-GIORGOS KALLIS-
ecologia vs. modernità: imperativi e
immaginazione/
semi della transizione per il governo
della decrescita/
un approfondimento
dell'economista-ecologico sul pensiero della decrescita/
la voce di spicco della “via catalana” alla decrescita, apre una serie di interventi* sul tema latouchiano
Sia il nome che la teoria della decrescita mirano esplicitamente a ri-politicizzare l’ambientalismo. Lo sviluppo sostenibile, così come la sua più recente reincarnazione – la “crescita verde” –, de-politicizzano gli autentici antagonismi politici tra visioni alternative del futuro. Trasformano i problemi ambientali in questioni tecniche, promettendo soluzioni vantaggiose per tutti [win-win] e l’orizzonte impossibile di perpetuare la crescita economica senza danneggiare l’ambiente. Ecologizzare la società, per la decrescita, non significa implementare uno sviluppo alternativo, migliore, più verde. Significa immaginare e mettere in pratica visioni alternative allo sviluppo moderno basato sulla crescita. Questo saggio esplora queste alternative e identifica alcune pratiche dal basso e cambiamenti politici volti a facilitare la transizione a un mondo prospero e giusto senza crescita.
Ecologia vs. Modernità
Il conflitto tra ambiente e crescita è onnipresente.
Per i sostenitori dello “sviluppo” il valore della crescita non deve essere
messo in discussione: più miniere, trivelle, costruzioni e manifatture sono
necessarie per espandere l’economia. Al contrario, ambientalisti radicali e
comunità locali sono coloro che, spesso in solitudine, rifiutano
l’inevitabilità di “un futuro unico composto soltanto dalla crescita”[1]. Il filosofo Bruno Latour vede in questa
opposizione ai modelli di sviluppo un fondamentale rigetto della separazione
moderna tra mezzi e fini[2]. Gli ambientalisti radicali riconoscono
che l’ecologia, concentrata com’è sulle connessioni degli umani tra loro e con
il mondo non-umano, è intrinsecamente in contraddizione rispetto alla crescita
che separa e conquista.
L’emergere del discorso mainstream sullo
sviluppo sostenibile ha in effetti cancellato la promessa di radicalità
dell’ecologia. La nozione di sostenibilità che fu discussa al Summit della
Terra nel 1992 neutralizzò e de-politicizzò il conflitto tra crescita e
ambiente. Da allora, le negoziazioni tra governi, multinazionali e
ambientalisti “pragmatici” hanno dato per scontato che nuovi mercati e nuove
tecnologie potessero integrare crescita economica e protezione dei sistemi
naturali. La maggior parte dei problemi ambientali è stata relegata nel regno
dei miglioramenti tecnici – dove regnano esperti ed élites politiche.
Dieci anni fa la formulazione provocatoria della
“decrescita” – un cosiddetto “concetto-missile” – fu creata per contrastare
questa de-politicizzazione dell’ambientalismo e per attaccare ciò che Latouche
ha definito l’ossimoro dello sviluppo sostenibile[3]. L’uso di una parola negativa per
connotare un progetto positivo fu intenzionale: sovvertendo la desiderabilità
della crescita, la decrescita intendeva indicare e disarticolare l’ideologia
che si deve affrontare per transitare verso un mondo realmente sostenibile:
l’ideologia della crescita. I teorici della decrescita propongono “un’uscita
dall’economia”, invitano cioè ad abbandonare il pensiero economicistico e
costruire alternative praticabili al capitalismo. Tuttavia, proporre modelli
economici alternativi non è sufficiente. Occorre anche mettere in discussione
l’esistenza di una sfera autonoma chiamata “economia”. Il “libero mercato” non
è un processo naturale; è stato costruito attraverso interventi governamentali
deliberati. La ri-politicizzazione dell’economia – cioè il suo ritorno sotto
controllo democratico – richiederà un cambiamento istituzionale che solo un
conflitto profondo potrà ottenere.
