martedì 17 ottobre 2017

recensioni/ ECOLOGIA DEL DIRITTO

-gilberto pierazzuoli-

SCIENZA POLITICA BENI COMUNI -«Istituti quali la proprietà privata individuale, le società per azioni e gli stati sovrani, nonché la libertà contrattuale in generale e la responsabilità per colpa, furono creati per trasformare alcuni beni comuni in concentrazioni di capitale»

[Fritjof Capra/Ugo Mattei, Ecologia del diritto. Scienza, politica, beni comuni, Aboca, Arezzo-2017, pp. 254]

[…] Gli autori affrontano la problematica di una documentazione storica delle trasformazioni ideologiche che hanno portato ad abbracciare una chiave di lettura della realtà di tipo meccanicistico a partire prima dalla scienza per la quale con Galileo Galilei si è privilegiata la quantificazione spesso a scapito di elementi qualitativi; con Cartesio una visione del mondo materiale funzionante in modo simile ad una macchina per di più esterna alla mente – con il diritto che diviene una infrastruttura “oggettiva” separata dall’individuo – sino alla visione atomistica messa in campo da Locke. E se sovranità dello stato e proprietà privata individuale furono i pilastri della modernità giuridica il merito andrebbe di nuovo a Locke questa volta in compagnia di Hobbes, in una operazione parallela  che accompagna, portando a compimento, una delle principali fasi di accumulo del capitale. Intorno ai secoli XVI e XVII si attua così la piena convergenza tra scienza, diritto e economia intorno appunto ad alcuni concetti di cui abbiamo appena parlato. Siamo di fronte a un mondo caratterizzato da abbondanti risorse comuni come foreste o risorse ittiche, alle quali fanno riscontro altrettante istituzioni comunitarie quali, per esempio, le gilde professionali. «Istituti quali la proprietà privata individuale, le società per azioni e gli stati sovrani, nonché la libertà contrattuale in generale e la responsabilità per colpa, furono creati per trasformare alcuni beni comuni in concentrazioni di capitale. […] Il diritto è divenuto uno strumento del dominio dell’uomo sulla natura» (p. 31). Il meccanismo sotteso a tutta questa serie di operazioni era connesso ad una lettura per la quale le altre creature sarebbero vissute in uno “stato di Natura”, cosa che non competeva agli umani che non facevano parte della stessa categoria.
È in questo contesto che si afferma il concetto della libertà di mercato che si articola con la costituzione dello stato che funziona come elemento regolatore in una equazione a somma zero tra i due fattori. Questa contingenza è, addirittura, ritenuta una legge di natura. Da ora in poi la visione economica sarà una visione distorta, di breve termine, lineare, riduzionistica e quantitativa. L’idea stessa di sviluppo è di tipo quantitativo e fa riferimento al concetto di “miglioramento” che risale anch’esso al XVII secolo. Stato e mercato sono elementi derivati del diritto creato dagli uomini (la specie umana), ma appaiono come elementi naturali.
Negli ultimi trentanni, in ambito scientifico, si è cominciato a imporre un paradigma completamente diverso di tipo olistico e relazionale. Il mondo non si interpreta né si rappresenta come una macchina bensì come una rete. In questo ambito la comprensione della vita avviene tramite relazioni e modelli: occorre pensare per sistemi, occorre un approccio di tipo sistemico attraverso i quali la vita è sostenuta attraverso processi di tipo generativo e non estrattivo. L’intero pianeta è un sistema complesso in grado però di autoregolarsi e di comportarsi di fatto come un essere vivente. Il meccanicismo applicato all’evoluzione ci aveva restituito una natura in perenne lotta competitiva per l’esistenza, nascondendo così quegli elementi dimostratisi trainanti, quali la creatività e il costante emergere della novità.
