mercoledì 15 marzo 2017

abstract – “LA TRIBÙ DEI LUPI NERI-77. HAUGH!!!?!!”

-ANTONIO CASANO-


«Siamo sempre pronti a lottare per riappropriarci, in qualsiasi momento, della nostra vita  e quindi una semplice fumata non ci porterà a sotterrare l'ascia di guerra, Viso pallido, non ci vedrai mai più schiavi delle tue catene di montaggio. I nostri tamburi di guerra rulleranno nella notte un lugubre motivo che ossessionerà i tuoi sogni. Noi uomini lupi veglieremo affinché il tuo sonno non sia mai più tranquillo. PELLEROSSA, usciamo fuori dalle riserve, dai ghetti, dalle fabbriche in cui ci hanno rinchiuso e riprendiamoci le verdi praterie da dove ci hanno cacciati; HAUGH!!!?!! » 

-La tribù dei lupi neri-


...L'esperienza autonoma del movimento si sviluppa così in città nei primi mesi del ‘77, con una caratteristica fondamentale, cioè quella di un'organizzazione orizzontale dentro la quale si trovano compresenti il livello politico dell'elaborazione progettuale e il livello sociale della conflittualità: non c'è spazio per la separatezza tra avanguardia e massa. Anzi il rifiuto dell'organizzazione esterna come conquista egemonica del movimento può essere definito come principio costitutivo della soggettività. Del resto ogni richiamo alle dinamiche del movimento nazionale non è mai stato improntato alla statuizione di un nuovo soggetto politico. L'unico riferimento identitario complessivo in cui si riconosceva il movimento palermitano era la collocazione nella multitudinaria area dell'autonomia. D'altra parte la definizione di “Area” aveva semplicemente un carattere convenzionale, esemplificazione utile per far risaltare una molteplicità di soggetti non riducibili ad uno, e lasciava libera ogni singolarità di collocarsi in tematiche specifiche o di attraversarle in lungo e in largo, spaziando dentro/fuori dal politico al personale. Una complessità sociale, pur nella concrezione del proletariato giovanile, che non era riconducibile al Movimento operaio ufficiale. Quindi pur nella in/definitezza esemplificativa la dimensione identitaria di “area dell'autonomia” era pertinente, soprattutto per la realtà palermitana, in quanto stava a indicare per l'appunto un modello di aggregazione politica non più separata dalle lotte, dove il luogo della politica non è più esterno alla socialità conflittuale, cioè non è più dettato dall’avanguardia “professionale” – sul modello leninista –, bensì articolato nella soggettività sociale agente.
Dopo la primissima fase costitutiva del movimento le stesse motivazioni che avevano animato il primo momento della lotta contro il provvedimento-Malfatti cambiarono radicalmente. Fu proprio su questa maturazione conflittuale che si innestò la diatriba con i gruppi. La differenza fondamentale era l’approccio politico alla qualificazione del movimento: si aveva di fronte un movimento di studenti che si opponeva al “numero chiuso” malfattiano in difesa del diritto allo studio, oppure si trattava di un movimento che facendo leva sull’atto autoritario del governo affermava la propria diversità e originalità progettuale che lo collocava immediatamente nella dimensione sociale ed esistenziale, superando il limite dello “status studentesco”?
Nella sostanza la linea di demarcazione era tra:
 a) una prospettiva vertenziale rivendicativa, che guarda semplicemente alla riforma dell’istituzione universitaria, riducendo la lotta del movimento a espressione del disagio come effetto della causa principale;
 b) una dimensione politica di rifiuto dell’esistente che mette in discussione all’interno e all’esterno del movimento il sistema delle relazioni sociali ed individuali.
In questa seconda ipotesi l’occupazione delle facoltà rappresentava non un estremo strumento di lotta, ma un’opportunità politica e di ricerca, come se il movimento volesse sperimentare nel concreto la propria proposta di modello sociale oltre che il proprio rapporto col sapere – da questo punto di vista – alternativo a quello del baronaggio accademico. Il segno di questo modello alternativo erano soprattutto i seminari autogestiti, considerati come dei veri e propri laboratori di ricerca dentro cui si riversa la ricchezza delle conoscenze alimentata dalla socializzazione, in cui l’individuo non è più separato dall’astrazione didattica imposta dalla titolarità di cattedra, ma agisce dentro la comunità dove l’oggetto dello studio non è più scisso dalla sua soggettività. La pratica seminariale da allora è entrata nell’articolazione istituzionale della didattica universitaria, evidentemente espoliata della pratica autogestionale. In un certo senso oggi è come se si riconoscesse il valore scientifico della ricerca collettiva, innovazione questa valorizzata dal movimento del ‘77 che aveva criticato la solitudine, indotta dal sistema baronale, in cui la ricerca si trovava. Quella della ricerca era una delle tante questioni che trovava posto nelle discussioni programmatiche, dando voce ai ricercatori precari che subivano il ricatto baronale. Questi diedero vita ad una sorta di coordinamento d’interfacoltà che convergeva nella linea complessiva della lotta del movimento, rompendo con le dinamiche burocratiche-sindacali che ancora –il 26 gennaio, nel corso di un’assemblea tenutasi a Lettere- si tentò di ripristinare nella annosa vicenda dei ricercatori precari. In aperta contrapposizione alla piattaforma  sindacale, essi aderirono alla mozione approvata due giorni prima a Napoli dal Comitato d’Agitazione dei Precari, piattaforma alternativa che prevedeva il ruolo unico della docenza, il rilancio, il tempo-pieno e l’esclusività pubblicistica della ricerca, nonché l’abolizione della titolarità di cattedra.