Immaginare la decrescita
La decrescita non offre ricette preconfezionate per
rimpiazzare l’attuale mercato “libero” basato sulla crescita. L’obiettivo è
piuttosto quello di aprire uno spazio concettuale per immaginare e mettere in
pratica futuri alternativi che condividono la necessità di ridimensionare le
economie affluenti e i loro flussi materiali in maniera giusta ed equa. La
riduzione di questi flussi produrrà probabilmente una contrazione del PIL per
come è oggi misurato. Ciò non significa che decrescita e sia sinonimo di
recessione o depressione, cioè i termini che utilizziamo per riferirci alla
crescita negativa all’interno di un’economia centrata sulla crescita. Al
contrario, la decrescita richiede un ripensamento dell’organizzazione della
società lungo tre assi: limiti, cura e dispendio [dépense][4].
Le proposte della decrescita in genere incorporano
limiti collettivi, come per esempio un tetto alle emissioni di anidride
carbonica pari a quello delle riserve obbligatorie bancarie. Tali limiti vanno
intesi come “auto-limitazioni”, cioè decisioni collettive di astensione dal
perseguire la totalità di ciò che può essere perseguito. Inoltre, solo sistemi
sociali di ampiezza e complessità limitate possono essere governate
direttamente invece che da élites tecnocratiche che agiscono per conto della popolazione.
I combustibili fossili e il nucleare sono pericolosi non solo perché inquinano,
ma anche perché una società a intenso utilizzo di energia [energy-intensive]
basata su sistemi tecnologici sempre più sofisticati e gestiti da burocrati
tende a ridurre nel tempo democrazia e uguaglianza. Di conseguenza, la
decrescita si oppone anche a mega-progetti fittiziamente “verdi” come linee
ferroviarie ad alta velocità e parchi eolici su scala industriale.
La cura può diventare la pietra miliare di un’economia
basata sulla riproduzione piuttosto che sull’espansione. La riproduzione si
riferisce a quelle attività che sostengono il ciclo della vita, tipicamente
all’interno della famiglia. Più in generale, però, racchiude tutti i processi
di sostentamento e rigenerazione. Nell’economia attuale, il lavoro di cura
rimane genderizzato [gendered], sottostimato e relegato nell’ombra
dell’economia formale. La decrescita propone la distruzione equa del lavoro di
cura e la ri-centralizzazione della società rispetto a essa. Un’economia della
cura è ad alta intensità di lavoro [labor-intensive] precisamente perché
il lavoro umano è ciò che fornisce alla cura il proprio valore. Essa possiede
dunque il potenziale, allo stesso tempo, di ridurre la disoccupazione e
produrre una società più umana.
Il dispendio si riferisce all’utilizzo improduttivo
del surplus sociale. Il modo in cui le civiltà allocano il proprio surplus –
cioè le “spese” che esse affrontano al di là e al di sopra di ciò che è
necessario per soddisfare i bisogni vitali – è ciò che ne definisce i caratteri
essenziali. Gli egizi utilizzarono il proprio surplus per le piramidi, i
tibetani per la classe inoperosa dei monaci, gli europei del Medio Evo per le
chiese (questa è un’osservazione analitica: non sto ovviamente suggerendo che
dovremmo oggi ripetere tali forme di dispendio!). Nella civiltà capitalistica
attuale, in cui il surplus è accumulato e investito per produrre ulteriore
crescita, il dispendio è incanalato verso pratiche private di consumo
esuberante. Dal momento che una limitazione del consumo, da sola, finirebbe per
incrementare la propensione al risparmio e all’investimento, la decrescita
immagina una radicale riduzione del surplus e un suo dispendio nell’ambito di
una società festiva nella quale i cittadini progettino nuove e non violente
modalità di utilizzo, modalità che contribuiscano a rinsaldare i legami
comunitari e la produzione collettiva di senso.
