mercoledì 4 luglio 2018

recensioni\ PRATICA DESTITUENTE O PROCESSO COSTITUENTE?

-Marco Spagnuolo-

DAL VUOTO DELLA POLITICA ALLA POLITICA DEL VUOTO

Nell’aprile del 2017, pressappoco un anno fa, è comparsa per i tipi de “La fabrique” la terza pubblicazione del Comité invisible: Maintenant. Un libro apparso in un momento cruciale, durante le prime grandi mobilitazioni contro Macron e nel vivo dell’esperienza della ZAD (Zone à defendre). Un saggio che ha condizionato molto sia l’andamento del dibattito interno alle mobilitazioni sia le mobilitazioni stesse


Della morte e della resurrezione: politica zombie
Sembra banale dire che la critica alla leadership e quella alle istituzioni e all’organizzazione siano e debbano continuare ad essere separate. Invece non lo è, almeno per il Comité. Non a caso, come precedentemente in À nos amis, il collettivo ha continuato nella direzione di un’unica ed univoca critica – usando, tra l’altro, tanto la stessa logica quanto lo stesso metodo – nei confronti di una e delle altre. Leggiamo così che «bisogna che noi abbandoniamo l’idea che non vi sia politica se non laddove ci sono visione, programma, progetto e prospettiva, laddove ci sono finalità, decisioni da prendere e problemi da risolvere» perché la politica è una questione di amico/nemico, di schmittiana memoria: «è solo al contatto che si scoprono l’amico e il nemico» (p.63). Questo contatto dove lo dovremmo trovare? Ci indicano subito la strada – nel cortège de tête: «un certo numero di disertori ha creato uno spazio politico in cui comporre la loro eterogeneità, uno spazio certo effimero, certo insufficientemente organizzato, ma raggiungibile e, nel giro di una primavera, realmente esistente» (p.30). Questa sarebbe la terza strada, al di qua della dialettica «fissata» tra potere costituente e potere costituito (sic!), grazie alla quale si può finalmente dire addio all’organizzazione e alla politica (come se la politica fosse un’entità fissa ed esterna che move ‘l sole e tutte l’altre stelle, una sorta di aristotelico motore immobile, che sfiora quasi il teologico-politico). Peccato che proprio la critica alla politica tout court, che passa per la critica al processo costituente e assembleare, si ritorca in una spirale paradossale. In un colpo solo riescono a dire - tutto e il contrario di tutto: l’assemblea “À l’abordage!”, secondo loro, nel 2016 sarebbe riuscita in ciò in cui non è riuscito il cortège de tête – «portare le componenti eterogenee della lotta a incontrarsi e a organizzarsi al di là di una temporalità di movimento» (p.79).
Sostanzialmente, tutto questo criticare i movimenti per la loro temporalità assembleare e i loro processi decisionali, avanzando di contro una temporalità di movimento e una decisionalità spontaneista espresse dall’evento-cortège de tête, si è risolto  nel trovare un limite nell’evento stesso e una svolta proprio nell’organizzazione e nel processo assembleare. Veramente, tutto e il contrario di tutto, un’operazione di sintesi dialettica propriamente hegeliana: la politica viene dichiarata morta, salvo essere riesumata dall’obitorio dell’Evento, per divenire una politica-zombie.

La critica a Negri e Lordon: istituzioni costituenti
Ritornando sul tema delle istituzioni e del potere costituente, Lordon e Negri vengono criticati: l’uno, perché «non può immaginarsi una rivoluzione che non sia una nuova istituzione» (p.69); l’altro, perché sostiene che «parlare del potere costituente è parlare di democrazia» [Il potere costituente, Roma 2002, p.11]. Evidentemente, il Comité avrà chiuso il libro a quella pagina, la prima. Dopo aver tracciato una approfondita genealogia del potere costituente e di tutte le sue ramificazioni, biforcazioni e mutazioni, Negri arriva a scrivere: «il vero realismo politico non consiste nel riconoscersi, e nell’appagarsi, nel carattere decisivo della forza fisica ma al contrario a desiderare come questo dominio sia sempre e instancabilmente dal sabotaggio costituente della moltitudine»[ivi, p.411]. Questo passaggio, che voleva dimostrare come il potere costituente possa effettivamente rompere ogni possibilità di dialettica col potere costituito non trasformandosi in esso, può servire per comprendere il capitolo Destituons le monde di Maintenant. Infatti, non solo rifiuta quella concezione determinista secondo la quale il potere costituente debba necessariamente cristallizzarsi in potere costituito, ma appare come una risposta in anticipo a quanto avanza il Comité. Se tentiamo di concretizzare le pratiche di destituzione, proprio come sono avanzate nel  libro, non riusciremo a non immaginare un circo per feticisti dell’Evento: immaginare è un’operazione potenzialmente rivoluzionaria; immaginare un «gesto» destituente, col quale vomitare il proprio risentimento, potrebbe non esserlo.
A cosa porta, in sostanza, la critica all’istituzione tout court e al  processo costituente? La pratica destituente dove trova il suo compimento? Il cortége de tête insiste, alla fine, su una temporalità effimera e trascendente la vita stessa: come il fumo, quando finisce, si ritorna a capo chino alla quotidianità. E la gioia dell’amore e della condivisione del momento passano. Invece, con il processo costituente del comune, con la costruzione autonoma dell’organizzazione reticolare della cooperazione sociale, si potrebbe veramente affermare che «ciò che importa, è il comunismo che si vive nella lotta stessa» (p.77). Peccato che, a quanto pare, questa lotta non sia per il comunismo, né abbia una finalità né alcuna progettualità  – peccato che ciò che importa non si possa realizzare perché gli si spezzano le gambe, pensando di rafforzarlo. Così,  rifiutare la transizione (il comunismo «è interamente transizione: è in cammino» (p.151), rifiutare l’organizzazione («nessuno organizzerà più l’autonomia degli altri» (p.154), rifiutare le istituzioni – questo rifiuto totale non è quell’atto gioioso dell’uomo-che-vuole-perire nietzscheano, ma l’atto vuoto dell’ultimo uomo. Se il discorso non si fosse già fatto abbastanza metafisico (nel senso più becero del termine), il Comité ci regala alla penultima pagina un’esplosione di interiorità, trascendentalità (il comunismo non era immanente?): «la sola verticalità ancora possibile, è quella della situazione, che s’impone a ciascuna delle sue componenti perché l’eccede, perché l’insieme delle forze presenti è più di ciascuna di esse» (p.154). Ora, si comprende al volo come questa verticalità della situazione possa essere pensata in accordo alla lettura deleuziana di Nietzsche. Ma, ancora una volta, senza istituzione e senza comunismo, tutto si ridurrebbe a un nulla – volontà di istituzione e volontà di comunismo contrapposte alla volontà di nulla. Allora, consequenzialmente, senza voler riesumare da parte nostra inutili e devastanti ideologie della transizione,  sarebbe la condizione nichilistica l’unica prospettiva concreta antagonista alla società dominata dal capitale?
Detto diversamente: cosa sarebbe l’esperienza della riappropriazione e la difesa degli spazi senza l’autorganizzazione? Davvero possiamo immaginare che la prassi evenemenziale del “gesto destituente” ci porterà, in un crescendo vertiginoso, ad uno “sciopero irreversibile” come sostiene il Comité invisible? O si tratta, ancora una volta, di far ripartire (senza eterodirezioni esterne sovrordinate) la fase ri-compositiva, ri-costruendo il filo dei processi costitutivi del conflitto sociale, basate sui corpi sì, ma sulla loro quotidiana condivisione di tempi, spazi e desideri?