la torsione identitaria razzista e machista del neoliberismo
una perfetta esemplificazione della fase autoritaria attraversata da
un neoliberalismo che risponde alla sua crisi esacerbando i meccanismi
di comando
Le
domande sociali che pure avevano animato parte dei consensi raccolti dalle
forze di governo – soprattutto la fortissima richiesta di protezione, unita a
un sacrosanto disgusto per la classe dirigente, espressa dal Sud con il voto
massiccio al Cinque Stelle – sono state letteralmente sacrificate sull’altare
del neoliberismo comunitario. E questo non solo per effetto del peso
ricattatorio dei vincoli di bilancio UE, pure indiscutibilmente e
catastroficamente evidente, ma soprattutto perché tutta la manovra risponde a
quelle domande sociali in un modo saldissimamente innestato dentro una torsione
autoritaria e disciplinare delle politiche neoliberali. La grande promessa
sulle pensioni si risolve, per esempio, nel rimandare a ciascuno il calcolo
della sostenibilità dei costi dell’anticipazione del pensionamento: con la
strizzata d’occhio alla logica populistico-punitiva della propaganda del
“taglio “delle pensioni più alte (che in realtà è soprattutto una mancata
rivalutazione delle medie), cui non corrisponde nessuna reale redistribuzione.
Il confronto con la determinazione politica, intensamente egualitaria, con cui
i gilet jaunes francesi
insistono, in ogni rivendicazione, sull’aumento delle pensioni, mostra in tutta
chiarezza come tutta l’operazione “quota 100” – al di là dei particolari ancora
di là da venire sulla sua applicazione – resti tutta solidamente dentro
l’impianto neoliberista.
La
vicenda del “reddito di cittadinanza” è ancor più rivelatrice. Cominciata tra
le mille incertezze e oscillazioni del M5S, e sempre lontanissima da un reddito
di base universale e incondizionato, aveva in partenza almeno il merito di
essere meglio finanziata rispetto allo striminzito REI del governo a guida PD,
il quale pure aveva provocato file di richiedenti che, solo a saperle guardare,
avrebbero già detto molto su quali sarebbero stati i comportamenti elettorali
del Sud. Quello che, invece, viene fuori dalla manovra è non solo un mero
sussidio di disoccupazione, fortissimamente condizionato e controllato, ma uno
strumento di ulteriore flessibilizzazione della forza lavoro, di governo della
povertà e della mobilità interna in direzione Sud-Nord, sino al punto di
trasformarsi, sotto pressione della Lega, in un incentivo versato alle imprese
contro assunzioni anche precarissime e temporanee, sulla scia del tanto
deprecato Jobs Act renziano.
Lavoratori sfruttati, controllati e però “preferiti” rispetto agli stranieri,
contro i quali si inventa il requisito del soggiorno oltre i 10 anni: sempre su
impulso leghista ma con il consenso sempre più attivo del M5s, davvero
concelebrante di questo “sacrificio” del reddito, sull’altare dei neoliberismi
convergenti della Lega e dell’UE. In questo modo, tra l’altro, il governo
celebra anche il suo tradimento dell’elettorato meridionale, completato e
aggravato dalla retromarcia, sempre in nome di uno sviluppo già scritto e senza
alternative, su tutte le promesse sulle grandi opere, dalla TAV al TAP alle
trivellazioni, sino all’ultrarivelatrice vicenda dell’ILVA, vero simbolo di
continuità serrata con le politiche precedenti.
Una
manovra quindi tutta nel segno del governo dei poveri e di una gestione della
crisi che, se si distanzia dalla precedente austerity,
lo fa solo per segnare un maggiore utilizzo di leve di intervento per
rafforzare le linee di inclusione/esclusione e la produzione di disuguaglianze,
materialmente e simbolicamente affermata attraverso la ferocia dell’azione
governativa nel Mediterraneo. Tutto questo non fa evidentemente nessuna
difficoltà a Salvini, che accelera consapevolmente sul programma
neoautoritario. Si accetta il compromesso sui livelli di spesa, ma si intensifica
ancora il carattere disciplinare degli interventi di workfare. Contemporaneamente,
si prosegue con il programma ispirato al più classico “punire i poveri”: la
sera stessa della resa alla UE sui livelli di debito, il leader leghista
dichiara a tutti (e specie agli alleati…) che la prossima priorità sarà la
riforma della legittima difesa. Pochi soldi, molto controllo sociale, meno
tasse con la flat tax e magari se serve anche più armi e libertà di usarle. E
intanto difesa strenua del decreto sicurezza e insistenza sulla “chiusura dei
porti”, mentre, non certo per ultimo, anzi forse norma fondamentale nella
restaurazione autoritaria, il disegno di legge Pillon si incarica di minacciare
le donne attraverso la sacralizzazione dell’ordine gerarchico della famiglia
patriarcale. Insomma: perfetta sintesi della torsione identitaria, razzista e
machista del neoliberismo. A sintetizzare in fascismo non si sbaglia di tanto,
e comunque si rende l’idea. L’Europa sta a guardare e tutto sommato è ben
soddisfatta di non andare allo scontro: ci sarà ancora da battagliare un po’
con questo governo italiano, ma, magari dando un po’ di fiducia ad un redivivo
presidente del Consiglio, una qualche mediazione si troverà, specie sulla pelle
dei migranti, sempre autentica pietra di inciampo rivelatrice della vergogna
comune che unisce i populisti “nazionali” e la governance europea nel loro
comune neoliberismo “armato”.
abstract
dall’Editoriale Riaprire un orizzonte comunista: il
nostro “Piano A”