L’imperativo della decrescita
Ci sono ormai prove certe che mostrano come la
crescita minacci il benessere sia dal lato ambientale che da quello sociale[5]. La crescita economica continua rende più
probabile l’attraversamento delle soglie del safe operating space definite
dai limiti planetari, amplificando i problemi (soprattutto quelli dei più
vulnerabili). Sebbene la “crescita verde” sia diventata di moda negli ultimi
anni, essa rimane un ossimoro. La sua enfasi sugli incrementi di efficienza
crea un paradosso: ridurre i requisiti di risorse abbassa i costi e – dati i
semplici meccanismi della domanda e dell’offerta – produce un “effetto
rimbalzo” nel consumo delle risorse stesse. Si tratta di un elemento cruciale
della dinamica capitalistica: l’aumento di produttività libera risorse che
vengono immediatamente investite per creare ulteriore crescita[6].
Nelle nazioni ricche la crescita economica continua si
mostra, inoltre, nemica del benessere. Come ha osservato Hermann Daly, i “mali”
(congestione, crimine e altri effetti collaterali dannosi) crescono alla stessa
velocità o addirittura più velocemente della ricchezza misurata dal PIL. La
redistribuzione, non la crescita è ciò che migliora il benessere nelle nazioni
affluenti. La crescita non potrà mai avverare il desiderio di beni posizionali:
solo redistribuzione e nuovi valori possono farlo.
E che dire di coloro che, nelle nazioni povere, ancora
non hanno visto i benefici della crescita? La decrescita nel Nord globale può
aprire spazio ecologico per il Sud globale. Per esempio, un tetto significativo
alle emissioni di anidride carbonica nel Nord e migliori condizioni di mercato
nel Sud possono concorrere a compensare il debito ecologico contratto nel
passato, redistribuendo ricchezza tra Nord e Sud. La crescita economica nel
Sud, inoltre, minaccia i mezzi di sostentamento alternativi e non-monetari,
generando la povertà che, a sua volta, rende “necessaria” ancora più crescita.
La decrescita nel Nord, quindi, può fornire spazi per la fioritura [flourishing]
di cosmo-visioni e pratiche alternative nel Sud, come per esempio il buen
vivir in America Latina oppure l’ubuntu in Africa. Queste
sono alternative allo sviluppo, non forme alternative di sviluppo.
Semi della transizione alla decrescita
In concomitanza con la crisi dell’economia formale, le
alternative della decrescita hanno cominciato a fiorire. Queste includono la
produzione di cibo nei giardini urbani, il co-housing e le
eco-comuni, i circuiti alternativi per i prodotti agricoli, le cooperative di
produzione-consumo, le cucine popolari, le cooperative sanitarie e di cura (per
bambini e anziani), l’open software e le forme decentralizzate di
produzione e distribuzione di energie rinnovabili. Queste alternative sono
spesso accompagnate o addirittura supportate da nuove forme di scambio come le
monete comunitarie, i mercati del baratto, le banche del tempo, le cooperative
finanziarie e le banche etiche[7].
Questi progetti mostrano i molti volti della
decrescita. Promuovono una transizione a forme di economia più locali
caratterizzate da filiere corte di produzione e consumo. Enfatizzano la
riproduzione e la cura, la centralità dei valori d’uso a scapito dei profitti.
Rimpiazzano il lavoro salariato con l’attività volontaria. Non possiedono una
tendenza intrinseca all’accumulazione e all’espansione, e richiedono meno
risorse delle loro controparti nell’economia formale. Queste pratiche di “messa
in comune” [commoning] coltivano la solidarietà e le relazioni
interpersonali umane, e generano ricchezza non-monetaria, condivisa.
