mercoledì 19 aprile 2017

ricerche - IL REDDITO DI BASE. NOTE DI CONTESTO

-E. LEONARDI / G. PISANI-


dalle note di contesto rileviamo il quadro di riferimento teorico posto sul tema del reddito di base che mette a confronto: da un lato, il liberalismo neocontrattualista rivisto all’interno del paradigma della giustizia rawlsiana, dove si ammette «un “minimo sociale” fra le istituzioni della giustizia distributiva, per bilanciare le iniquità prodotte dal mercato»; dall’altro, la visione neoperaista che rivendica la legittima appropriazione comune dei frutti della cooperazione sociale. Il reddito primario di base incondizionato è  pertanto il «dispositivo diretto alla retribuzione della vita produttiva»


Negli ultimi anni, in Italia come in tutta Europa, è divenuta sempre più centrale la discussione attorno al reddito di base incondizionato. L’ampio dibattito ha riguardato innanzitutto le giustificazioni teoriche del dispositivo, che si ispirano a modelli filosofici anche molto diversi. Riprendiamo qui brevemente – rischiando inevitabilmente alcune semplificazioni – le posizioni delle principali scuole filosofiche sul reddito di base, certi che la lettura delle risposte al nostro questionario potrà chiarire i nodi cruciali del dibattito.
In primo luogo si è affermata un’importante scuola liberale che mira inquadrare il reddito all’interno di un modello di giustizia distributiva, sulla base delle mutate condizioni del lavoro e della produzione. Tale discussione, stimolata in questi anni dalla riflessione di Philippe van Parijs1, si è concentrata attorno alla definizione di cosa si intenda per “società giusta”, entro un quadro neocontrattualista – spesso ispirato alla teoria di John Rawls – che afferma la centralità di inclusione, coesione e pace sociale. Com’è noto, nell’ambito della teoria rawlsiana la società viene intesa come un sistema di cooperazione sociale il cui funzionamento è garantito dal fatto che ciascuno contribuisca secondo il proprio ruolo, derivante dalle capacità e dalle opportunità a disposizione. Certamente l’idea del reddito minimo universale cozza con tale modello. Da qui la famosa affermazione di Rawls, secondo cui “chi passasse tutto il giorno a fare surf sulle spiagge di Malibù, dovrebbe trovare il modo di mantenersi, e non avrebbe diritto a risorse pubbliche”2. Rawls ammetteva un “minimo sociale” fra le istituzioni della giustizia distributiva, per bilanciare le iniquità prodotte dal mercato3. Quest’ultimo, infatti, non è in grado, da solo, di liberare gli individui dal bisogno. Ma si tratta di un provvedimento eccezionale, così come la disoccupazione era, al tempo in cui Rawls scriveva, un evento assolutamente provvisorio. Nell’ambito del liberalismo neocontrattualista, oggi, vengono assunti i mutamenti intervenuti nel modello di produzione e reinquadrati all’interno della teoria della giustizia rawlsiana. Se è vero che oggi ad essere produttive sono anche le relazioni immateriali che si sviluppano al di fuori del contratto di lavoro, è giusto che ad essere retribuiti siano tutti coloro che partecipano alla produzione. Il reddito universale, allora, diviene un dispositivo imprescindibile all’interno di un quadro teorico che implica la reciprocità come principio fondamentale della giustizia4. Nella visione neo-operaista, il reddito di base si oppone all’appropriazione privatistica, da parte del capitale, dei frutti della cooperazione sociale attraverso la rendita. Il dispositivo, allora, è diretto alla retribuzione della vita produttiva. Come scrive Antonio Negri, “quando nella produzione del General Intellect il principale capitale fisso diviene l’uomo stesso – allora, con questo concetto bisogna intendere una logica della cooperazione sociale situata al di là della legge del valore […]. In tale prospettiva si situa la lotta per l’instaurazione di un Reddito sociale garantito incondizionato e concepito come un reddito primario, cioè non legato alla redistribuzione (come un RMI, Reddito Minimo di Inserimento), ma all’affermazione del carattere sempre più collettivo della produzione di valore e di ricchezza. Esso permetterebbe di ricomporre e rafforzare il potere contrattuale dell’insieme della forza lavoro sottraendo al capitale una parte del valore catturato dalla rendita”5. Certamente il reddito, all’interno di tale quadro teorico, non va inteso in senso meramente produttivistico. La produzione di cui parla Negri è innanzitutto produzione di soggettività, connessa con forme di vita e di autoprogettualità, più che con il contributo economico offerto al mercato. Il reddito non consiste in un punto di arrivo, nella mera formalizzazione di un processo di emancipazione già avvenuto. Esso rappresenta piuttosto il primo passo nell’ambito di un necessario processo di riappropriazione dei frutti della cooperazione sociale, che non può che passare attraverso la definizione costituente di una gestione realmente democratica del comune. Come egli scrive, “[l]a lotta attorno al reddito (al ‘reddito di cittadinanza’ nella fattispecie) è innanzitutto un mezzo – un mezzo per la costruzione di un soggetto politico, di una forza politica […] È a partire da questo passaggio, da questo uso costituente della lotta per la definizione e il riconoscimento di un soggetto politico – è solo risalendo da questo passaggio che sarà poi possibile aprire una lotta non limitata alla trattazione del salario di cittadinanza, ma rivolta alla riappropriazione del comune e alla sua gestione democratica”6. Nell’ambito del costituzionalismo, il reddito di base viene legato al diritto all’esistenza libera e dignitosa. Come rileva Stefano Rodotà, il reddito libera dall’angustia della povertà ma anche dal “ricatto del lavoro”. Come egli scrive, “torna così il riferimento all’‘esistenza libera e dignitosa’, in un sistema nel quale il principio di solidarietà, esplicitamente affermato dell’articolo 2 della Costituzione, può strutturare l’accesso alle risorse necessarie per il libero sviluppo della personalità (ancora l’articolo 2) con una varietà di forme, tutte concorrenti a quel fine”7. Tra le critiche più frequenti al reddito di base c’è quella di sottovalutare l’importanza del lavoro, bypassando i problemi oggi relativi all’occupazione e alla contrattazione, stimolando l’assistenzialismo. Come scrive Laura Pennacchi, “il reddito di cittadinanza si configura inevitabilmente come ‘compensazione ex post’ dei disagi derivanti dalla mancanza di lavoro e non può affrontare in termini strutturali le problematiche che la crisi globale ci pone, a partire dalla necessità di ridisegnare l’intero modello di sviluppo”8.



