-TONI NEGRI-
abbiamo voluto estrarre dall'intervento "Postoperaismo? No, Operaismo" -tenuto lo scorso 25 aprile a Cambridge - la lettura
operaista dell’essere partendo da laddove si afferma con estrema chiarezza che l’ontologia
costituisce «l’unica possibilità di dire quel che siamo e quel che
vogliamo essere… perché ontologia è essere produttivo e senza produzione non
c’è vita»
Nella
recente letteratura teorica marxista si parla spesso di “operaismo” e di
“postoperaismo”… Ma c’è davvero un “postoperaismo”? Se c’è, nasce dai
dibattiti, dalle letture filosofiche e dalle riflessioni sociologiche dei
militanti operaisti chiusi nelle carceri italiane negli anni ’80 del secolo
scorso, quando si interrogano sullo sconfitta subita dalle lotte della classe
operaia a fronte del neoliberalismo nascente. Se il postoperaismo ha dunque
un’origine, è una nobile origine – tale è infatti sorgere dalla Resistenza – ed
è per la sua forza di comprensione della sconfitta e nell’andare al di là di
essa, che esso ha esercitato un’influenza sul susseguirsi delle lotte sociali
per il comune nei decenni fra i due secoli.
Prima di
chiederci se effettivamente si possa parlare di “postoperaismo”… Che cos’era
l’operaismo negli anni ’60? Detto brevemente: una teoria della lotta di classe
fondata su un’ontologia costituente piuttosto che su un’ontologia dialettica,
sulla soggettivazione del lavoro vivo piuttosto che sulla dialettica hegeliana,
per quanto marxianamente “rovesciata”. Non spaventiamoci poi, intendendo la
parola “ontologia”. Significava, appunto, né più né meno, la priorità del
lavoro vivo rispetto al dominio capitalista, la produttività costitutiva del
lavoro dinnanzi al suo sfruttamento, l’asimmetria intransitiva del lavoro vivo
dinnanzi a quello morto. Ora, nelle galere, dopo un decennio di lotte,
ontologia significherà che si è comunque dentro una realtà forte, dentro una
vicenda vissuta incancellabile ed una profondità di resistenza, ancora e
sempre, insopprimibile. La lotta di classe era li, non sradicabile. Si trattava
di operare un “aggiornamento” rispetto alle precedenti pratiche della lotta di
classe, basandosi sull’analisi delle nuove forme di sfruttamento. Il cosiddetto postoperaismo
muove cosi da una radicale rilettura della “forma del valore”, cioè dalle nuove
condizioni sociali entro le quali si sviluppano le tecniche di dominio del
neoliberalismo e la nuova resistenza allo sfruttamento, e le pone a fondamento
dell’analisi.
La
progressiva “rivoluzione lessicale” che il cd postoperaismo
produceva (dall’”operaio massa” all’”operaio sociale” alla “moltitudine”),
rispecchiava le trasformazioni dell’essere reale, era cioè ontologicamente
fondata. Torniamo dunque su quella parola indicibile: “ontologia”. Perché
averne paura, di questa parola – analisi dell’essere in quanto essere – quando
è evidente che, per i materialisti, essa null’altro dichiara se non la lezione
materialista dell’essere come produzione? Chi ha paura dell’ontologia
quand’essa sia definita come ontologia della produzione e quindi degli
antagonismi sociali? Possono provare paura solo quelli che non riescono ad
essere radicalmente materialisti. Ora, “ontologicamente fondato” significa qui
tre cose. La prima è che la storia, l’essere determinato è la base ineludibile
di ogni lotta di liberazione e che nella storia residuano le lotte del
proletariato, vittoriose o sconfitte, ed essa è diversamente composta da queste
determinazioni. Questo fondamento storico duro che costituisce il terreno materialista
della nostra analisi, è quanto definito nella “forma” del valore, intesa alla
Rubin (ma anche nel giovane Marx e nel “materialismo storico”).
La seconda
annotazione insiste sul fatto che questa ontologia è dualista, antagonista.
