venerdì 15 settembre 2017

abstract/ LA QUESTIONE LENIN IN ITALIA ANNI ‘70

-TONI NEGRI-

il «problema Lenin» richiama la questione insoluta dell’organizzazione aperta negli anni ’70
/oggi è nuovamente davanti a noi ma riguarda la ricerca di nuove soluzione senza inutili scorciatoie 
/il richiamo a Lenin non significa nostalgia o feticismo organizzativo 

Fratello,
siamo qui,
per darti il cambio,
noi vinceremo,
ma da un altro
lato

Majakowskij, Lenin


(…) Il ‘68 italiano era stato caratterizzato dalla confluenza del movimento studentesco e dei movimenti sociali nelle lotte degli operai industriali che, con lotte “spontanee’’ (sostenute cioè da una forte organizzazione interna alla fabbrica e indipendente dai sindacati), provavano a liberarsi dal giogo della regolazione economica capitalista. Le lotte portavano su rivalutazioni salariali, sulla diminuzione del tempo di lavoro e proponevano, in maniera generale, il tema della nocività del lavoro, contestavano la gerarchia e la divisione del lavoro in fabbrica. Alla pressione delle lotte di massa si aggiungevano comportamenti d’attacco, in genere legittimati dal movimento: forte assenteismo, fenomeni di sabotaggio, insubordinazione costante alla disciplina di fabbrica… Nelle aziende dove i tecnici prevalevano, si organizzavano esperienze operaie alternative nell’organizzazione del lavoro; nelle fabbriche chimiche era aperta l’indagine sulla condizioni ecologiche del produrre e le merci prodotte erano sottoposte alla prova scientifica di nocività. Ai movimenti di fabbrica si sono aggiunti i movimenti degli studenti di contestazione della scuola e del comando capitalista sul potere. Ed i movimenti sociali che hanno conosciuto un’amplissima gamma fra la ricerca di forme di controllo della governance delle istituzioni (scuola, ospedali ecc.) e, d’altra parte, azioni di “illegalità di massa’’ contro gli affitti, le tariffe dei servizi, fino a diffusi fenomeni di diretta appropriazione di merci e loisirs. Per tutto il «lungo ’68 italiano» ( che dura infatti un decennio) porre ordine e dare direzione a questi movimenti, costruire e collegare istanze di contro-potere sociale, furono allora i compiti che le organizzazioni si proposero. È in questo quadro che si può comprendere la centralità del tema «organizzazione» – quindi del tema «Lenin». In Italia, in quegli anni, non si può pensare organizzazione fuori da questo riferimento, non c’è alternativa né consigliare né comunitarista né altro che possa porsi credibilmente – vale solo l’approfondimento e l’adattamento del tema leninista, machiavelliano. Che conduce quindi a pensare l’organizzazione non più solo come fabbrica ma ormai come «impresa sociale». E l’insurrezione non più solo come «arte» ma come l’agire – massificato e istituzionalizzato – di un movimento che, di per sé, si configura come «doppio potere»…

(…) A parte la rozza riduzione del tema dell’avanguardia, e della sua articolazione interna al movimento di massa, alla semplice avanguardia armata (tema che negli anni ’70 non è stato irrilevante), il richiamo alla tematica leninista da parte operaista cercava altre vie di fuga – che eventualmente integrassero la variante armata ma che non venissero ad essa subordinate. Questa via di sviluppo è stata man mano identificata nella maturazione degli strumenti assembleari di decisione della lotta, degli obiettivi di questa e della loro propaganda sociale. Occorre fare attenzione a questo passaggio e non sottovalutarlo. La presa di parola assembleare e i processi di decisione assembleare, allora proposti e sperimentati, anticipano infatti, e prefigurano, proposte ed esperienze organizzative rese poi possibili dalle tecnologie della comunicazione. La partecipazione è considerata elemento costitutivo della democrazia operaia nel corso del processo insurrezionale. L’avanguardia sta nella comunicazione e presto, con un improvviso impulso inventivo, saranno le Radio Libere, nella loro grande diffusione e nell’efficacia del loro lavoro, a riprendere questo incentivo assembleare.
Qui si apre un nuovo problema. Il tema assemblearista sarà infatti del tutto insufficiente a risolvere la crisi che si apre dopo il 1973. Ricordiamolo: è la prima crisi del petrolio ed essa segnala, dopo la decisione del governo americano (nel 1971) di sganciare il dollaro dall’oro, prima grande iniziativa neoliberale. È il momento della Trilaterale e della sua decisione – presa a livello globale – di finirla con i sommovimenti sociali e politici seguiti al ’68. Ora, a fronte dell’offensiva neoliberale, si sfasciano le residue reminiscenze leniniste nel discorso operaista. Se Lenin, come l’avevamo letto tra gli anni ’60 e i primi ’70, era servito a risolvere il rapporto tra molteplicità dei movimenti ed unità dell’obiettivo che ogni processo rivoluzionario proletario deve sapere gestire ; e se il tema dell‘unità-molteplicità era stato risolto a partire dall’inchiesta (e dalla scoperta della nuova composizione sociale del lavoro, quella dell’operaio-massa, riconducendo all’interno della classe il punto di unità), dopo il 1973 il contrattacco capitalista investe la classe operaia come tale. L’inchiesta, in questa fase, non rivela più la centralità della fabbrica, ma la sua dissoluzione, la diffusione sociale della produzione, il frammentarsi della divisione sociale del lavoro e l’emergere di nuovi settori trainanti. Il discorso leninista perde la sua pregnanza unificatrice perché perde qui il riferimento ad una unità, realmente impiantata nella lotta di classe. Di contro, questa operazione capitalista determina, in antagonismo alla spinta rivoluzionaria, un grande incentivo allo sviluppo delle forze riformiste ed opportuniste. Che cosa è più possibile recuperare del leninismo a questo punto?

