-Marco
Spagnuolo-
DAL
VUOTO DELLA POLITICA ALLA POLITICA DEL VUOTO
Nell’aprile del 2017, pressappoco un
anno fa, è comparsa per i tipi de “La fabrique” la terza pubblicazione del
Comité invisible: Maintenant.
Un libro apparso in un momento cruciale, durante le prime grandi mobilitazioni
contro Macron e nel vivo dell’esperienza della ZAD (Zone
à defendre). Un saggio che ha condizionato molto sia l’andamento del dibattito
interno alle mobilitazioni sia le mobilitazioni stesse
Della morte e della
resurrezione: politica zombie
Sembra
banale dire che la critica alla leadership e quella alle istituzioni e
all’organizzazione siano e debbano continuare ad essere separate. Invece non lo
è, almeno per il Comité. Non a caso, come precedentemente in À nos amis, il collettivo ha continuato
nella direzione di un’unica ed univoca critica – usando, tra l’altro, tanto la
stessa logica quanto lo stesso metodo – nei confronti di una e delle altre.
Leggiamo così che «bisogna che noi abbandoniamo l’idea che non vi sia politica
se non laddove ci sono visione, programma, progetto e prospettiva, laddove ci
sono finalità, decisioni da prendere e problemi da risolvere» perché la
politica è una questione di amico/nemico, di schmittiana memoria: «è solo al contatto che si scoprono l’amico e il
nemico» (p.63). Questo contatto dove lo dovremmo trovare? Ci indicano subito la
strada – nel cortège de tête: «un
certo numero di disertori ha creato uno spazio politico in cui comporre la loro
eterogeneità, uno spazio certo effimero, certo insufficientemente organizzato,
ma raggiungibile e, nel giro di una primavera, realmente esistente» (p.30). Questa sarebbe la terza strada, al di
qua della dialettica «fissata» tra potere costituente e potere costituito
(sic!), grazie alla quale si può finalmente dire addio all’organizzazione e
alla politica (come se la politica fosse un’entità fissa ed esterna che move ‘l sole e tutte l’altre stelle, una
sorta di aristotelico motore immobile, che sfiora quasi il teologico-politico).
Peccato che proprio la critica alla politica tout court, che passa per la critica al processo costituente e
assembleare, si ritorca in una spirale paradossale. In un colpo solo riescono a
dire - tutto e il contrario di tutto: l’assemblea “À l’abordage!”, secondo loro, nel 2016 sarebbe riuscita in ciò in
cui non è riuscito il cortège de tête
– «portare le componenti eterogenee della lotta a incontrarsi e a organizzarsi al
di là di una temporalità di movimento» (p.79).
Sostanzialmente,
tutto questo criticare i movimenti per la loro temporalità assembleare e i loro
processi decisionali, avanzando di contro una temporalità di movimento e una
decisionalità spontaneista espresse dall’evento-cortège
de tête, si è risolto nel trovare un
limite nell’evento stesso e una svolta proprio nell’organizzazione e nel
processo assembleare. Veramente, tutto e il contrario di tutto, un’operazione
di sintesi dialettica propriamente hegeliana: la politica viene dichiarata
morta, salvo essere riesumata dall’obitorio dell’Evento, per divenire una
politica-zombie.
La critica a Negri e
Lordon: istituzioni costituenti
Ritornando
sul tema delle istituzioni e del potere costituente, Lordon e Negri vengono
criticati: l’uno, perché «non può immaginarsi una rivoluzione che non sia una
nuova istituzione» (p.69); l’altro, perché sostiene che «parlare del potere
costituente è parlare di democrazia» [Il potere costituente,
Roma 2002, p.11].
