-gilberto pierazzuoli-
SCIENZA POLITICA BENI COMUNI -«Istituti
quali la proprietà privata individuale, le società per azioni e gli stati
sovrani, nonché la libertà contrattuale in generale e la responsabilità per
colpa, furono creati per trasformare alcuni beni comuni in concentrazioni di
capitale»
[Fritjof Capra/Ugo Mattei, Ecologia del diritto.
Scienza, politica, beni comuni, Aboca, Arezzo-2017, pp. 254]
[…]
Gli autori affrontano la problematica di una documentazione storica delle
trasformazioni ideologiche che hanno portato ad abbracciare una chiave di
lettura della realtà di tipo meccanicistico a partire prima dalla scienza per
la quale con Galileo Galilei si è privilegiata la quantificazione spesso a scapito di elementi qualitativi; con
Cartesio una visione del mondo materiale funzionante in modo simile ad una
macchina per di più esterna alla mente – con il diritto che diviene una infrastruttura
“oggettiva” separata dall’individuo – sino alla visione atomistica messa in
campo da Locke. E se sovranità dello stato e proprietà privata individuale
furono i pilastri della modernità giuridica il merito andrebbe di nuovo a Locke
questa volta in compagnia di Hobbes, in una operazione parallela che
accompagna, portando a compimento, una delle principali fasi di accumulo del
capitale. Intorno ai secoli XVI e XVII si attua così la piena convergenza tra
scienza, diritto e economia intorno appunto ad alcuni concetti di cui abbiamo
appena parlato. Siamo di fronte a un mondo caratterizzato da abbondanti risorse
comuni come foreste o risorse ittiche, alle quali fanno riscontro altrettante
istituzioni comunitarie quali, per esempio, le gilde professionali. «Istituti quali la proprietà privata
individuale, le società per azioni e gli stati sovrani, nonché la libertà
contrattuale in generale e la responsabilità per colpa, furono creati per
trasformare alcuni beni comuni in concentrazioni di capitale. […] Il diritto
è divenuto uno strumento del dominio dell’uomo sulla natura» (p. 31). Il
meccanismo sotteso a tutta questa serie di operazioni era connesso ad una
lettura per la quale le altre creature sarebbero vissute in uno “stato di Natura”, cosa che non competeva
agli umani che non facevano parte della stessa categoria.
È
in questo contesto che si afferma il concetto della libertà di mercato che si articola con la costituzione dello
stato che funziona come elemento regolatore in una equazione a somma zero tra i
due fattori. Questa contingenza è,
addirittura, ritenuta una legge di natura. Da ora in poi la visione
economica sarà una visione distorta, di breve termine, lineare, riduzionistica
e quantitativa. L’idea stessa di sviluppo è di tipo quantitativo e fa riferimento
al concetto di “miglioramento” che risale anch’esso al XVII secolo. Stato e mercato sono elementi derivati del
diritto creato dagli uomini (la specie umana), ma appaiono come elementi
naturali.
Negli
ultimi trentanni, in ambito scientifico, si è cominciato a imporre un paradigma
completamente diverso di tipo olistico e relazionale. Il mondo non si
interpreta né si rappresenta come una macchina bensì come una rete. In
questo ambito la comprensione della vita avviene tramite relazioni e modelli:
occorre pensare per sistemi, occorre un approccio di tipo sistemico attraverso
i quali la vita è sostenuta attraverso processi di tipo generativo e non estrattivo. L’intero pianeta è
un sistema complesso in grado però di autoregolarsi e di comportarsi di fatto
come un essere vivente. Il meccanicismo applicato all’evoluzione ci aveva
restituito una natura in perenne lotta competitiva per l’esistenza, nascondendo
così quegli elementi dimostratisi trainanti, quali la creatività e il costante emergere della novità.