Nel dicembre 76 veniva diramata la “Circolare Malfatti”, ministro della P.I. del “governo delle astensione”, con la quale de facto si introduceva surrettiziamente il cosiddetto «numero chiuso» nell’Università (un’anticipazione di quello che sarebbe stato da lì a poco lo strumento selettivo per l’accesso in quasi tutte le facoltà) e che fu l''elemento scatenante da cui originò il movimento del ‘77. Il Senato Accademico della città si distinse per essere stato il primo in Italia a deliberarne l'immediata applicazione, suscitando le prime reazioni studentesche, in primis a Lettere, dove si autoconvocò -in modo del tutto spontaneo- un'assemblea di facoltà con l'intento di dare una pronta risposta alla “solerzia senatrice”. L'iniziativa degli studenti non fu sostenuta dagli organismi organizzati all'interno. Il Collettivo Politico venne accusato di “burocraticismo”, così come pure veniva contestato il rappresentante del Consiglio di Facoltà, eletto nelle liste della Sinistra rivoluzionaria. L'onda del dibattito, aperto dai non-organizzati, cresceva fino al punto da travolgere le strutture politiche studentesche fino ad eleggere l'Assemblea come unica istanza legittimata politicamente a rappresentare in via diretta il movimento. Il 21 Gennaio, dopo una lunga discussione, in cui vennero ridefiniti anche principi e metodi organizzativi, l'Assemblea di Lettere vota l'occupazione della facoltà, allargando la protesta non solo alla “controriforma-Malfatti”, ma anche alle tematiche sulla condizione giovanile.
L'eco di Lettere si diffonde sull'intera comunità universitaria ed oltre (vedi l'aggregazione al movimento autonomo dei circoli e collettivi giovanili territoriali: “il Borgo Nuovo”, “il Villa Tasca”, solo per citarne alcuni). Nei giorni seguenti infatti occuperanno Farmacia (il 25 gen.), Architettura ed Agraria (il 28), Geologia (il 29), Medicina (l'1 Febbraio), Scienze (il 2) Ingegneria (il  3); mentre altre facoltà (Matematica e Magistero) avevano dichiarato lo stato d'agitazione con sospensione delle attività didattiche e blocco degli esami. In tutte le facoltà –occupate e non- si costituirono varie commissioni politiche-programmatiche aperte, doveva vennero elaborati veri e propri manifesti progettuali che configuravano proposte e modelli organizzativi nei vari ambiti della vita sociale: dalla Sanità (sul radicamento territoriale della medicina come condizione per la diffusione del metodo della prevenzione, sicurezza nei posti di lavoro a tutela della salute dei lavoratori, diffusione dei consultori   autogestiti, diritti del “malato” per un nuovo rapporto tra medico/paziente, tempo-pieno ed esclusivo degli operatori sanitari pubblici ed implementazioni delle risorse da destinare alla ricerca) al Territorio (riqualificazione del paesaggio urbano e naturale, risanamento e recupero architettonico, monumentale, economico e sociale del centro storico), dalla democratizzazione delle istituzioni (in primo luogo della pubblica istruzione, con la partecipazione diretta e paritaria degli studenti) fino alla “riscrittura” dei rapporti interpersonali, a cominciare dal rapporto Uomo/Donna. Tutti temi questi che oggi occupano la scena del dibattito odierno nell’attuale “spazio di rappresentanza”, e riconosciuti dagli studiosi come punti nodali decisi per il rinnovamento della democrazia, almeno sul piano teorico, dopo essere stati negati dall’intero ceto politico-istituzionale d’allora, nel frattempo scompaginato e che a fronte della crisi di legittimazione non seppe dare adeguate risposte sul terreno della mediazione istituzionale del conflitto.
Gli inizi della lotta avevano (ancora per poco) i tratti della contestazione studentesca, bloccata nel rifiuto dell’iniziativa del ministro, alla quale si opponevano due posizioni: una, quella del PCI, che “contrapponeva” il «numero programmato», l’altra, che rifiutava l’introduzione di qualsiasi sbarramento. Quest’ultima era animata dalla sinistra extraparlamentare e tuttavia la posizione era ben lungi dal rappresentare unitariamente il movimento. Infatti, molto presto, uscita di scena la proposta del «numero programmato», sul campo rimanevano le differenze dei gruppi che strada facendo sfociarono in fratture insanabili non solo tra essi e il movimento, ma all’interno stesso delle organizzazioni. Ciò che si registrava in quei giorni era l’esodo dei militanti delle formazioni politiche e la loro spontanea ed individuale aggregazione al magma del Movimento. La svolta di questo processo si può far risalire all’11 febbraio a Medicina che fu teatro dell’assemblea d’ateneo, nella quale i gruppi avrebbero voluto sancire l’apertura formale di una “vertenza d’ateneo”. Ad essi si contrappone il movimento che rifiuta ogni pretesa “di imporre obiettivi concreti”, giacché una tale pratica significava “operare la cadaverizzazione istituzionale del movimento. Programmi, vertenze, etc. sono il marcio residuo del vecchio modo di fare politica”. Per la verità già qualche giorno prima (il 7 febbraio a Ingegneria) c’era stata una sorta di rivolta contro l’«aristocrazia rivoluzionaria», allorquando i fuorisede contrastarono il tentativo di burocratizzare il movimento con l’elezione formale di un coordinamento d’ateneo che avrebbe dovuto “rappresentare” gli studenti nella trattativa d’aprire con gli organi istituzionali dell’Università.
In sostanza il Movimento – dopo la prima fase ondeggiante caratterizzata da un lungo dibattito assembleare, da un lato schiacciato da una logica contrattualistica sul tema del diritto allo studio e dall’altro dalla configurazione di un rivolgimento generale sui temi della politica e del personale, dei rapporti sociali e dell’esistenza individuale – si trasforma in un vero e proprio laboratorio sociale autoprogettuale dove si sperimenteranno forme di comunicazione e di espressività creativa in cui la critica del Politico (dalle sue categorie classiche – la forma partito in primo luogo – fino alle sue riproduzioni postsessantotesche) emerge in modo prorompente nella molteplicità dei soggetti. Anzi la critica del Politico è assunta come centralità nei rapporti interni del Movimento. Perfino nei gruppi di autocoscienza si sostanzia l'obiettivo della sua negazione in quanto in tutte le sue varianti il Politico è percepito come espressione di Dominio, luogo del Potere e dell’oppressione. La chiave di questa lettura veniva fornita dal movimento femminista che radicalizzava l’antagonismo contro il Potere-Maschio e, sia pure in presenza di una condizione di separatezza dal resto del movimento, lo specifico femminista in qualche modo riusciva a socializzare le proprie analisi e i propri strumenti di comunicazione: la pratica dell’autocoscienza per esempio veniva sviluppata anche nel corso delle occupazioni delle facoltà, ed erano proprio le femministe a condurre i gruppi di ricerca. Ma anche sul terreno per così dire “politico generale” (come si diceva una volta) il nuovo femminismo -così come definivano la loro specificità dentro il movimento il gruppo de Le Comunarde- rivendicava un ruolo attivo, di protagonismo progettuale, diretto e non mediabile da ipostasi trascendenti e onnicomprensive: “l’«unità» dei soggetti rivoluzionari non avrà bisogno di nessuna mediazione, ma al contrario si concretizzerà lasciando esprimere e valorizzando al massimo l’autonomia femminista, il suo percorso specifico, la sua capacità eversiva. (…) qualunque proposta di «rapida sintesi» susciterà la nostra diffidenza e la nostra criticità, perché non potrà non presentarcisi con caratteristiche di dominanza maschile”.