Essa si sviluppa nella lotta di classe ed investe in tal modo il rapporto di
capitale secondo dimensioni biopolitiche. Sono la vita messa al lavoro e la
vita sottoposta al dominio che qui si scontrano continuamente e l’ontologia è
segnata e mai risolta da questo scontro. Di qui l’illusorietà di ogni “via di
fuga” che voglia far esplodere in maniera istantanea, evenemenziale, in un
immaginario jetz-Zeit, il rapporto di capitale. No, questo
rapporto deve essere lavorato, con continuità, per aprirlo alla liberazione. È
infatti l’intero terreno della riproduzione che la socializzazione della
produzione mobilita. Bisogna lavorare questa ontologia finché gli sfruttati, i
lavoratori, i poveri, gli esclusi non solo avranno la forza di sovvertire ma
anche quella di reinventare il nostro mondo.
Ed è qui che emerge il terzo punto di questa
ontologia: il dispositivo costituente. Nell’antagonismo si formano forze
soggettive, nella storia si produce soggettività – perché produzione di
soggettività è “produzione di produzione”, è lo sviluppo stesso della storia,
vista dalle lotte e nella capacità di costruire – con le soggettività stesse –
ricchezza e libertà. L’essere, in questo materialismo, non è mai vuoto, mai
impotenza; è sempre percorso dal lavoro e dal desiderio, cioè dalla produttività
del lavoro vivo. Risalta qui il conflitto principe di ogni storia della
metafisica: quello fra concezione materialista dell’essere produttivo e
concezione mistico-trascendentale dell’essere negativo, e viene insistita la
scelta necessaria tra Hobbes e Spinoza, tra fascismo e libertà. La stessa
“paura” – che secondo Hobbes starebbe alla base del trascendentale sovrano – ha
infatti una seconda e più vera definizione che sta alla base della nostra
stessa civiltà: la paura costruttiva, quella ricordata nell’“anno Mille”,
quella che, sorgendo dalle barbarie dell’evo di mezzo, la gente europea ebbe la
capacità di superare, contrastando decisamente la superstizione ed il mito
distruttivo che la regge. Gettandosi, pur poveri, sfruttati ed esclusi, oltre i
margini della paura, della superstizione, del dominio – per costruire civiltà. Postoperaismo, dunque? E perché mai post-? Quello che
fu costruito nelle carceri e poi fu portato fuori ad organizzare le lotte fra i
due secoli, fu piuttosto una nuova versione dell’operaismo, nella continuità
della sua fondazione ontologica e del suo metodo. In esso erano determinanti
(come nelle pratiche operaiste degli anni ’60) la concezione costruttiva delle
lotte di classe, l’inchiesta ed un’analisi antagonista del processo storico. E
poi c’era, semplicemente, l’adeguamento di quella matrice alla nuova realtà –
un “aggiornamento” alle nuove “forme” della condizione storica. Operaismo come
ontologia? Sì – perché l’ontologia costituisce l’unica possibilità di dire quel
che siamo e quel che vogliamo essere – perché ontologia è essere produttivo e
senza produzione non c’è vita. Cosi si usciva dall’”operaismo grezzo” definito
fra Quaderni Rossi e Classe Operaia e, mentre
si nutriva l’operaismo dei risultati delle lotte passate, lo si apriva a quelle
future.
Come è venuto, dunque, l’operaismo ad aderire alla nuova composizione di classe, come è venuto sviluppando ed aggiornando il “grezzo” approccio degli anni ‘60? Quali i suoi concetti fondamentali e quali le contaminazioni dal pensiero contemporaneo con il quale si è confrontato ed dal quale è stato fecondato? Qui di seguito non potremo che fare un elenco dei successivi aggiornamenti di questo sviluppo, e quindi della capacità dell’operaismo di mordere con continuità la realtà del conflitto di classe e di definirne via via i soggetti cangianti.