Anche
se il pensiero sistemico è in questo momento la punta più avanzata della
ricerca scientifica, l’ambito economico giuridico è invece solidamente ancorato
al pensiero meccanicistico che ci restituisce una visione della realtà a corto
raggio «incentrata sull’individuo, proprietario astratto e atomizzato. Questo
“atomo” può godere del diritto individuale di proprietà della Terra, estraendo
valore dai beni comuni a scapito degli altri» (p. 37). Il diritto non è un
corpo avulso e preesistente dai comportamenti che esso regola, il diritto dovrebbe essere sempre un processo
di “commoning”. Gli
elementi costitutivi del diritto saranno allora i beni comuni all’interno di
una rete relazionale e non i singoli individui. Se la scienza di avanguardia ha
ormai abbracciato un modo di pensare sistemico, il modo di pensare “meccanico”
è ancora, nel pensiero comune, il modo giusto di pensare, dimenticandosi che la
scienza tutta, opera per modelli cambiandoli e adeguandoli, costruendoli cioè
intorno a ipotesi interpretative dei fenomeni, spesso pensando che detti
fenomeni si manifestino in termini puri e non comunicanti. In realtà tutti i
fenomeni naturali sono interconnessi e le loro proprietà non sono loro
intrinseche, ma derivano dal rapporto dei singoli fenomeni con gli altri. Anche parlare di singolo fenomeno sarebbe in
definitiva una astrazione.
[…] Cosa si dovrebbe fare? I nostri autori
cercano e propongono delle risposte: «separare
il diritto dal potere e dalla violenza, far diventare le comunità
sovrane e rendere la proprietà generativa» (p. 167). Il diritto dovrebbe
essere, per esempio, considerato un processo continuamente negoziato di
creazione di connessioni culturali. Fare poi resistenza con il boicottaggio e
l’elaborazione di nuove dottrine della responsabilità. Lottare contro la proprietà intellettuale. Recupero dei beni in degrado anche
tramite strutture giuridiche quali i community land trust: «Il diritto di proprietà può essere
strutturato in maniera tale per
cui i proprietari assenteisti perdano i propri diritti a favore di occupanti
che coltivino attivamente la terra» (p. 176). Invertire certi assunti
dichiarando che lo stato è una istituzione legittima nella misura per la quale
è in grado di proteggere la comunità dall’uso estrattivo della proprietà
privata. La comunità dovrebbe essere sovrana ed essa potrà riconoscere anche la
proprietà privata purché essa sia di tipo generativo come il permettere l’uso individuale di una abitazione a
persone a basso reddito.
È
in gioco di nuovo un dispositivo del consenso basato su crescita, innovazione,
modernizzazione e, non ultimo, se non correlato, che la ricchezza è misurabile
soltanto attraverso il denaro. Per questo si accetta di lavorare “sodo” e
vendere il proprio tempo per ottenere un salario con il quale partecipare ai
processi di accumulo e di consumo. «Secondo tale concezione, per esempio, il
lavoro domestico di cura dei bambini e degli anziani o la produzione del
proprio cibo, la realizzazione artigianale dell’abbigliamento o la costruzione
del proprio tetto non contano come produzione, non creano ricchezza né
contribuiscono al prodotto interno lordo, poiché si verificano al di fuori di
una transazione di mercato» (p. 212). Tradotto in altri termini si ha che
anche il lavoro di riproduzione fa
parte dell’appropriazione capitalistica la cui eventuale carenza
(di detto lavoro), derivata dallo smantellamento di beni comuni quali gli
elementi di relazione e solidarietà comunitaria, diventa un’occasione in più per il capitale per
poterlo mettere sul mercato come servizio dal quale riuscire ad estrarre ancora
profitto.
La
natura si è evoluta secondo principi volti a sostenere la rete della vita ed
erano queste le leggi di natura. Tali principi, formulati oggi in termini di modelli e processi sono
«altrettanto rigorosi quanto le newtoniane leggi di gravità» (p. 220).
Il diritto derivato da questo cambio di paradigma potrà allora, per esempio,
mettere in discussione la stipula di alcune tipologie di contratti «quali molti
degli attuali accordi di project financing […] [che] saranno considerati
illegali e dichiarati privi di forza esecutiva dai tribunali» (p. 231).
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