Non vi sono “poteri al popolo” in grado di competere con quello che è il populismo di destra dominante nelle nostre patrie terre e nel vecchio continente né il pensiero di Laclau-Mouffe si presta a legittimazione di immaginari autonomistici capaci di sottrarre egemonia politica e culturale all’asse sovranista reazionario sempre più minaccioso [acci]
La crisi evidente del modello neoliberista ed il
naufragio della UE a fronte di un’avanzata delle destre su scala globale, anche
a rischio di storcere qualche naso, impongono di interrogarsi sulla possibilità
di costruire una sinistra popolare. La Chantal Mouffe sfida il lessico e le
geografie politiche scrivendo addirittura “populista” accanto a “per una
sinistra”. Populista è una parolaccia, soprattutto per la sinistra. Il libro
ripropone, abbozzando un metodo di lavoro, temi che sono stati trattati dalla
fine degli anni novanta, e lo fa con un pizzico di ottimismo che è giustificato
da zone di ripresa del dibattito e della partecipazione popolare a partiti come
il Labour britannico e a Podemos in Spagna. In Italia, al contrario, mai come
oggi la sinistra è apparsa così elitaria e lontana dal popolo. Il libro quindi
ha il merito di un’inattualità teorica, a dispetto della fortuna in libreria.
Parla di popolo alla, e per una, sinistra. Ma cosa è un popolo? Chantal Mouffe
riprende da qui il filo di una ventennale riflessione, condotta fino al 2014
con Ernesto Laclau. La risposta non può essere una definizione, un paradigma
essenziale. È il prodotto di un’operazione che costruisce egemonia. Un fatto
sempre storico e contingente. Un sindacato che rappresenta i lavoratori può
legarsi e istituire un collegamento con una lotta antifascista e diventare un
baluardo dei diritti. Non lo è in se stesso ma per qualche cosa che lo ha
associato a quella storia di diritti e democrazia. Com'è stato un tempo, in
quella storia passata in cui sta ancora, in queste note come per la Mouffe, una
sinistra; una storia che potrebbe non ripetersi. Non abbiamo a che fare con
un’ontologia dell’essere sociale, ma con pratiche politiche e formazioni
discorsive. Questa risposta non implica una nebulosa cangiante e indefinita: le
catene di equivalenze (la lotta per il salario che rinvia all’emancipazione
della donna, il superamento del genere che si traduce nell’apertura a
differenze etniche e razziali…) possono e devono ancora essere articolate da
una domanda di democrazia radicale (libertà ed uguaglianza) in competizione con
quella restaurazione di un noi figli di una stessa patria, quel “noi prima di
loro” che anima il popolo (i populismi) delle destre. Possiamo provarci. La
rivendicazione di sovranità popolare deve così competere oggi con le alleanze
nazionali di turno, battendo - cosa nient’affatto facile- le destre. Può farlo
solo se mette insieme chi si preoccupa del futuro del pianeta con chi ha paura
di non arrivare a fine mese. Un populismo insomma che non snobbi i forconi o i
gillet gialli, ma li convinca ad altre ragioni, li educhi ad associarle,
tenerle unite non solo perché giuste, ma anche vincenti, capaci di dare un
senso ed un riconoscimento soggettivo. Democrazia e uguaglianza, ripete la
Mouffe, che sono significanti vuoti,
devono riproporsi come alternativa e sedurre, conquistare il consenso popolare.
Non stigmatizzare ma muovere, spostare in avanti la frontiera di una differenza
dalle destre, questione mai così attuale come oggi. Democrazia dunque, ma
materializzata negli affetti di un popolo che si riconosca nella parte giusta.
