«Siamo sempre pronti a lottare per
riappropriarci, in qualsiasi momento, della nostra vita e quindi una semplice fumata non ci porterà a
sotterrare l'ascia di guerra, Viso pallido, non ci vedrai mai più schiavi delle
tue catene di montaggio. I nostri tamburi di guerra rulleranno nella notte un
lugubre motivo che ossessionerà i tuoi sogni. Noi uomini lupi veglieremo
affinché il tuo sonno non sia mai più tranquillo. PELLEROSSA, usciamo fuori
dalle riserve, dai ghetti, dalle fabbriche in cui ci hanno rinchiuso e
riprendiamoci le verdi praterie da dove ci hanno cacciati; HAUGH!!!?!! »
-La tribù dei lupi neri-
...L'esperienza autonoma del movimento si sviluppa così in città nei primi mesi del ‘77, con una caratteristica fondamentale, cioè quella di un'organizzazione orizzontale dentro la quale si trovano compresenti il livello politico dell'elaborazione progettuale e il livello sociale della conflittualità: non c'è spazio per la separatezza tra avanguardia e massa. Anzi il rifiuto dell'organizzazione esterna come conquista egemonica del movimento può essere definito come principio costitutivo della soggettività. Del resto ogni richiamo alle dinamiche del movimento nazionale non è mai stato improntato alla statuizione di un nuovo soggetto politico. L'unico riferimento identitario complessivo in cui si riconosceva il movimento palermitano era la collocazione nella multitudinaria area dell'autonomia. D'altra parte la definizione di “Area” aveva semplicemente un carattere convenzionale, esemplificazione utile per far risaltare una molteplicità di soggetti non riducibili ad uno, e lasciava libera ogni singolarità di collocarsi in tematiche specifiche o di attraversarle in lungo e in largo, spaziando dentro/fuori dal politico al personale. Una complessità sociale, pur nella concrezione del proletariato giovanile, che non era riconducibile al Movimento operaio ufficiale. Quindi pur nella in/definitezza esemplificativa la dimensione identitaria di “area dell'autonomia” era pertinente, soprattutto per la realtà palermitana, in quanto stava a indicare per l'appunto un modello di aggregazione politica non più separata dalle lotte, dove il luogo della politica non è più esterno alla socialità conflittuale, cioè non è più dettato dall’avanguardia “professionale” – sul modello leninista –, bensì articolato nella soggettività sociale agente.
Dopo la primissima
fase costitutiva del movimento le stesse motivazioni che avevano animato il
primo momento della lotta contro il provvedimento-Malfatti cambiarono
radicalmente. Fu proprio su questa maturazione conflittuale che si innestò la
diatriba con i gruppi. La differenza fondamentale era l’approccio politico alla
qualificazione del movimento: si aveva di fronte un movimento di studenti che
si opponeva al “numero chiuso” malfattiano in difesa del diritto allo studio,
oppure si trattava di un movimento che facendo leva sull’atto autoritario del
governo affermava la propria diversità e originalità progettuale che lo
collocava immediatamente nella dimensione sociale ed esistenziale, superando il
limite dello “status studentesco”?
Nella sostanza la
linea di demarcazione era tra:
a) una prospettiva vertenziale rivendicativa,
che guarda semplicemente alla riforma dell’istituzione universitaria, riducendo
la lotta del movimento a espressione del disagio come effetto della causa
principale;
b) una dimensione politica di rifiuto
dell’esistente che mette in discussione all’interno e all’esterno del movimento
il sistema delle relazioni sociali ed individuali.
In questa seconda
ipotesi l’occupazione delle facoltà rappresentava non un estremo strumento di
lotta, ma un’opportunità politica e di ricerca, come se il movimento volesse
sperimentare nel concreto la propria proposta di modello sociale oltre che il proprio rapporto col sapere – da
questo punto di vista – alternativo a quello del baronaggio accademico. Il
segno di questo modello alternativo erano soprattutto i seminari autogestiti,
considerati come dei veri e propri laboratori di ricerca dentro cui si riversa
la ricchezza delle conoscenze alimentata dalla socializzazione, in cui
l’individuo non è più separato dall’astrazione didattica imposta dalla
titolarità di cattedra, ma agisce dentro la comunità dove l’oggetto dello
studio non è più scisso dalla sua soggettività. La pratica seminariale da
allora è entrata nell’articolazione istituzionale della didattica
universitaria, evidentemente espoliata della pratica autogestionale. In un
certo senso oggi è come se si riconoscesse il valore scientifico della ricerca
collettiva, innovazione questa valorizzata dal movimento del ‘77 che aveva
criticato la solitudine, indotta dal sistema baronale, in cui la ricerca si
trovava. Quella della ricerca era una delle tante questioni che trovava posto
nelle discussioni programmatiche, dando voce ai ricercatori precari che
subivano il ricatto baronale. Questi diedero vita ad una sorta di coordinamento
d’interfacoltà che convergeva nella linea complessiva della lotta del
movimento, rompendo con le dinamiche burocratiche-sindacali che ancora –il 26
gennaio, nel corso di un’assemblea tenutasi a Lettere- si tentò di ripristinare
nella annosa vicenda dei ricercatori precari. In aperta contrapposizione alla
piattaforma sindacale, essi aderirono
alla mozione approvata due giorni prima a Napoli dal Comitato d’Agitazione dei
Precari, piattaforma alternativa che prevedeva il ruolo unico della docenza, il
rilancio, il tempo-pieno e l’esclusività pubblicistica della ricerca, nonché
l’abolizione della titolarità di cattedra.
