-francesco
raparelli/tiziano trobia-
/E perché non dovrebbe, visto che il lavoro costa meno e non ha protezioni?
O’ miracolo, o’
miracolo! Non c’è che dire,
anche questa volta Renzi, Poletti, Del Conte, Nannicini e Gentiloni ce l’hanno
fatta. I dati sull’occupazione pubblicati lo scorso martedì 9 gennaio
dall’ISTAT lo confermano: l’Italia è fuori dal guado, lavorano tutti, ma
proprio tutti. O quasi. «Si tratta del dato migliore degli ultimi quarant’anni»
(nell’annus horribilis 1977 l’ISTAT ha cominciato a ricostruire le
serie storiche trimestrali e la media annua): twittano entusiasti i membri
dell’esecutivo-senza-sosta Gentiloni. «Il Jobs Act ha
funzionato», insiste Renzi, cercando di intestarsi i 23,1 milioni di occupati
fotografati a novembre scorso. Bene, bravi, (Gentiloni) bis. Così la parola
d’ordine mediatica (e padronale).
Nell’epoca del “lavoro a
tutti i costi”, in effetti, questi dati sembrano essere più che sufficienti per
accendere l’entusiasmo e solleticare la libido popolare. Se lo sguardo si
sposta sulle tipologie contrattuali, però, d’improvviso il cielo s’annuvola
nuovamente.
Il 90% dei nuovi
occupati, infatti, ha sottoscritto un contratto a termine: 9 lavoratori su 10,
cioè, sono entrati nel mercato del lavoro attraverso un’occupazione temporanea.
Non è dato sapere la durata media di questi lavori (o lavoretti), per il
conteggio basta anche un’ora, ma una cosa è certa: il Jobs Act avrebbe
dovuto rimettere al centro – questo secondo le retoriche di Renzi-Poletti – il
contratto a tempo indeterminato; risultati ruvidi, invece, sono stati
l’esplosione dei voucher e dei contratti a tempo determinato.
La vera riforma del lavoro, a guardar bene, è stata il Decreto Poletti,
approvato nella primavera del 2014. Prima del “fuoriclasse” di Legacoop, in
arte Poletti, l’attivazione di un contratto di lavoro a tempo determinato
richiedeva la giustificazione della natura temporanea del rapporto, ovvero la
definizione congiunturale (e non strutturale) delle esigenze produttive. Poi è
arrivato Poletti, e, in nome e per conto di Confindustria, ha eliminato dal
contratto la famosa «causale». Come dire: l’impresa assume precariamente perché
sono cazzi suoi, e basta. Se prima il contenzioso poteva mettere un freno agli
abusi, con Poletti l’abuso è stato legalizzato.
Cosa ripete il mantra
ordoliberale? Governare per il mercato. Non c’è che dire, il
PD in questi anni è stato zelante. Difficile essere più espliciti, e
orgogliosi, di Renzi. Qualche giorno fa, rispondendo alla provocazione di
Berlusconi che annunciava l’abolizione del Jobs Act in caso di
vittoria alle elezioni, il rottamatore ha risposto: «chiedesse agli
imprenditori del Nord-Est cosa ne pensano dell’abolizione». E in effetti
Berlusconi, che sondaggio dopo sondaggio cambia rotta, già ha fatto
retromarcia. La natura del Jobs Act è dunque nitida: una
riforma padronale, come tale rivendicata dai suoi ideatori; immaginata e
scritta per spostare ricchezza dalle tasche di tutti alle tasche di pochi,
sempre gli stessi. Non casualmente finanziata, tra l’altro, con 18 miliardi di
sgravi contributivi a sostegno delle imprese.
Non si capisce dunque il
motivo dello stupore, dell’eccitazione. Sì, l’occupazione riprende a crescere.