L’originalità del movimento autonomo palermitano consiste anche nel fatto che esso irrompe sulla scena politico-sociale senza avere avuto alcun sostrato teorico formale. Mentre in buona parte del resto del paese sin dal ‘73, dopo l'autoscioglimento di PotOp, si erano costituiti gruppi, collettivi e centri sociali autonomi, più o meno strutturati sul piano locale o al più coordinati – come si direbbe oggi – “in reti” regionali che comunque avevano una radice principale comune, quella “operaista” (senza per questo volere attribuire una valenza maieutica al movimento del ‘77), a Palermo non si registrano in quel periodo esperienze significative direttamente riconducibili all’area dell’autonomia operaia. Eppure nel ‘77, in un sol colpo, si diffonde un movimento straordinario, la cui dimensione sociale non ha nulla da invidiare ai movimenti conosciuti nella storia delle lotte dell’isola. I gruppi extraparlamentari, che pure avevano avuto una significativa presenza nella città, si dissolvono man mano che il movimento assume le caratteristiche di una nuova socialità. Una soggettività che aveva preso coscienza di essere altro rispetto a quello conosciuto più da vicino, nelle lotte della prima metà degli anni Settanta: il  nelle lotte delle prima metà degli anni Settanta. a vicinocarattere della radicalità critica, unito alla separatezza dallo stereotipo del modello dell’antagonismo operaio ereditato anche dalle lotte popolari organizzate dai partiti tradizionali della sinistra, si definiva a partire dal rifiuto della gerarchizzazione vertenziale che nello specifico si articolava nella negazione di qualsiasi piattaforma rivendicativa che avrebbe codificato il movimento nella solita scaletta di obiettivi, come se si trattasse dell’ennesima battaglia per il diritto allo studio (nel caso in specie era la circolare-Malfatti l’oggetto di contestazione), messa in piedi dal ciclico malcontento studentesco che incrociava l’istituzione scolastica e/o universitaria per richiederne la riforma.

