-NICOLA CAPONE-
gli
enti territoriali attraverso appositi Regolamenti d’uso potrebbero riconoscere
gli usi collettivi più recenti come una delle forme di utilizzazione di quella
parte dei beni pubblici/
e in generale di tutti quei beni -anche privati- vincolati ad una destinazione pubblica funzionali al soddisfacimento dei
diritti fondamentali
Il
neoliberalismo dominante si presenta come «une rationalité politique globale,
une logique normative qui concerne tous les aspects de la société, toutes les
dimensions de la vie» (C. Laval 2016). Questa generale radicalizzazione del
neoliberismo trova nella crisi la sua fonte di legittimazione. Tagli dei
salari, privatizzazioni, precarizzazione del lavoro sono proposti come
provvedimenti tecnici volti a combattere la crisi (G. Zagrebelsky 2015).
Provvedimenti che in realtà la rafforzano, producendo una sorta di «spirale
infernale»che sembra portare interi Statipiuttosto che verso un’uscita dalla
crisi verso una «uscita dalla democrazia» (C. Laval 2016). I segni
caratteristici di questo corso politico sono la concentrazione del potere
decisionale negli esecutivi a danno dei parlamenti e l’uso sempre più frequente
dello Stato di eccezione o d’urgenza.
La
de-democratizzazione in corso, però, non implica una de-statizzazione. Il
neoliberismo, infatti, mira a modificare la struttura degli Stati e li
trasforma in propri dispositivi disciplinanti, usandoli per garantire il suo
pieno dispiegamento. In questa prospettiva, le istituzioni pubbliche sono
sottoposte al regime della concorrenza per realizzare una società integralmente
di diritto privato, «che non ammette deroghe al primato del mercato, neppure in
nome degli obiettivi politici di natura collettiva, quali quelli definiti dallo
Stato costituzionale» (G. Preterossi 2015:18).
Di fronte a
questa crisi sono possibili una risposta neoautoritaria o una democratico-partecipativa.
La prima è rappresentata dalla semplificazione verticale del comando. La
seconda consiste nel recepire le istanze partecipative che vengono dalla
società.
Intorno a
questa seconda opzione si svolge l’ipotesi di studio qui proposta, che ha come
fulcro teorico l’idea che per trasformare le istanze partecipative in prassi
politica la democrazia non abbia solo bisogno di regole condivise ma anche e
soprattutto di mezzi, di beni che vanno considerati come beni-in-comune. «Une
République – scriveva J. Bodin – outre la souveraineté, il faut qu’il y ait
quelque chose de commun, et de public: comme le domaine public, le trésor
public, le pourpris de la cité, les rues, les murailles, les places, les
temples, les marchés, les usages, les lois, les coutumes, la justice, les
loyers, les peines, et autres choses semblables, qui sont ou communes, ou
publiques, ou l’un et l’autre ensemble, car ce n’est pas la République s’il
n’y a rien de public» (J. Bodin 1993:51). Il
presupposto è che per uscire dalla crisi e ritrovare (reinventare) la
democrazia occorra cominciare dai luoghi (materiali e immateriali) in cui
precipitano i dispositivi neoliberisti. Questi oggi sono principalmente
rappresentati dal mondo dei beni, un mondo costituito da risorse naturali,
paesaggi, patrimonio artistico e culturale, patrimonio pubblico, etc. […]
Occorre, dunque, ricreare una dimensione dell’essere-in-comune come mondo delle
cose-in-comune (H. Arent 1999:37-43), rimettendo nella disponibilità del popolo
(costituzionalmente inteso) quei beni che sono funzionali all’esercizio dei
diritti fondamentali e che attualmente invece sono catturati dalla dinamica
estrattiva del neoliberalismo che astrae ricchezza riducendo i beni a mero
valore di scambio.
Un
dispositivo teorico per compiere il cambio di paradigma prospettato è possibile
a partire da un ripensamento della nozione di proprietà in una prospettiva
costituzionale. In quest’ottica i beni, pubblici e privati, sono
funzionalizzati, da una parte, alla soddisfazione dei diritti fondamentali
della persona in un’ottica di solidarità sociale e, dall’altra, al pieno
sviluppo della persona umana. Attraverso di essi, com’è scritto nell’art. 3
della Costituzione italiana, la Repubblica può concretamente rimuovere «gli
ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e
l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana
e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,
economica e sociale del Paese». Ma affinché quest’opera di rimozione degli
ostacoli di ordine economico e sociale rimuova anche l’apatia politica da cui
sono afflitti larghi strati della società occorre che questi beni siano messi a
disposizione diretta delle comunità di abitanti, riscoprendo il loro valore
d’uso in opposizione alla loro forzata riduzione a mere cose identificate con
il loro valore di scambio. In questa prospettiva a nostro avviso andrebbe
riscoperta e recuperata la categoria dei diritti collettivi che nel nostro
ordinamento, insieme alla riserva e al vincolo di destinazione, è uno dei
pilastri su cui si è costruita la nozione giuridica della proprietà pubblica,
articolata com’è noto in tre fattispecie: il demanio, fondato sulla riserva, il
patrimonio, sul vincolo di destinazione, e infine la proprietà pubblica
collettiva, fondata, appunto, sulla categoria dei diritti collettivi.