Come suggerito da queste alternative, una transizione
alla decrescita proverrà per lo più dal basso. Tuttavia, un cambiamento
istituzionale di larga portata sarà pure necessario per garantire l’adozione di
queste pratiche. Per esempio, il reddito di base fornirebbe un accesso
universale alla ricchezza nazionale, assicurando la sussistenza a tutti e
liberando tempo per le attività non remunerate. Se accompagnata da una politica
complementare di garanzia del lavoro, lo stato potrebbe fornire occupazione per
coloro che vogliono lavorare in attività che supportino il bene comune. Una
settimana lavorative più corta e la condivisione dei carichi lavorativi senza
riduzione di salario mensile potrebbe inoltre contrastare la disoccupazione e
creare più tempo per l’ozio e le pratiche di messa in comune. L’adozione di
queste politiche ridurrebbe l’insicurezza economica senza bisogno di ulteriore
crescita economica.
La transizione oltre la crescita porterà con sé la
transizione oltre il capitalismo dal momento che l’essenza di quest’ultimo è
l’accumulazione espansiva[8]. Una transizione alla decrescita
seguirebbe probabilmente una via simile a quella di passaggi tra un sistema
economico e un altro nel passato. Il capitalismo emerse dal feudalesimo
attraverso connessioni inedite tra nuove pratiche ed entità economiche
(aziende, corporazioni, contratti commerciali, banche, investimenti) e sviluppi
politici e istituzionali che le supportarono (l’abolizione delle monarchie e
dei privilegi feudali, le recinzioni delle terre comuni, la democrazia
liberale, leggi a protezione della proprietà privata).
Analogamente, le pratiche di base contemporanee e i
cambiamenti istituzionali possono mettere in moto una trasformazione del
sistema attuale nel momento in cui la crescita economica si avvicina ai suoi
limiti. La decrescita riconosce l’approfondimento della democrazia come
essenziale al suo processo di transizione. Essa guarda con interesse alle
sperimentazioni di forme dirette di democrazia popolare, come quelle praticate
dal movimento Occupy. La decrescita immagina un regime che combini
elementi di democrazia diretta e democrazia rappresentativa, come per esempio
la “democrazia ecologica radicale” propugnata da Ashish Kotari[9].
Una transizione alla decrescita sarebbe ben diversa
dalle rivoluzioni del XX secolo, non solo perché sarebbe risolutamente
non-violenta e democratica, ma perché avrebbe come avversario non solo il
capitalismo ma anche il produttivismo. L’uscita dalla crescita richiede
l’uscita dal capitalismo, ma un’uscita dal capitalismo non porta
necessariamente all’uscita dalla crescita. I socialismi reali del XX secolo
hanno rimpiazzato i rapporti di produzione capitalistici senza modificare le
pratiche di sfruttamento delle risorse e di accumulazione del surplus
finalizzate alla produzione e al consumo di massa.
Governare la decrescita
A dispetto della ricchezza della teoria della
decrescita, i suoi proponenti ancora s’interrogano su questioni chiave come la
scala e le pratiche di governo. Essi privilegiano la ri-localizzazione,
anticipandone l’emergere e la fioritura, nella convinzione che essa condurrebbe
a un movimento politico nazionale che possa cambiare lo stato dall’interno.
Tuttavia, c’è una tensione tra il desiderio di autonomia locale e il bisogno di
agire su scala più larga. Un certo grado di gerarchia è inevitabile perché la redistribuzione
di vincoli e risorse tra località più o meno privilegiate richiederà
intermediazione e processi decisionali a livelli geografici più ampi. Alcune
delle riforme della decrescita discusse sopra sono, in effetti, piuttosto
interventiste e richiederebbero una forte azione statale.
Similmente, la questione della governance globale è
sostanzialmente assente dalle discussioni del movimento della decrescita. È un
dato curioso data la centralità di problemi quali il cambiamento climatico, il
libero commercio e la corsa alla competitività globale. Molti proponenti della
decrescita sembrano accettare l’idea che limitazioni varie a livello
nazional-statale possano liberare un paese dalle forze del mercato mondiale,
oppure che l’aggregato di iniziative di base conduca a un mutamento generale.