Evidentemente, il Comité avrà chiuso il libro a quella pagina, la prima. Dopo
aver tracciato una approfondita genealogia del potere costituente e di tutte le
sue ramificazioni, biforcazioni e mutazioni,
Negri arriva a scrivere: «il vero realismo politico non consiste nel
riconoscersi, e nell’appagarsi, nel carattere decisivo della forza fisica ma al
contrario a desiderare come questo dominio sia sempre e instancabilmente dal
sabotaggio costituente della moltitudine»[ivi,
p.411]. Questo passaggio, che voleva dimostrare come il potere costituente
possa effettivamente rompere ogni possibilità di dialettica col potere
costituito non trasformandosi in esso, può servire per comprendere il capitolo Destituons le monde di Maintenant. Infatti, non solo rifiuta
quella concezione determinista secondo la quale il potere costituente debba
necessariamente cristallizzarsi in potere costituito, ma appare come una
risposta in anticipo a quanto avanza il Comité. Se tentiamo di concretizzare le
pratiche di destituzione, proprio come sono avanzate nel libro, non riusciremo a non immaginare un
circo per feticisti dell’Evento: immaginare
è un’operazione potenzialmente rivoluzionaria; immaginare un «gesto»
destituente, col quale vomitare il proprio risentimento, potrebbe non esserlo.
A
cosa porta, in sostanza, la critica all’istituzione tout court e al processo costituente? La pratica destituente
dove trova il suo compimento? Il cortége
de tête insiste, alla fine, su una temporalità effimera e trascendente la
vita stessa: come il fumo, quando finisce, si ritorna a capo chino alla
quotidianità. E la gioia dell’amore e della condivisione del momento passano. Invece,
con il processo costituente del comune, con
la costruzione autonoma dell’organizzazione reticolare della cooperazione
sociale, si potrebbe veramente affermare che «ciò che importa, è il comunismo
che si vive nella lotta stessa» (p.77). Peccato che, a quanto pare, questa
lotta non sia per il comunismo, né abbia una finalità né alcuna
progettualità – peccato che ciò che
importa non si possa realizzare perché gli si spezzano le gambe, pensando di
rafforzarlo. Così, rifiutare la
transizione (il comunismo «è interamente transizione: è in cammino» (p.151),
rifiutare l’organizzazione («nessuno organizzerà più l’autonomia degli altri» (p.154), rifiutare le istituzioni – questo rifiuto totale non è quell’atto
gioioso dell’uomo-che-vuole-perire
nietzscheano, ma l’atto vuoto dell’ultimo uomo. Se il discorso non si fosse già
fatto abbastanza metafisico (nel senso più becero del termine), il Comité ci
regala alla penultima pagina un’esplosione di interiorità, trascendentalità (il
comunismo non era immanente?): «la sola verticalità ancora possibile, è quella
della situazione, che s’impone a ciascuna delle sue componenti perché l’eccede,
perché l’insieme delle forze presenti è più di ciascuna di esse» (p.154). Ora,
si comprende al volo come questa verticalità della situazione possa essere
pensata in accordo alla lettura deleuziana di Nietzsche. Ma, ancora una volta,
senza istituzione e senza comunismo, tutto si ridurrebbe a un nulla – volontà di istituzione e volontà
di comunismo contrapposte alla volontà di nulla. Allora, consequenzialmente,
senza voler riesumare da parte nostra inutili e devastanti ideologie della
transizione, sarebbe la condizione nichilistica
l’unica prospettiva concreta antagonista alla società dominata dal capitale?
Detto
diversamente: cosa sarebbe l’esperienza della riappropriazione e la difesa degli
spazi senza l’autorganizzazione? Davvero possiamo immaginare che la prassi
evenemenziale del “gesto destituente” ci porterà, in un crescendo
vertiginoso, ad uno “sciopero irreversibile” come sostiene il Comité invisible?
O si tratta, ancora una volta, di far ripartire (senza eterodirezioni esterne
sovrordinate) la fase ri-compositiva, ri-costruendo il filo dei processi
costitutivi del conflitto sociale, basate sui corpi sì, ma sulla loro
quotidiana condivisione di tempi, spazi e desideri?