Nel dicembre 76 veniva diramata la “Circolare Malfatti”, ministro della P.I. del “governo delle
astensione”, con la quale de facto
si introduceva
surrettiziamente il cosiddetto «numero chiuso» nell’Università
(un’anticipazione di quello che sarebbe stato da lì a poco lo strumento
selettivo per l’accesso in quasi tutte le facoltà) e che fu l''elemento
scatenante da cui originò il movimento del ‘77. Il Senato Accademico della città si distinse per essere stato il primo in
Italia a deliberarne l'immediata applicazione, suscitando le prime reazioni
studentesche, in primis a Lettere, dove si autoconvocò -in modo del
tutto spontaneo- un'assemblea di facoltà con l'intento di dare una pronta
risposta alla “solerzia senatrice”. L'iniziativa degli studenti non fu
sostenuta dagli organismi organizzati all'interno. Il Collettivo Politico venne
accusato di “burocraticismo”, così come pure veniva contestato il
rappresentante del Consiglio di Facoltà, eletto nelle liste della Sinistra
rivoluzionaria. L'onda del dibattito, aperto dai non-organizzati, cresceva fino
al punto da travolgere le strutture politiche studentesche fino ad eleggere
l'Assemblea come unica istanza legittimata politicamente a rappresentare in
via diretta il movimento. Il 21 Gennaio, dopo una lunga discussione, in cui
vennero ridefiniti anche principi e metodi organizzativi, l'Assemblea di
Lettere vota l'occupazione della facoltà, allargando la protesta non solo alla
“controriforma-Malfatti”, ma anche alle tematiche sulla condizione giovanile.
L'eco di Lettere si diffonde sull'intera comunità universitaria ed oltre
(vedi l'aggregazione al movimento autonomo dei circoli e collettivi giovanili
territoriali: “il Borgo Nuovo”, “il Villa Tasca”, solo per citarne alcuni). Nei
giorni seguenti infatti occuperanno Farmacia (il 25 gen.), Architettura ed
Agraria (il 28), Geologia (il 29), Medicina (l'1 Febbraio), Scienze (il 2)
Ingegneria (il 3); mentre altre facoltà
(Matematica e Magistero) avevano dichiarato lo stato d'agitazione con
sospensione delle attività didattiche e blocco degli esami. In tutte le facoltà
–occupate e non- si costituirono varie commissioni politiche-programmatiche
aperte, doveva vennero elaborati veri e propri manifesti progettuali che
configuravano proposte e modelli organizzativi nei vari ambiti della vita
sociale: dalla Sanità (sul radicamento territoriale della medicina come
condizione per la diffusione del metodo della prevenzione, sicurezza nei posti
di lavoro a tutela della salute dei lavoratori, diffusione dei consultori autogestiti, diritti del “malato” per un
nuovo rapporto tra medico/paziente, tempo-pieno ed esclusivo degli operatori
sanitari pubblici ed implementazioni delle risorse da destinare alla ricerca)
al Territorio (riqualificazione del paesaggio urbano e naturale, risanamento e
recupero architettonico, monumentale, economico e sociale del centro storico),
dalla democratizzazione delle istituzioni (in primo luogo della pubblica
istruzione, con la partecipazione diretta e paritaria degli studenti) fino alla
“riscrittura” dei rapporti interpersonali, a cominciare dal rapporto
Uomo/Donna. Tutti temi questi che oggi occupano la scena del dibattito odierno
nell’attuale “spazio di rappresentanza”, e riconosciuti dagli studiosi come
punti nodali decisi per il rinnovamento della democrazia, almeno sul piano
teorico, dopo essere stati negati dall’intero ceto politico-istituzionale
d’allora, nel frattempo scompaginato e che a fronte della crisi di
legittimazione non seppe dare adeguate risposte sul terreno della mediazione
istituzionale del conflitto.
