-ENDA BROPHY-
la forma di accumulazione “bio-economica” e la crescente
necessità comunicativa del capitalismo cognitivo/
la valorizzazione del
non-lavoro ovvero lo sfruttamento delle capacità sociali sviluppate al di fuori
del posto di lavoro/
l’indagine del n.1/17 dei “Quaderni di sudcomune” esplora il contenuto sociale del
dialogo-merce, la diversità delle prestazioni, delle tecniche di misurazione e
delle metodologie di controllo all’interno della galassia dei call center
Al crepuscolo del
fordismo, nel 1970, il famoso sociologo americano Daniel Bell divise la storia
umana e le sue forme predominanti di lavoro in tre fasi. In epoca
preindustriale, Bell suggerì, gli esseri umani sono stati impegnati
principalmente in un gioco contro la natura. Nell’epoca industriale i
lavoratori sono stati impegnati in una partita contro le macchine. Nell’epoca
post industriale, che il professore di Harvard vide emergere, invece, osservò
che il lavoro usciva dalla fabbrica per diventare un «gioco tra persone».
L’argomento e le sue implicazioni saranno familiari a molti. Da Bell in poi
successive generazioni di teorici liberal-democratici e di management del
lavoro hanno interpretato il “knowledge worker” come portatore di un futuro
migliore: oltre la fatica della fabbrica, oltre l’alienazione e le gerarchie
cui è stato sottoposto il lavoro fordista. La grande narrazione di Bell è anche
un ammonimento sui pericoli dell’analisi accademica distolta (The coming of
post-industrial society: A venture in social forecasting, Basic Books, New York
1973).
I racconti senza
compromessi contenuti in questi Quaderni sul lavoro nei call center calabresi,
l’attenta analisi dello sfruttamento e della resistenza quotidiana che offrono,
ci trasmettono invece una immagine profondamente diversa a partire delle forme
di lavoro di più rapida crescita dell’ultimo quarto di secolo. Per dirla con
una preziosa formulazione contenuta in un intervento, le testimonianze offerte
nelle pagine che seguono ci narrano di «nuovi soggetti e vecchie modalità di
sfruttamento», che continuano però ad animare un settore assolutamente vitale
per il capitalismo contemporaneo.
L’indagine svolta da
questi ricercatori militanti ci dà una prospettiva graffiante su come la
fabbrica del «gioco tra le persone» e la sua produzione di una forza lavoro
sorridente, piena di comprensione e amichevole, viene effettuata a costo di
salari da fame, di esaurimento emotivo, di ansia insopportabile e depressione
diffusa. Dagli anni novanta i call center proliferano in tandem con la
crescente comunicatività del capitale. Per la maggior parte delle grandi
aziende oggi c’è l’aspettativa che i consumatori possano mettersi o restare in
contatto con loro, personalizzare il servizio, ottenere aiuto per l’utilizzo
del prodotto, controllare lo stato del proprio account, notificare la compagnia
quando ci sono problemi, offrire un commento, minacciare di rompere il
contratto, e così via. In attività anche molto diverse come fornire supporto
tecnico, propagare truffe online, promuovere candidati politici, ricercare
modelli di consumo, dispensare consigli sulla salute, pubblicizzare nuovi
prodotti; ed anche per individuarci e “rimettere a noi i nostri debiti”, i call
center sono diventati un apparato di vitale importanza per la mediazione del
rapporto tra le istituzioni e i soggetti del capitalismo digitale in quello che
alcuni hanno definito « un cambiamento paradigmatico nelle modalità di
interfacciarsi con i clienti che attraversa l’intera economia» (Bain, Taylor,
Watson, Mulvey, e Gall, “Taylorism, targets and the pursuit of quantity and
quality by call centre management”, in New Technology, Work and Employment,
17(3), 2002, p. 184). Attraverso milioni di transazioni al giorno, i call
center intessono rapporti tra istituzioni e consumatori attraverso le
infrastrutture di telecomunicazione dell’economia globale. Il risultante flusso
continuo di comunicazioni deve essere organizzato e compresso in modo che costi
al capitale il meno possibile, e lo sviluppo dei call center nel corso degli
ultimi decenni del ventesimo secolo rappresenta la risposta a questa nuova
necessità, la sua razionalizzazione, la sua dimora nascosta nella produzione
comunicativa. La raccolta di esperienze nei call center presentate in questo
quaderno chiarifica quanto la nuova forza lavoro sia collegata alla accresciute
esigenze comunicative del capitalismo. Bell aveva assolutamente ragione quando
notava l’emergere di un regime di accumulazione in cui il linguaggio, gli
affetti e la comunicazione diventavano sempre più fonte di valorizzazione.