(…) Orbene quel che traspare dalla vicenda della sinistra antagonista palermitana è che, al di là del settarismo ideologico professato in linea di principio, proprio la organizzazione orizzontale studentesca sia stata il meglio dell’azione conflittuale prima dell’avvento del Settantasette. In realtà il movimento studentesco, nonostante le sue avanguardie facessero riferimento ai gruppi extraparlamentari, viveva di vita propria. Sostanzialmente quello che era il prototipo del “militante”, prima ancora di essere “avanguardia politica” e portatore della linea del gruppo di appartenenza, si sentiva parte della comunità dentro cui promuoveva le lotte e sviluppava la critica del sistema partendo dall’autoritarismo istituzionale della pubblica istruzione: in fondo la scuola era la sua fabbrica. Può essere, allora, che quella soggettività si sia liberata dall’immaginario mitologico e possa avere preso coscienza della propria condizione sociale nel/col movimento del ‘77, riconoscendosi come soggettività autonoma originale, costituita da una pluralità di soggetti portatori di istanze specifiche e generali allo stesso tempo?
Dal punto di vista generazionale il movimento studentesco del '72-'73 era ovviamente diverso da quello del '68. Certo, nell'immaginario collettivo il '68 era il luogo dell'identità comune delle generazioni che seguirono. Questa “continuità identitaria” veniva favorita dai gruppi extraparlamentari che svolsero la funzione di collante generazionale. Ma mentre questi riproponevano una pratica politica articolata secondo lo stereotipo degli schemi tradizionali – rapporto avanguardia/massa – volta alla competizione con il Movimento operaio ufficiale con l'obiettivo di conquistarne l'egemonia sulla classe, nelle giovanissime leve del movimento studentesco invece si faceva largo una critica e una presa di coscienza che le proiettava oltre lo status di studente: dopo le politiche del pieno impiego si faceva strada nel loro futuro lo spettro della disoccupazione di massa strutturale che, negli anni, avrebbe toccato fasce di età più alte (consideriamo l'innalzamento dell'età di prima occupazione) fino a comprendervi i lavoratori espulsi dal ciclo produttivo che difficilmente venivano ricollocati in impieghi stabili. In altri termini, quella che veniva definita “disoccupazione giovanile” era già il segno della destrutturazione del mercato del lavoro, l'apertura della stagione della fine dell'epoca fordista, la fine della tendenza al “pieno impiego”, e non era nemmeno più semplicemente “esercito industriale di riserva”.


(*)  ESTRATTO da A. Casano, Il movimento autonomo palermitano, in AA.VV. Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie (a cura di S. Bianchi e L. Caminiti), DeriveApprodi, 2007, vol.I