Gli inizi della
lotta avevano (ancora per poco) i tratti della contestazione studentesca,
bloccata nel rifiuto dell’iniziativa del ministro, alla quale si opponevano due
posizioni: una, quella del PCI, che “contrapponeva” il «numero programmato»,
l’altra, che rifiutava l’introduzione di qualsiasi sbarramento. Quest’ultima
era animata dalla sinistra extraparlamentare e tuttavia la posizione era ben
lungi dal rappresentare unitariamente il movimento. Infatti, molto presto,
uscita di scena la proposta del «numero programmato», sul campo rimanevano le
differenze dei gruppi che strada facendo sfociarono in fratture insanabili non
solo tra essi e il movimento, ma all’interno stesso delle organizzazioni. Ciò
che si registrava in quei giorni era l’esodo dei militanti delle formazioni
politiche e la loro spontanea ed individuale aggregazione al magma del
Movimento. La svolta di questo processo si può far risalire all’11 febbraio a
Medicina che fu teatro dell’assemblea d’ateneo, nella quale i gruppi avrebbero
voluto sancire l’apertura formale di una “vertenza d’ateneo”. Ad essi si
contrappone il movimento che rifiuta ogni pretesa “di imporre obiettivi
concreti”, giacché una tale pratica significava “operare la cadaverizzazione
istituzionale del movimento. Programmi, vertenze, etc. sono il marcio residuo
del vecchio modo di fare politica”. Per la verità già qualche giorno prima (il
7 febbraio a Ingegneria) c’era stata una sorta di rivolta contro l’«aristocrazia
rivoluzionaria», allorquando i fuorisede contrastarono il tentativo di
burocratizzare il movimento con l’elezione formale di un coordinamento d’ateneo
che avrebbe dovuto “rappresentare” gli studenti nella trattativa d’aprire con
gli organi istituzionali dell’Università.
In sostanza il
Movimento – dopo la prima fase ondeggiante caratterizzata da un lungo dibattito
assembleare, da un lato schiacciato da una logica contrattualistica sul tema
del diritto allo studio e dall’altro dalla configurazione di un rivolgimento
generale sui temi della politica e del personale, dei rapporti sociali e
dell’esistenza individuale – si trasforma in un vero e proprio laboratorio
sociale autoprogettuale dove si sperimenteranno forme di comunicazione e di
espressività creativa in cui la critica del Politico (dalle sue categorie
classiche – la forma partito in primo luogo – fino alle sue riproduzioni
postsessantotesche) emerge in modo prorompente nella molteplicità dei soggetti.
Anzi la critica del Politico è assunta come centralità nei rapporti interni del
Movimento. Perfino nei gruppi di autocoscienza si sostanzia l'obiettivo della
sua negazione in quanto in tutte le sue varianti il Politico è percepito come
espressione di Dominio, luogo del Potere e dell’oppressione. La chiave di
questa lettura veniva fornita dal movimento femminista che radicalizzava
l’antagonismo contro il Potere-Maschio e, sia pure in presenza di una
condizione di separatezza dal resto del movimento, lo specifico femminista in
qualche modo riusciva a socializzare le proprie analisi e i propri strumenti di
comunicazione: la pratica dell’autocoscienza per esempio veniva sviluppata
anche nel corso delle occupazioni delle facoltà, ed erano proprio le femministe
a condurre i gruppi di ricerca. Ma anche sul terreno per così dire “politico
generale” (come si diceva una volta) il nuovo
femminismo -così come definivano la loro specificità dentro il movimento il
gruppo de Le Comunarde- rivendicava
un ruolo attivo, di protagonismo progettuale, diretto e non mediabile da
ipostasi trascendenti e onnicomprensive: “l’«unità» dei soggetti rivoluzionari
non avrà bisogno di nessuna mediazione, ma al contrario si concretizzerà
lasciando esprimere e valorizzando al massimo l’autonomia femminista, il suo percorso specifico, la sua capacità
eversiva. (…) qualunque proposta di «rapida sintesi» susciterà la nostra
diffidenza e la nostra criticità, perché non potrà non presentarcisi con
caratteristiche di dominanza maschile”.
