lunedì 27 marzo 2017

recensioni – GIÙ LA MASCHERA

-ENDA BROPHY-

la forma di accumulazione “bio-economica” e la crescente necessità comunicativa del capitalismo cognitivo/

la valorizzazione del non-lavoro ovvero lo sfruttamento delle capacità sociali sviluppate al di fuori del posto di lavoro/
l’indagine del n.1/17 dei “Quaderni di sudcomune” esplora il contenuto sociale del dialogo-merce, la diversità delle prestazioni, delle tecniche di misurazione e delle metodologie di controllo all’interno della galassia dei call center

Al crepuscolo del fordismo, nel 1970, il famoso sociologo americano Daniel Bell divise la storia umana e le sue forme predominanti di lavoro in tre fasi. In epoca preindustriale, Bell suggerì, gli esseri umani sono stati impegnati principalmente in un gioco contro la natura. Nell’epoca industriale i lavoratori sono stati impegnati in una partita contro le macchine. Nell’epoca post industriale, che il professore di Harvard vide emergere, invece, osservò che il lavoro usciva dalla fabbrica per diventare un «gioco tra persone». L’argomento e le sue implicazioni saranno familiari a molti. Da Bell in poi successive generazioni di teorici liberal-democratici e di management del lavoro hanno interpretato il “knowledge worker” come portatore di un futuro migliore: oltre la fatica della fabbrica, oltre l’alienazione e le gerarchie cui è stato sottoposto il lavoro fordista. La grande narrazione di Bell è anche un ammonimento sui pericoli dell’analisi accademica distolta (The coming of post-industrial society: A venture in social forecasting, Basic Books, New York 1973).
I racconti senza compromessi contenuti in questi Quaderni sul lavoro nei call center calabresi, l’attenta analisi dello sfruttamento e della resistenza quotidiana che offrono, ci trasmettono invece una immagine profondamente diversa a partire delle forme di lavoro di più rapida crescita dell’ultimo quarto di secolo. Per dirla con una preziosa formulazione contenuta in un intervento, le testimonianze offerte nelle pagine che seguono ci narrano di «nuovi soggetti e vecchie modalità di sfruttamento», che continuano però ad animare un settore assolutamente vitale per il capitalismo contemporaneo.
L’indagine svolta da questi ricercatori militanti ci dà una prospettiva graffiante su come la fabbrica del «gioco tra le persone» e la sua produzione di una forza lavoro sorridente, piena di comprensione e amichevole, viene effettuata a costo di salari da fame, di esaurimento emotivo, di ansia insopportabile e depressione diffusa. Dagli anni novanta i call center proliferano in tandem con la crescente comunicatività del capitale. Per la maggior parte delle grandi aziende oggi c’è l’aspettativa che i consumatori possano mettersi o restare in contatto con loro, personalizzare il servizio, ottenere aiuto per l’utilizzo del prodotto, controllare lo stato del proprio account, notificare la compagnia quando ci sono problemi, offrire un commento, minacciare di rompere il contratto, e così via. In attività anche molto diverse come fornire supporto tecnico, propagare truffe online, promuovere candidati politici, ricercare modelli di consumo, dispensare consigli sulla salute, pubblicizzare nuovi prodotti; ed anche per individuarci e “rimettere a noi i nostri debiti”, i call center sono diventati un apparato di vitale importanza per la mediazione del rapporto tra le istituzioni e i soggetti del capitalismo digitale in quello che alcuni hanno definito « un cambiamento paradigmatico nelle modalità di interfacciarsi con i clienti che attraversa l’intera economia» (Bain, Taylor, Watson, Mulvey, e Gall, “Taylorism, targets and the pursuit of quantity and quality by call centre management”, in New Technology, Work and Employment, 17(3), 2002, p. 184). Attraverso milioni di transazioni al giorno, i call center intessono rapporti tra istituzioni e consumatori attraverso le infrastrutture di telecomunicazione dell’economia globale. Il risultante flusso continuo di comunicazioni deve essere organizzato e compresso in modo che costi al capitale il meno possibile, e lo sviluppo dei call center nel corso degli ultimi decenni del ventesimo secolo rappresenta la risposta a questa nuova necessità, la sua razionalizzazione, la sua dimora nascosta nella produzione comunicativa. La raccolta di esperienze nei call center presentate in questo quaderno chiarifica quanto la nuova forza lavoro sia collegata alla accresciute esigenze