Anche se il pensiero sistemico è in questo momento la punta più avanzata della ricerca scientifica, l’ambito economico giuridico è invece solidamente ancorato al pensiero meccanicistico che ci restituisce una visione della realtà a corto raggio «incentrata sull’individuo, proprietario astratto e atomizzato. Questo “atomo” può godere del diritto individuale di proprietà della Terra, estraendo valore dai beni comuni a scapito degli altri» (p. 37). Il diritto non è un corpo avulso e preesistente dai comportamenti che esso regola, il diritto dovrebbe essere sempre un processo di “commoning”. Gli elementi costitutivi del diritto saranno allora i beni comuni all’interno di una rete relazionale e non i singoli individui. Se la scienza di avanguardia ha ormai abbracciato un modo di pensare sistemico, il modo di pensare “meccanico” è ancora, nel pensiero comune, il modo giusto di pensare, dimenticandosi che la scienza tutta, opera per modelli cambiandoli e adeguandoli, costruendoli cioè intorno a ipotesi interpretative dei fenomeni, spesso pensando che detti fenomeni si manifestino in termini puri e non comunicanti. In realtà tutti i fenomeni naturali sono interconnessi e le loro proprietà non sono loro intrinseche, ma derivano dal rapporto dei singoli fenomeni con gli altri. Anche parlare di singolo fenomeno sarebbe in definitiva una astrazione.
 […] Cosa si dovrebbe fare? I nostri autori cercano e propongono delle risposte: «separare il diritto dal potere e dalla violenza, far diventare le comunità sovrane e rendere la proprietà generativa» (p. 167). Il diritto dovrebbe essere, per esempio, considerato un processo continuamente negoziato di creazione di connessioni culturali. Fare poi resistenza con il boicottaggio e l’elaborazione di nuove dottrine della responsabilità. Lottare contro la proprietà intellettuale. Recupero dei beni in degrado anche tramite strutture giuridiche quali i community land trust: «Il diritto di proprietà può essere strutturato in maniera tale per cui i proprietari assenteisti perdano i propri diritti a favore di occupanti che coltivino attivamente la terra» (p. 176). Invertire certi assunti dichiarando che lo stato è una istituzione legittima nella misura per la quale è in grado di proteggere la comunità dall’uso estrattivo della proprietà privata. La comunità dovrebbe essere sovrana ed essa potrà riconoscere anche la proprietà privata purché essa sia di tipo generativo come il permettere l’uso individuale di una abitazione a persone a basso reddito.
È in gioco di nuovo un dispositivo del consenso basato su crescita, innovazione, modernizzazione e, non ultimo, se non correlato, che la ricchezza è misurabile soltanto attraverso il denaro. Per questo si accetta di lavorare “sodo” e vendere il proprio tempo per ottenere un salario con il quale partecipare ai processi di accumulo e di consumo. «Secondo tale concezione, per esempio, il lavoro domestico di cura dei bambini e degli anziani o la produzione del proprio cibo, la realizzazione artigianale dell’abbigliamento o la costruzione del proprio tetto non contano come produzione, non creano ricchezza né contribuiscono al prodotto interno lordo, poiché si verificano al di fuori di una transazione di mercato» (p. 212). Tradotto in altri termini si ha che anche il lavoro di riproduzione fa parte dell’appropriazione capitalistica la cui eventuale carenza (di detto lavoro), derivata dallo smantellamento di beni comuni quali gli elementi di relazione e solidarietà comunitaria, diventa un’occasione in più per il capitale per poterlo mettere sul mercato come servizio dal quale riuscire ad estrarre ancora profitto.
La natura si è evoluta secondo principi volti a sostenere la rete della vita ed erano queste le leggi di natura. Tali principi, formulati oggi in termini di modelli e processi sono «altrettanto rigorosi quanto le newtoniane leggi di gravità» (p. 220). Il diritto derivato da questo cambio di paradigma potrà allora, per esempio, mettere in discussione la stipula di alcune tipologie di contratti «quali molti degli attuali accordi di project financing […] [che] saranno considerati illegali e dichiarati privi di forza esecutiva dai tribunali» (p. 231).

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