Tuttavia, questi scenari rimangono improbabili. Il riscaldamento globale, per
esempio, non può essere affrontato semplicemente sommando le lotte climatiche
locali in assenza di accordi internazionali istituiscano un tetto alle
emissioni di anidride carbonica.
Nel contesto del neoliberalismo imperante,
l’interdipendenza globale rende impossibile per un singolo paese intraprendere
in solitudine una transizione alla decrescita. Farlo significherebbe esporsi a
danni estremamente pesanti legati alla fuga di capitali, al collasso bancario e
monetario, alla svalutazione degli assets, alla crisi delle
istituzioni di pubblica sicurezza e all’isolamento politico. Tutto questo
impedirebbe a un dato paese di intraprendere la via della contrazione
solitaria. Allo stesso modo, se un paese o un blocco di paesi avessero successo
nel ridurre le loro economie si verificherebbe probabilmente un crollo globale
dei prezzi delle risorse, cui seguirebbe un incremento dei consumi da qualche
altra parte. In un certo senso, quindi, l’esodo dalla crescita è un problema di
azione collettiva globale. Per avere successo, una transizione alla decrescita
deve essere globale.
Epilogo
La decrescita richiede un impegno non solo a
proteggere la natura o a mitigare e gestire gli impatti del capitalismo, ma
anche a creare un’ecologia sociale alternativa e un fondamento completamente
diverso per l’azione. Da questa nuova prospettiva, gli ambientalisti che si
oppongono alle mega-infrastrutture non hanno bisogno di addentrarsi nei meandri
del calcolo costi-benefici o di esplorare alternative accomodanti rispetto a
fantasiosi percorsi di crescita alternativa. Possono, più semplicemente,
affermare con chiarezza che tali progetti non sono compatibili con il mondo in
cui vogliono vivere. Possono dire che un’alternativa c’è e si chiama decrescita.
NOTE
[1]U. LeGuin (1982) A Non-Euclidean View of California as a Cold Place to Be. Dancing
at the Edge of the World: Thoughts on Words, Women, Places (pp.
80-100). Grove Press.
[2]B. Latour (1998). To Modernize or to Ecologize? That’s the Question. Remaking
Reality: Nature at the Millenium. N. Castree e B Willems-Braun (a cura di)
(pp. 221-242). Routledge.
[3]S. Latouche (2005). La scommessa
della decrescita. Feltrinelli.
[4]G. D’Alisa, F. Demaria e G. Kallis
(2015). Degrowth: a vocabulary for a new era. Routledge.
[5]Cfr. H. Daly (2001). Oltre la
crescita. Edizioni di Comunità; T. Jackson (2009). Prosperity
without Growth. Routledge.
[6]B. Alcott (2005). “Jevon’s Paradox”. Ecological Economics, 54(1): 9-21.
[7]J. Conill et al (2012). Otra
vida es posible. UOC.
[8]Il capitalismo può passare attraverso
fasi di involontaria crescita negativa, ma non per lungo tempo poiché ciò
produrrebbe un’intensificazione delle disuguaglianze e dell’instabilità
socio-politica, nonché la minaccia di forme autocratiche.
[9]A. Kotari (2014). http://www.greattransition.org/publication/radical-ecological-democracy-a-path-forward-for-india-and-beyond.
Traduzione di Emanuele Leonardi
Immagine in apertura: MAPPEMONDE ou CARTE GÉNÉRALE DE
L’UNIVERS sur une Projection nouvelle d’une sphère ovale pour mieux entendre
les distances entre l’Europe et l’Amerique avec le Tour du Monde du Lieut. Cook
et tous les Découvertes nouvelles. Datazione: 1782
*materiali disponibili su Effimera
http://www.greattransition.org/publication/the-degrowth-alternative (2015)
http://www.greattransition.org/publication/the-degrowth-alternative (2015)