Democrazia che nelle opere di Laclau si impone come un “significante padrone”,
una metafora che articola ciò che nella serie non troveremo che per combinazioni
differenziali orizzontali. La necessità di un universale - una metafora - che renda dialettico il
particolare - gli scambi orizzontali, o metonimie- rinvia alle letture di
sinistra di J. Lacan. Non ho alcuna pretesa, e capacità, di restituirne in
poche righe la complessità e i rimandi, tanti, a Deleuze, Badiou, Zizek…
Semplifico e lo illustro con un esempio: vogliamo più democrazia, e lo
esprimiamo con rivendicazioni assai diverse, come una libera stampa o
l’indisponibilità a lavorare come schiavi per una vita intera. Inutile
rimpiangere la classe operaia o qualunque soggetto puro, portatore dell'onore
perduto del lavoro. Sia chiaro che questo non significa la fine della lotta di
classe, semmai una metamorfosi di cui non importa ricordare l’origine. La
contraddizione che muove l’azione politica non segue un copione ideale. Laclau
non credeva che fosse possibile e neppure auspicabile comprendere sempre e
comunque la storia universale come lotta di classe e, almeno nei fatti, pare
che oggi abbia ragione. Non sapremo per questo più proporre un paradigma per il
cambiamento? Non dovremo intendere nei conflitti gli antagonismi e scegliere da
che parte stare? Non possiamo chiedere più democrazia e immaginare
un’uguaglianza che non sia la moltiplicazione di particolarismi irriducibili?
Peraltro tutti subalterni alla logica del profitto capitalistico. Su questo la
Mouffe non rinuncia al mito, o al logos di una ragione universale, ancora
illuminista. Quale variante propone? Il conflitto è ineludibile, ma la proposta
politica sovversiva contingente (ossia potrebbe non essere). Basta, pare poco, costruire
egemonia e collegare in un progetto comune di sinistra il popolo. In
quest’ottica anche se non sapremo mai dire cosa sia una vera democrazia,
possiamo ancora benissimo criticare quelle di volte in volta esistenti, perché
formali, classiste, autoritarie… Per riuscirci dovremo però inventarcelo quel
popolo, un soggetto che interpreti quelle domande non passandole in giudicato,
soprattutto quando non sono espresse dagli attori che abbiamo conosciuto in
passato. Penso allo streaming di Bersani e i pentastellati e mi chiedo se in
quella cosa lì altri avrebbero potuto inventarlo, un popolo. Forse no, ma la
suggestione resta. Non per un indistinto sommarsi di quote di consenso, che del
resto sappiamo che più che sommarsi si annullano. Sbaglia in questo, a mio
parere, B. Vecchi (mi riferisco alla sua recensione del libro della Mouffe sul
Manifesto) quando intende il politico - nella prospettiva proposta di un
populismo di sinistra - come la sintesi dei particolari percorsi di
emancipazione. Nelle opere di Laclau e Mouffe, come nelle letture politiche di
Deleuze, semmai trovo il contrario. Non c’è verticalizzazione delle lotte ma la
loro estensione, che impone una geografia di alleanze contingenti, subordinate
ancora ad una logica di sinistra. Ancora più fuori strada l’idea che una
qualsiasi sintesi sia consegnata a un partito o - peggio - allo stato. La
Mouffe è convinta sì che non si possa praticare un esodo generalizzato dalle
regioni di una rappresentanza parlamentare del conflitto; ciononostante è
controproducente anche solo proporre una riduzione delle istanze soggettive ad
un unico attore collettivo. La dialettica tra movimenti ed istituzioni deve
essere incentrata da un’idea di democrazia radicale non appiattita sul neo
liberismo liberale. La Mouffe non è socialdemocratica, ma una pluralista
anticapitalista non neoliberista. Qui però la sua proposta populista mostra
anche una netta preferenza per un’opzione che - per contro -mi pare insita nel
dna della sinistra italiana postoperaista: non c’è omogeneità e corrispondenza
puntuale tra movimenti e rappresentanze istituzionali (il partito) ma - per la
Mouffe come per Laclau - neppure autonomia del sociale e potere costituente (il
comune caro a Negri ed Hardt). Sono strade differenti, e libri, che non mi
sentirei di opporre in astratto. Intanto il populismo di sinistra spiazza la
ossessiva astratta contrapposizione tra sovranisti nazionali e popolari, da una
parte, e globalisti al soldo di interessi particolari, dall’altra. Un
universalismo che sporchi la pallida ragione illuminista con il sanguigno
populismo del coatto? Nel suo libro cita Sanders, Corbin, Podemos, glissando su
Di Maio e Salvini. C’è ancora un tempo, quindi, per questa partita?