Un primo episodio è legato alla scoperta della società-fabbrica. Ma – negli anni ’70 – non perché, come avveniva dall’inizio del secolo ventesimo, la fabbrica si stendesse sulla società ma perché la società cominciò ad assorbire la fabbrica. Le lotte degli anni ’60 avevano fortemente indebolito il comando capitalista all’interno delle fabbriche, la lotta operaia era stata incontenibile. Fu allora che, a partire da un forte contrattacco capitalista, le fabbriche furono in buona misura destrutturate e delocalizzate: automazione industriale e forte riduzione della forza-lavoro impiegata, esternalizzazione dei reparti produttivi secondari, riorganizzazione dei territori in termini produttivi. Le mura delle fabbriche erano crollate, mobilità e flessibilità divenivano le qualità di una forza-lavoro ormai del tutto socializzata e costretta alla precarietà (o ad essere inghiottita dalla disoccupazione). L’industria si socializzava, l’operaio pure: “operaio sociale” dopo essere stato “operaio massa” ed in attesa di confondersi nella “moltitudine” di singolarità che, fra scuola e fabbrica, fra servizi e disoccupazione, cerca nelle reti produttive sociali una nuova collocazione. Bisognava rioconoscere tutto ciò nel momento nel quale le forze della sinistra, politiche e sindacali, erano incapaci di farlo e mantenevano l’occhio fisso sulle vecchie figure del lavoro – fingendo di difenderle in maniera corporativa, perdendo con ciò ogni capacità di esprimere e condurre la nuova composizione tecnica della forza-lavoro socializzata, in un’azione di attacco alla ristrutturazione capitalista in corso. Gli operaisti tentarono di intervenire su questo passaggio e furono sconfitti. Non perdoneranno mai alle forze politiche e sindacali della sinistra di non essere state a lato degli operai in questo passaggio, di avere invece scelto di essere interne alle “riforme” capitaliste.
Come è venuto, dunque, l’operaismo ad aderire alla nuova composizione di classe, come è venuto sviluppando ed aggiornando il “grezzo” approccio degli anni ‘60? Quali i suoi concetti fondamentali e quali le contaminazioni dal pensiero contemporaneo con il quale si è confrontato ed dal quale è stato fecondato? Qui di seguito non potremo che fare un elenco dei successivi aggiornamenti di questo sviluppo, e quindi della capacità dell’operaismo di mordere con continuità la realtà del conflitto di classe e di definirne via via i soggetti cangianti.
Un primo episodio è legato alla scoperta della società-fabbrica. Ma – negli anni ’70 – non perché, come avveniva dall’inizio del secolo ventesimo, la fabbrica si stendesse sulla società ma perché la società cominciò ad assorbire la fabbrica. Le lotte degli anni ’60 avevano fortemente indebolito il comando capitalista all’interno delle fabbriche, la lotta operaia era stata incontenibile. Fu allora che, a partire da un forte contrattacco capitalista, le fabbriche furono in buona misura destrutturate e delocalizzate: automazione industriale e forte riduzione della forza-lavoro impiegata, esternalizzazione dei reparti produttivi secondari, riorganizzazione dei territori in termini produttivi. Le mura delle fabbriche erano crollate, mobilità e flessibilità divenivano le qualità di una forza-lavoro ormai del tutto socializzata e costretta alla precarietà (o ad essere inghiottita dalla disoccupazione). L’industria si socializzava, l’operaio pure: “operaio sociale” dopo essere stato “operaio massa” ed in attesa di confondersi nella “moltitudine” di singolarità che, fra scuola e fabbrica, fra servizi e disoccupazione, cerca nelle reti produttive sociali una nuova collocazione. Bisognava rioconoscere tutto ciò nel momento nel quale le forze della sinistra, politiche e sindacali, erano incapaci di farlo e mantenevano l’occhio fisso sulle vecchie figure del lavoro – fingendo di difenderle in maniera corporativa, perdendo con ciò ogni capacità di esprimere e condurre la nuova composizione tecnica della forza-lavoro socializzata, in un’azione di attacco alla ristrutturazione capitalista in corso. Gli operaisti tentarono di intervenire su questo passaggio e furono sconfitti. Non perdoneranno mai alle forze politiche e sindacali della sinistra di non essere state a lato degli operai in questo passaggio, di avere invece scelto di essere interne alle “riforme” capitaliste.
* pubblicato integralmente da Euronomade