La
caratteristica propria dei diritti collettivi è che questi implicano sempre
l’uso diretto del bene da parte di determinate comunità. Gli abitanti non sono
mai meri fruitori ma attraverso un uso regolamentato utilizzano direttamente il
bene autogovernandosi. Questo aspetto, tuttavia, contiene un rischio, perché le
comunità di abitanti tendono ad essere escludenti rispetto a chi ne è estraneo.
Una tale ambivalenza può essere superata rispettando la funzione sociale, la
destinazione pubblica e la salvaguardia intergenerazionale dei beni. Ciò è
possibile garantendo, attraverso apposite dichiarazioni d’uso pubblicamente
elaborate e discusse, i principi fondamentali degli usi collettivi:
l’accessibilità, l’inclusività, l’imparzialitàe la fruibilità. Senza il
rispetto di questi principi si ricadrebbe in un uso esclusivo del bene
all’interno del paradigma proprietario escludente. A partire dalla pratica
dell’uso e del godimento diretto di beni da parte di specifiche comunità di
abitanti, i beni possono estendere il loro valore d’uso all’intera
collettività, come se le comunità insistenti su un bene, utilizzandolo,
liberassero tutta l’energia sociale in esso trattenuta.
Questo
approccio non propone un neomediovalismo istituzionale (U. Mattei 2001:24),
piuttosto, le comunità, traendo soddisfazione per i propri diritti
dall’utilizzo del bene, permettono di definire i contesti entro cui si
collocano i diversi beni e, altresì, consentono di «sprigionare le potenzialità
di cui ciascun bene è portatore» (S. Rodotà 2012:114), liberandoli dalla
camicia di forza dell’appartenenza solitaria ed escludente.
La pubblica
amministrazione così cambia funzione, non interviene più in senso autoritativo
ma crea le condizioni, attraverso appositi regolamenti d’uso, affinché si
autogeneri un ambiente di sviluppo civico. In sostanza la civica
amministrazione torna ad amministrare per conto terzi.
In
conclusione, la nostra ipotesi è che gli enti territoriali, attraverso appositi
Regolamenti d’uso potrebbero riconoscere gli usi collettivi più recenti come
una delle forme di utilizzazione di quella parte dei beni pubblici – e in
generale di tutti quei beni (anche privati) vincolati ad una destinazione
pubblica – funzionali al soddisfacimento dei diritti fondamentali. Usi che si
stanno diffondendo specialmente nelle grandi città e che, per rispondere alla
crisi economica sociale ed ecologica in corso, rimettono al centro la funzione
sociale dei beni e la loro destinazione pubblica.
Un caso
esemplare, in tal senso, è quello dell’Ex Asilo Filangieri di Napoli, un
immobile posto nel cuore del centro storico della città, che il 2 marzo 2012 fu
occupato da una comunità di lavoratrici e di lavoratori dell’arte, della
cultura e dello spettacolo (www.exasilofolangieri.it). Da allora, su questi
presupposti teorici e su un’originale interpretazione della categoria dei beni
comuni individuati come tali per la partecipazione diretta dei cittadini al
governo del bene stesso (G. Micciarelli 2014), si pratica l’Uso civico e
collettivo urbano così come sancito in un’apposita Dichiarazione d’uso
(www.exasilofilangieri.it/regolamento-duso-civico/). Questa pratica, dopo
quattro anni di sperimentazione, è stata riconosciuta dal Comune con
un’apposita delibera di giunta, la n. 893 del 29 dicembre 2015. In essa si
sostiene «che la Civica amminstrazione, quale ente di prossimità al cittadino e
soggetto esponenziale dei diritti della collettività, debba garantire un
governo pubblico, partecipato e condiviso di servizi pubblici, beni comuni e di
utilità collettive» e che la stessa si impegna a dare «fermo impulso allo
sviluppo di una nuova forma di diritto pubblico che protegga e valorizzi i beni
funzionali alla tutela ed allo sviluppo dei diritti fondamentali, come beni di
appartenenza ed uso comune, civico, collettivo e sociale e come veri e propri
ambienti di sviluppo civico».
Questo
modello di generazione di nuove istituzione e di rigenerazione di quelle già
esistenti in una prospettiva di democrazia costituzionale si radica in una
teorpratica dei beni-in-comune mediante la quale i saperi si tramutano in
immediate forme pratiche dell’agire e dell’organizzazione. Una pratica dei
saperi da cui scaturiscono nuove forme concrete di organizzazione del dissenso
che potrebbero rappresentare una via di fuga dalla trappola dell’immanenza
della lotta politica. […]
estratto da
L.Bazzicalupo, F.Mancuso, G.Preterossi,
(a cura di), Le trasformazioni della
democrazia, Mimesis, Milano 2016