Ma la domanda più giusta è: e perché non dovrebbe, visto che il lavoro costa
meno e non ha tutele? Das Kapital ha (in parte) mollato il
rapporto con il lavoro, almeno nel Nord del mondo, decentrando nell’Est Asia,
per un verso, e ingrossando senza posa le bolle finanziarie (dalla Net
Economy al mattone). Ora, dopo un decennio di crisi, dopo aver
riscritto le regole del mercato, dopo aver scatenato la violenza del denaro e
del debito (privato quanto pubblico), dopo aver svalutato ovunque il lavoro
vivo, il Capitale ha ristabilito «la giusta proporzione tra
lavoro necessario e pluslavoro» (dai Grundrisse: questa la nozione
marxiana di crisi da utilizzare per afferrare il presente!). Il lavoro costa
poco, pochissimo, a volte è addirittura gratis. Sì, ora le corporation possono
ricominciare a sfruttare. Con la complicità di buona parte dei sindacati;
segnati da una torsione neoliberale assai dura, radicale quanto quella che in
questi anni ha trasformato lo Stato e il welfare. Favorite, poi,
dalle politiche fiscali regressive (paga meno chi ha di più), già dispiegate
negli USA di Trump e in arrivo anche in Italia.
Se lo sguardo analitico
si sofferma sulle tipologie di lavoro, i numeri dell’ISTAT ci parlano in modo
ancora più chiaro: l’aumento dell’occupazione, soprattutto a termine, è più
incisivo nei servizi «a basso valore aggiunto» (ristorazione, turismo, ecc.),
definiti anche labour intensive. Da notare, tra l’altro, che la
variazione si inserisce all’interno di una dinamica decennale di spostamento
occupazionale dall’industria ai servizi. Le definizioni, però, non devono
confondere. Se osserviamo con attenzione, verifichiamo che non si tratta solo
di lavori scarsamente qualificati (quelli che più sono aumentati a partire dal
2014). Molto spesso, e così è se prendiamo a riferimento (comparativo) i dati
del 2010, crescono (per numero di ore lavorate) servizi che impiegano lavoro
qualificato, relazionale, di cura (Istruzione, con +29,3%; Sanità e assistenza
sociale, con +25,1%). Lavoro decisivo per la riproduzione sociale, vittima
della riorganizzazione in senso neoliberale del welfare, tra outsourcing,
appalti, privatizzazioni e cooperative. Il caso della Sanità, da questo punto
di vista, è emblematico: esternalizzando il lavoro, le retribuzioni si
abbassano vertiginosamente, così come le tutele.
I numeri, dunque, sono
fin troppo chiari. Quando, con le lavoratrici e i lavoratori che incontriamo e
nelle campagne di cui siamo parte, affermiamo che non ci sono motivi per essere
grati, che c’è lavoro e lavoro, e che la battaglia
fondamentale è ristabilire le condizioni minime per tornare a dire ‘No’, di
questo stiamo parlando: imprese e cooperative che danno lavoro, oggi, lo fanno
nelle condizioni ottimali per badare ai propri profitti, per farli lievitare a
dismisura, potendo scaricare i lavoratori quando più conviene.
Occorre rovesciare i
rapporti di forza. In primo luogo sul terreno sociale, del rapporto di lavoro,
dello sfruttamento. Non ci sono scorciatoie, non c’è «grande politica» che
tenga. Sarà un processo lungo, carico di difficoltà, ma è ciò che serve. Oggi
più che mai. Occorre continuare a organizzarsi, a organizzare e a sostenere
proprio le figure prevalenti del lavoro di servizio, sottopagate e senza
garanzie; quelle vite dimenticate dalle grandi centrali sindacali; coloro che
sembrano non organizzabili, per lo più costretti ad affrontare, in solitudine e
privi di strumenti adeguati, quest’offensiva senza precedenti. Occorre anche
rivendicare un welfare universale (Reddito di Base) e creare
le condizioni (sociali) per tornare a far male ai padroni. E bisogna
raccontare, parola per parola, numero dopo numero, la truffa delle statistiche.
Altrimenti i partiti della «responsabilità» continueranno a chiedere sempre e
solo agli imprenditori del Nord-Est (ammesso che qualcuno parli con i
«piccoli», che dalla crisi non sono mai usciti) cosa ne pensano delle loro
riforme: è il momento di presentare il conto.