Ci sono due linee che negli anni ’70 si susseguono dinnanzi a questo problema, entrambe costruite dall’«inchiesta operaia» e connesse alle modificazioni del modo di produrre. In primo luogo, se risulta sempre più difficile ricomporre la composizione tecnica dell’operaio-massa (attaccata e parzialmente distrutta dalla risposta neoliberale) in un’eventuale nuova figura politica, omogena ed unitaria, esistono larghi spazi, friches diffuse che il nuovo sistema produttivo e politico non riesce ancora a controllare e che diventano, in questo momento, i territori sui quali l’autonomia crea, in forma diffusa, momenti organizzativi, capacità di rottura della macchina capitalista della riproduzione sociale. Nelle metropoli e nelle zone extraurbane, dove l’industria si diffonde in piccole unità territoriali, si estende allora una nuova organizzazione operaia. È il momento dell’operaio sociale.
La distruzione capitalista della «grande industria» attraverso l’esternalizzazione produttiva e la costruzione di distretti delocalizzati viene inseguita dalle organizzazioni autonome che creano cosi nei territori luoghi di incontro e di mobilitazione. È interessante questo processo di organizzazione che intercetta la flessibilizzazione della forza-lavoro sui territori e sviluppa forma di lotta adeguate: comunicazione delle lotte di fabbrica in fabbrica, organizzazione della mobilità sui territori con cortei in movimento, blocchi dei trasporti, ecc. Sono lotte che ricordano quelle dei IWW e che si ripetono in fasi di trasformazione della composizione tecnica della classe operaia. In questo caso si stava appunto andando oltre la «grande fabbrica» e l’operaio massa che la abitava.

Vi è ancora leninismo a questo punto? Certo, le caratteristiche classiche del leninismo come forma moderna, machiavelliana di un’organizzazione politica sono venute meno. Ma vi è un’altra dimensione leninista, profondamente marxiana, che qui resta ed anzi è esaltata: è l’esigenza, l’urgenza di impiantare il progetto organizzativo, la forma della lotta nella realtà produttiva e di riconoscerla nella sua qualità sociale. Il punto di vista leninista, se non lo vogliamo chiudere dentro lo sfilacciamento dell’esperienza sovietica o in un feticcio dogmatico, nel suo nucleo fondamentale è sempre stato quello di collegare strettamente produttività del lavoro e organizzazione politica. È solo il lavoro vivo al più alto livello di produttività che può determinare forza rivoluzionaria: questo è l’aspetto centrale del leninismo che in questa fase, dopo il ’73, viene ripreso dai movimenti dell’autonomia nel mezzo della disgregazione delle forze politiche. I movimenti intuiscono il farsi sociale della produttività, in maniera progressivamente egemone, come potenza del nuovo modo di produrre. Come combinare quest’intuizione e la definizione dell’«operaio sociale» con lo slogan sempre attuale del «rifiuto del lavoro»? Molti di noi ricordano il motto marxiano dei Grundrisse: «la capacità di gioire trova la sua condizione, il suo primo mezzo nella forza produttiva; il potenziale di gioire ne è il prodotto», e lo proiettavano nel farsi sociale del lavoro e nella più alta produttività che esso cosi esprimeva – riconoscendo in questo passaggio, in quello reale, un incremento della potenza produttiva, in una larga cooperazione lavorativa e fuori dalla miseria della fabbrica. Questo era ancora e sempre di più rifiuto del lavoro salariato. Fuori dalla miseria della fabbrica e fuori da ogni illusione che il comunismo possa essere raggiunto attraverso il «culto del popolo», il lavoro organizzato secondo la tradizione nelle aree rurali – e questa rivendicazione produttiva significava, nella contemporaneità, demistificare ed attaccare ogni illusione «nazional-popolare», qual era quella nutrita dal PCI. Il nesso produttività del lavoro/distruzione del lavoro salariato non conosce alternativa – esalta il lavoro solo nella misura in cui lo nega nella forma del salario, esalta la produttività quand’essa liberi l’uomo dalla miseria del comando. 



il testo originale è stato pubblicato sul n. 62 di Actuel Marx dedicato a Lenin
per la lettura integrale si rinvia a Euronomade