comunicative del capitalismo. Bell aveva assolutamente ragione quando notava l’emergere di un regime di accumulazione in cui il linguaggio, gli affetti e la comunicazione diventavano sempre più fonte di valorizzazione. Quello che convenientemente ignorava era la possibilità che una versione digitalizzata dell’organizzazione scientifica del lavoro di stampo taylorista diventasse un mezzo efficiente (anche se non sempre efficace) per generare plusvalore comunicativo dai lavoratori cognitivi. I call center, come i testi che seguono illustrano in modo vivace, impongono agli operatori, dall’alto, delle forme di comunicazione intensamente strumentalizzate, attraverso script progettati per dividere consumatori ingenui dal loro denaro, vendere loro qualcosa di cui non hanno bisogno, o far finire la conversazione molto più velocemente di quanto succederebbe in circostanze normali. Il call center nega la comunicazione, ma dipende anche da essa. Se le tecniche razionalizzate per l’estrazione di plusvalore sono purtroppo familiari per chi ha conosciuto e conosce la fabbrica, ciò che l’inchiesta politica conferma è che nei call center si verifica una forma di accumulazione “bio-economica”, che valorizza le capacità sociali sviluppate al di fuori del posto di lavoro. Questi interventi esplorano il contenuto sociale del dialogo-merce, notando con attenzione la diversità delle prestazioni, delle forme di misura e dei metodi di controllo della forza lavoro all’interno della galassia dei call center. Allo stesso tempo, anche con tutta la diversità nelle applicazioni di questo assemblaggio, ciò che rimane costante è la valorizzazione da parte del capitale dei sorrisi della sua forza lavoro, l’appropriazione che esso compie della totalità della loro socialità. Sulla linea di montaggio nella fabbrica tradizionale la mente poteva almeno vagare mentre il corpo faticava. Con una catena di montaggio linguistica, invece, il lavoro invade la soggettività e con essa quello che resta del tempo libero, come ben evidenzia il tic consueto (ripetere gli script) che hanno gli operatori anche quando rispondono al telefono ad amici. Questi testi rivelano anche, semmai dovessero esserci ancora dubbi in proposito, l’incredibile potenziale dell’inchiesta militante applicata alle questioni del lavoro. Come tale, l’inchiesta al centro di queste analisi ha molto in comune con le indagini illuminanti sui call center condotte in Europa, America Latina e Asia del Sud da reti di lavoratori, attivisti, sindacalisti e dai loro alleati nelle università. Collettivi come «Colectivo Situaciones», la “Cátedra Experimental Sobre Producción de Subjetividad”, “Kolinko”, “Gurgaon Workers News” e altri hanno affinato un metodo lanciato da Marx e raccolto dagli operaisti italiani, un metodo che attraversa la composizione della forza lavoro e la loro soggettività, tenendo sempre in primo piano la possibilità di costruzione di organizzazioni collettive e di lotta. L’immagine spietata, senza veli, del settore globale dei call center che emerge da questi studi è la risposta più efficace agli scritti autoreferenziali dei teorici di management americani. Il sapere più prezioso per il proletariato digitale è quello prodotto in maniera immanente, dalla rabbia per le umiliazioni subite in questo posto di lavoro loquace. È all’interno delle “situazioni insostenibili” che si vengono a creare che l’organizzazione aziendale mostra per intero le sue lacune e il suo carattere ideologico; ed è in queste situazioni che le forme di soggettività imposte dal management sulla forza lavoro, spesso riluttante, vengono percepite come ambigue e contraddittorie. Uno dei principali obiettivi dell’inchiesta politica, di cui le pagine che seguono tracciano un resoconto, è quello di far cadere la maschera del “bravo operatore di call center”, una maschera su cui è impresso un sorriso perpetuo a vantaggio unicamente dei clienti e dei padroni. Con grande intuizione e 13 attenta analisi questi scritti rimuovono la maschera imposta da management sulla forza lavoro. E quando la maschera è rimossa le lotte ritornano in gioco.
Prefazione a                                                                                                                                                                                                  “Il prezzo di un sorriso. Vita, linguaggi e sfruttamento nei call center” di Francesco Maria Pezzulli, Quaderni di sudcomune, n.1/2017