Quello che convenientemente ignorava era la possibilità che una versione
digitalizzata dell’organizzazione scientifica del lavoro di stampo taylorista
diventasse un mezzo efficiente (anche se non sempre efficace) per generare
plusvalore comunicativo dai lavoratori cognitivi. I call center, come i testi
che seguono illustrano in modo vivace, impongono agli operatori, dall’alto,
delle forme di comunicazione intensamente strumentalizzate, attraverso script
progettati per dividere consumatori ingenui dal loro denaro, vendere loro
qualcosa di cui non hanno bisogno, o far finire la conversazione molto più
velocemente di quanto succederebbe in circostanze normali. Il call center nega
la comunicazione, ma dipende anche da essa. Se le tecniche razionalizzate per
l’estrazione di plusvalore sono purtroppo familiari per chi ha conosciuto e
conosce la fabbrica, ciò che l’inchiesta politica conferma è che nei call
center si verifica una forma di accumulazione “bio-economica”, che valorizza le
capacità sociali sviluppate al di fuori del posto di lavoro. Questi interventi
esplorano il contenuto sociale del dialogo-merce, notando con attenzione la
diversità delle prestazioni, delle forme di misura e dei metodi di controllo
della forza lavoro all’interno della galassia dei call center. Allo stesso
tempo, anche con tutta la diversità nelle applicazioni di questo assemblaggio,
ciò che rimane costante è la valorizzazione da parte del capitale dei sorrisi
della sua forza lavoro, l’appropriazione che esso compie della totalità della
loro socialità. Sulla linea di montaggio nella fabbrica tradizionale la mente
poteva almeno vagare mentre il corpo faticava. Con una catena di montaggio linguistica,
invece, il lavoro invade la soggettività e con essa quello che resta del tempo
libero, come ben evidenzia il tic consueto (ripetere gli script) che hanno gli
operatori anche quando rispondono al telefono ad amici. Questi testi rivelano
anche, semmai dovessero esserci ancora dubbi in proposito, l’incredibile
potenziale dell’inchiesta militante applicata alle questioni del lavoro. Come
tale, l’inchiesta al centro di queste analisi ha molto in comune con le
indagini illuminanti sui call center condotte in Europa, America Latina e Asia
del Sud da reti di lavoratori, attivisti, sindacalisti e dai loro alleati nelle
università. Collettivi come «Colectivo Situaciones», la “Cátedra Experimental
Sobre Producción de Subjetividad”, “Kolinko”, “Gurgaon Workers News” e altri
hanno affinato un metodo lanciato da Marx e raccolto dagli operaisti italiani,
un metodo che attraversa la composizione della forza lavoro e la loro
soggettività, tenendo sempre in primo piano la possibilità di costruzione di
organizzazioni collettive e di lotta. L’immagine spietata, senza veli, del
settore globale dei call center che emerge da questi studi è la risposta più
efficace agli scritti autoreferenziali dei teorici di management americani. Il
sapere più prezioso per il proletariato digitale è quello prodotto in maniera
immanente, dalla rabbia per le umiliazioni subite in questo posto di lavoro
loquace. È all’interno delle “situazioni insostenibili” che si vengono a creare
che l’organizzazione aziendale mostra per intero le sue lacune e il suo
carattere ideologico; ed è in queste situazioni che le forme di soggettività
imposte dal management sulla forza lavoro, spesso riluttante, vengono percepite
come ambigue e contraddittorie. Uno dei principali obiettivi dell’inchiesta
politica, di cui le pagine che seguono tracciano un resoconto, è quello di far
cadere la maschera del “bravo operatore di call center”, una maschera su cui è
impresso un sorriso perpetuo a vantaggio unicamente dei clienti e dei padroni.
Con grande intuizione e 13 attenta analisi questi scritti rimuovono la maschera
imposta da management sulla forza lavoro. E quando la maschera è rimossa le
lotte ritornano in gioco.
Prefazione a “Il prezzo di un sorriso.
Vita, linguaggi e sfruttamento nei call center” di Francesco Maria Pezzulli,
Quaderni di sudcomune, n.1/2017