di Giuseppe Allegri/Giuseppe Bronzini
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In occasione dell’incontro trilaterale
Renzi/Merkel/Hollande, del quale oggi le pagine dei media sono piene, riuniti sul ponte
di volo della nave Garibaldi, a poca distanza da Ventotene, dove -durante il
periodo di confino- Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, tra
il 1941 ed il 1944, scrissero il Manifesto,
proponiamo in alternativa la lettura della Introduzione al volume collettaneo
VENTOTENE. UN MANIFESTO PER IL FUTURO, edito da Manifestolibri, Roma (2014)
Rileggendo oggi Il
Manifesto di Ventotene (Per un’Europa
libera e unita – Progetto d’un manifesto, scritto a quattro mani da Altiero
Spinelli ed Ernesto Rossi, nel confino di Ventotene, nel 1941)e i due combattivi
saggi di Altiero Spinelli del 1942/43, Gli
Stati Uniti d’Europa e le varie tendenze politiche e Politica marxista e
politica federalista, quel che colpisce con maggiore evidenza «politica» è
la testimonianza antinazionalista e, nel linguaggio di oggi, «antisovranista» che
li contraddistingue.
In un’Europa ancora in gran parte
sotto il giogo nazista il Manifesto e gli scritti di quel periodo
sembrano dare per acquisita la lotta di liberazione e la costruzione di un
fronte antifascista vincente e– in alcuni passaggi – quasi per scontata la
vittoria finale e la capacità rigeneratrice delle forze democratiche. Il «gran
mattatoio» della seconda guerra mondiale deve, tuttavia, operare come leva di
un nuovo ordine costituzionale capace di cancellare per sempre non solo il
devastante nazionalismo nazista che la Scuola di Francoforte definì come una
«fusione satanica tra tecnica e dominio», ma ogni nazionalismo, anche quello
sviluppatosi in quei paesi che si sono ribellati ad Hitler. Persino
l’occupazione nazista di Parigi è, in questa prospettiva,vista, alla fine, come
salutare mortificazione dello sciovinismo francese. Gli orrori della guerra
(forse in quel momento ancora non si aveva un quadro chiaro dell’Olocausto)
sono la premessa necessaria per una ricostruzione dell’Europa che annulli il
potere «sovrano» degli Stati nazionali inducendoli a un’aggregazione di tipo
federale. Se si seguisse, una volta debellato Hitler, un’altra strada ci si
incamminerebbe in una direzione che, nel tempo, non potrebbe che portare –
esaltando il particolarismo delle nazioni e gli interessi aggregati lungo un
confine nazionale – a un nuovo militarismo foriero di altre guerre fratricide. Uomini
segregati nelle carceri fasciste o isolati su isolotti sperduti per anni,
ancora in serio pericolo per la loro vita (Eugenio Colorni verrà assassinato
pochi mesi dopo aver scritto la prefazione all’edizione del1944 del Manifesto) riescono ad allargare la loro
visuale oltre la drammatica contrapposizione alle dittature nazi-fasciste,
individuando una più profonda radice della tragedia europea: il principio della
sovranità nazionale che racchiude in sé i germi, anche se declinata in forma democratica,
dell’aggressività militarista e dell’inimicizia distruttiva. Tutti i testi di
quel periodo ammoniscono a non ricostruire semplicemente uno status quo ante, ad evitare che sul
suolo del vecchio Continente torni egemone lo ius publicum europaeum: il diritto degli Stati indipendenti a
fronteggiarsi nel rispetto di alcune regole «minime» di riconoscimento
reciproco.
Gli scritti, talvolta, sembrano avere
come destinatari soprattutto le forze progressiste mirando a dissolvere
l’illusione che sia sufficiente il ripristino dei principi democratici e
addirittura l’adozione di misure egualitarie radicali anticapitalistiche per
restituire un futuro di pace ai martoriati paesi europei. Lo sbocco federalista
alla crisi europea è premessa per un orizzonte democratico stabile e strumento essenziale
e indispensabile anche per politiche sociali redistributive o perfino di segno
socialista. Da questo punto di vista si tratta davvero di una svolta
metodologica rivoluzionaria: il tentativo di delineare il campo della politica
e del conflitto nella demolizione programmatica delle artificiali ed odiose
barriere nazionali. L’energia per questo cambiamento di paradigma proviene
proprio dalle macerie prodotte dalla guerra civile del secolo breve europeo.
Spinelli e Rossi, comunque, cercano
di comporre sul piano argomentativo due elementi tra loro in potenziale
tensione. Il federalismo come apriori di ogni discorso democratico e sociale,
ma al tempo stesso come idea regolativa solidaristica e coesiva tra cittadini
che si riconoscono in un condiviso progetto egualitario di riconciliazione. Si individua,
ci pare, una soluzione «costituzionale» per una futura aggregazione sovranazionale
che garantisca ad ogni cittadino non solo il diritto di influire a livello
partecipativo sul nuovo ed inedito potere pubblico post-statale, ma anche di
vedere garantita una eguale dignità sociale di base, a cominciare da quel
reddito di esistenza chiaramente individuato come cemento di una nuova
solidarietà dopo l’abbattimento dei cupi rituali nazionalistici. Non solo,
quindi, procedure per un governo continentale, ma indicazioni sostanziali per
rifondare le strutture sociali su principi inclusivi e capaci di promuovere la
libertà positiva degli individui. Come motore di questa rivoluzione «del punto
di vista» (per dirla con i termini più moderni di Ulrich Beck) Altiero Spinelli
individua non già i partiti (che vede troppo coinvolti in dinamiche insulari) o
governi «illuminati», ma un «movimento» di liberi cittadini che – potremmo
sintetizzare – fortificano i loro legami fraterni mentre rimuovono le
appartenenze ad anacronistiche gerarchie nazionali che li vorrebbero divisi ed
in competizione.