1        Cfr. P. Van Parijs e Y. Vanderborght, Il reddito minimo universale, UBE, Milano 2006
2        J. Rawls, La priorità del giusto e idee del bene, in Id., Saggi. Dalla giustizia come equità al liberalismo politico, a cura di S. Veca, Edizioni di                 Comunità, Torino 2001, p. 211 (nota 7)
3        Cfr. J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1982, p. 234
4        Cfr. C. del Bò, Basic income e teoria liberale, in Aa.Vv, Reddito per tutti, Manifestolibri Roma 2009, p. 92
5        A. Negri, Il rapporto capitale/lavoro nel capitalismo cognitivo, in Id., Inventare il comune, DeriveApprodi 2012, p. 199
6        Ivi, pp.185-186
7        S. Rodotà, Solidarietà, Laterza, Roma-Bari 2014, pp.79-80
8        L. Pennacchi, Lavoro, e non reddito, di cittadinanza, in www.sbilanciamoci.info

proponiamo le “note di contesto” della “Monographica I- Il reddito di base” curata da Leonardi e Pisani 
(pubblicata su ETICA & POLITICA- Rivista di filosofia”, UNITS-2017)

EMANUELE LEONARDI Centro de Estudos Sociais Università di Coimbra leonardi@ces.uc.pt
GIACOMO PISANI Dipartimento di Giurisprudenza Università di Torino giacomopisani@hotmail.it