L’originalità del
movimento autonomo palermitano consiste anche nel fatto che esso irrompe sulla
scena politico-sociale senza avere avuto alcun sostrato teorico formale. Mentre
in buona parte del resto del paese sin dal ‘73, dopo l'autoscioglimento di
PotOp, si erano costituiti gruppi, collettivi e centri sociali autonomi, più o
meno strutturati sul piano locale o al più coordinati – come si direbbe oggi – “in
reti” regionali che comunque avevano una radice principale comune, quella
“operaista” (senza per questo volere attribuire una valenza maieutica al
movimento del ‘77), a Palermo non si registrano in quel periodo esperienze
significative direttamente riconducibili all’area dell’autonomia operaia.
Eppure nel ‘77, in un sol colpo, si diffonde un movimento straordinario, la cui
dimensione sociale non ha nulla da invidiare ai movimenti conosciuti nella
storia delle lotte dell’isola. I gruppi extraparlamentari, che pure avevano
avuto una significativa presenza nella città, si dissolvono man mano che il
movimento assume le caratteristiche di una nuova socialità. Una soggettività
che aveva preso coscienza di essere altro
rispetto a quello conosciuto più da vicino, nelle lotte della prima metà degli
anni Settanta: il carattere della radicalità
critica, unito alla separatezza dallo
stereotipo del modello dell’antagonismo operaio ereditato anche dalle lotte
popolari organizzate dai partiti tradizionali della sinistra, si definiva a
partire dal rifiuto della gerarchizzazione vertenziale che nello specifico si
articolava nella negazione di qualsiasi piattaforma rivendicativa che avrebbe
codificato il movimento nella solita scaletta di obiettivi, come se si
trattasse dell’ennesima battaglia per il diritto allo studio (nel caso in
specie era la circolare-Malfatti l’oggetto di contestazione), messa in piedi
dal ciclico malcontento studentesco che incrociava l’istituzione scolastica e/o
universitaria per richiederne la riforma.
(…) Orbene quel che traspare dalla vicenda della sinistra antagonista
palermitana è che, al di là del settarismo ideologico professato in linea di
principio, proprio la organizzazione orizzontale studentesca sia stata il
meglio dell’azione conflittuale prima dell’avvento del Settantasette. In realtà
il movimento studentesco, nonostante le sue avanguardie facessero riferimento
ai gruppi extraparlamentari, viveva di vita propria. Sostanzialmente quello che
era il prototipo del “militante”, prima ancora di essere “avanguardia politica”
e portatore della linea del gruppo di appartenenza, si sentiva parte della
comunità dentro cui promuoveva le lotte e sviluppava la critica del sistema
partendo dall’autoritarismo istituzionale della pubblica istruzione: in fondo la
scuola era la sua fabbrica. Può essere, allora, che quella soggettività si sia
liberata dall’immaginario mitologico e possa avere preso coscienza della
propria condizione sociale nel/col movimento del ‘77, riconoscendosi come
soggettività autonoma originale, costituita da una pluralità di soggetti
portatori di istanze specifiche e generali allo stesso tempo?
Dal punto di vista generazionale il movimento
studentesco del '72-'73 era ovviamente diverso da quello del '68. Certo,
nell'immaginario collettivo il '68 era il luogo dell'identità comune delle
generazioni che seguirono. Questa “continuità identitaria” veniva favorita dai
gruppi extraparlamentari che svolsero la funzione di collante generazionale. Ma
mentre questi riproponevano una pratica politica articolata secondo lo
stereotipo degli schemi tradizionali – rapporto avanguardia/massa – volta alla
competizione con il Movimento operaio ufficiale con l'obiettivo di conquistarne
l'egemonia sulla classe, nelle giovanissime leve del movimento studentesco
invece si faceva largo una critica e una presa di coscienza che le proiettava
oltre lo status di studente: dopo le politiche del pieno impiego si
faceva strada nel loro futuro lo spettro della disoccupazione di massa
strutturale che, negli anni, avrebbe toccato fasce di età più alte
(consideriamo l'innalzamento dell'età di prima occupazione) fino a comprendervi
i lavoratori espulsi dal ciclo produttivo che difficilmente venivano
ricollocati in impieghi stabili. In altri termini, quella che veniva definita
“disoccupazione giovanile” era già il segno della destrutturazione del mercato
del lavoro, l'apertura della stagione della fine dell'epoca fordista, la fine
della tendenza al “pieno impiego”, e non era nemmeno più semplicemente
“esercito industriale di riserva”.
(*)
ESTRATTO da A. Casano, Il movimento autonomo palermitano, in AA.VV.
Gli autonomi. Le storie, le lotte, le
teorie (a cura di S. Bianchi e L. Caminiti), DeriveApprodi, 2007, vol.I