad esempio, la stampa libera. Non sapremmo cosa sia esattamente una vera democrazia, o il comunismo, ma possiamo intuire facilmente quando manchino. Così come è impensabile un’economia di mercato pura senza la conflittualità degli Stati nazione e dei sistemi-paese. Quindi un universale assente è un particolare che si lega ad altri particolari rappresentandone proprio la dimensione non meramente fattuale: lottare per la scuola pubblica, contro i finanziamenti ai privati, per una legge che tuteli il diritto di sciopero… ognuno di questi particolari può funzionare da universale in modo contingente, se ne consideriamo la diacronia, la sequenza storica. Quello che è però storicamente contingente, viene radicalizzato proprio dall’universalità rivendicata, che produce in quel significante un valore necessario perché, in senso forte, simbolico. Esempio: un paese civile non lascia morire naufraghi in mare perché non hanno la cittadinanza italiana. A guardar bene, anche gli avversari di questo universale umano ne proclameranno uno equivalente ma antagonista: hanno il diritto ad una vita migliore, ma per avercela non devono essere costretti a migrare. Ma perché non avvalersi in questi casi del più rodato concetto marxiano di ideologia? Un interesse particolare (ad esempio la rivalutazione del patrimonio immobiliare dei centri storici per fini speculativi) si fingerebbe portatore di un bene comune (la valorizzazione di una città e la sua restituzione alla cittadinanza intera). Oppure (procedendo nel verso contrario) prendiamo la difesa dei diritti umani, universali, che nella loro rappresentazione concreta sono stati a lungo sinonimi di diritti dei bianchi, proprietari benestanti e maschi. Anche qui un contenuto particolare si spaccia per verità universale approfittando della vaghezza dell’ideale. Qui, la mia risposta, frutto di situazioni storiche e letture contingenti, mi appare necessaria. Credo lo fosse già per Althusser, Balibar, Laclau e altri che si erano misurati, uscendone maldetti, con le aporie del Capitale. Se tutte le merci si scambiano, tutto ha un prezzo, non c’è altro che un sistema di differenze e particolarismi. La crisi sarebbe un limite esterno allo sviluppo del capitalismo. Ma il valore del lavoro è un eccesso che non si riduce alla sua rappresentazione monetaria. Non è solo la produzione di un valore d’uso, e neppure il semplice strumento per accedere ad una superficie piatta su cui operare come produttore e consumatore. Il lavoro è dignità, autonomia, promozione di sé, scoperta di un universo di relazioni… significanti padroni. Appunto un significante vuoto, un operatore logico, che mostra come impossibile ma reale la sua particolarità non iscrivibile. La lotta di classe, il conflitto tra capitale e lavoro, non è negoziabile, anche se il soggetto rivoluzionario si dà come casella vuota, in quel salario che lo misura nel rapporto di capitale. È un'anomalia, un particolare non esterno all’universale che lo comprende, non interno al capitale contro cui lotta, non riducibile alla forma salario che lo cattura. È un rappresentante del soggetto (in altre storie avremmo detto la classe) che resterebbe antagonista del capitale anche se questo lo retribuisse con una misura equa, misura che peraltro è manifestamente inesistente. Nel rapporto tra capitale e lavoro il salario non è una mediazione, una sintesi, di interessi negoziabili. Non è questa la dialettica e non sarebbe teoricamente possibile categorizzare ciò che, nella prassi, si determina soggettivando il processo. Gli universali marxiani sono astrazioni determinate in un conflitto che non è mai completamente iscritto nella forma del salario. Sarebbe lungo, ma forse non inutile, ripercorrere un viaggio che dai Grundrisse portava alla microfisica del potere. Se volessi renderlo con un’immagine riprenderei quella del barone di Munchausen all’assedio di Vienna: circondato dai Turchi si salva sollevando sé e il suo cavallo aggrappandosi al codino. Il particolare è ciò che tiene il soggetto, che è nel quadro, appeso con la sua cornice, l’universale, alla parete. Forse, partendo da questo sfondamento del presupposto (l’oggetto e il soggetto non precedono le relazioni contingenti che li determinano retrospettivamente) la questione sarebbe meno filosofica di quanto non sembri.