Certamente la tensione distruttiva
dei santuari della sovranità nazionale (nel Manifesto già si parla di una moneta e di un esercito
comuni) è stata ben presto «normalizzata». Più che essere agita dalle moltitudini
in rivolta contro i loro governanti (salvo eccezioni come nel fuoco
sessantottino o nelle manifestazioni del Movimento Federalista Europeo per
abbattere le frontiere o, ancora, nelle giornate della Genova alterglobalista)
l’addomesticamento degli egoismi nazionali si è declinato nel freddo linguaggio
dei Trattati comunitari voluto da élite che hanno ricombinato il furore
antistatalista con la ragione funzionalista della ricostruzione economica
continentale. Questa rideclinazione pragmatica dello «spirito di Ventotene» ha sicuramente
consentito la pacificazione tra le due rive del Reno, l’elaborazione di quello
che Cristian Jeorges ha definito il «diritto dopo Auschwitz» al di sopra degli
Stati e prevalente su quello interno. Ha fatto uscire la prospettiva federale
da quella genericità con cui viene ancora presentata nel Manifesto
sulla falsariga dell’esempio della federazione Usa1, certamente
inadatto per un Continente come quello europeo. Ha strutturato un Sonderweg (percorso particolare) per il
processo di integrazione capace di non negare il pluralismo ordinamentale (che
può essere anche potente fattore di innovazione) e la specificità di territori
e di tradizioni culturali differenziate. Necessità sostenuta anche dagli Autori
del Manifesto
quando propugnano «un saldo stato federale […] che abbia gli organi e i
mezzi sufficienti per far eseguire nei singoli stati [...] le sue deliberazioni
dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli stati stessi
l’autonomia che consenta una plastica articolazione e lo sviluppo di una vita
politica secondo le particolarità dei vari popoli». La logica incrementale e gradualistica
ha certamente portato a realizzazioni molto significative come la codificazione
dei diritti fondamentali dell’Unione nella Carta
di Nizza, rivendicabili avanti la Corte di Giustizia europea e presso i giudici
ordinari qualora esista un nesso con il diritto europeo.
Così come l’Unione ha comunque consacrato la
nozione di «cittadinanza europea», promosso uno spazio di libertà, sicurezza e
giustizia, introdotto forme di partecipazione democratica diretta come l’iniziativa
dei cittadini europei (Ice – art. 11 Tue) e via dicendo. Proprio Spinelli, vero
Machiavelli dell’ideale europeo, cercò già nel 1984 (ricorre quest’anno il
trentennale) di mettere in forma e di completare e razionalizzare
l’integrazione europea, come si era sino a quel momento realizzata, in un Trattato costituzionale votato dal Parlamento
europeo (poi messo sotto naftalina dai successivi Consigli europei). Un testo
molto più avanzato, sia sotto l’aspetto dell’accountability delle istituzioni sovranazionali, sia per il
contenuto delle politiche di competenza dell’Unione, del Progetto poi affossato
nel 2005 dai referendum di Francia ed Olanda. Il protagonismo federalista ed europeista
spinse Spinelli a un’instancabile militanza in favore di un movimento per la
democrazia europea, fino a diventare membro del Parlamento europeo nel 1979 e
poi nel 1984, esperienza che fu interrotta solo dalla sua morte, il 23 maggio
1986.
E proprio in occasione delle elezioni
per l’europarlamento 2014-2019 sembra esserci un disperato bisogno di tornare a
imparare dagli antichi maestri dell’europeismo democratico e federale, aperto e
inclusivo. Soprattutto dinanzi a spazi politici continentali e globali fagocitati
dal dominio di un tecnocapitalismo finanziario senza limiti,che continua a
concentrare le ricchezze nelle mani delle élites
della «rivoluzione dall’alto», per dirla con Étienne Balibar. E ancor di più in
un’Europa dove una sorta di «Direttorio degli esecutivi», capitanato da Angela
Merkel, riscrive un «diritto europeo dell’emergenza» che mina alla radice
l’integrazione continentale e approfondisce la frattura tra i «virtuosi» Paesi
del nord Europa e i «dissipatori» dell’area mediterranea. Ancora l’Europa degli
Stati contro le cittadinanze d’Europa.
Tornare alla radicalità di analisi e
di proposta del Manifesto di Ventotene ci
permette di immaginare il futuro di un Continente, e della sua vocazione di
trasformazione globale, in forte tensione con il tempo presente. Alla ricerca
di un movimento plurale di azioni collettive che spinga il frantumato spazio
politico europeo a ripensare le sue stesse fondamenta sociali e culturali, alla
luce di una maggiore giustizia sociale e redistribuzione delle ricchezze. Per
tornare a legare i processi di emancipazione individuale e collettiva con una
nuova idea e pratica di Europa. Le inequivocabili parole del Manifesto
di Ventotene in favore di un reddito di esistenza possono diventare la
bussola dell’Europa sociale e democratica che verrà. Perché parlano direttamente
alle attuali condizioni di sfruttamento del lavoro, alla disoccupazione e al
ricatto della condizione precaria, soprattutto nei paesi dell’area
mediterranea. In assenza di un qualsiasi strumento universale di garanzia
sociale paneuropea, che permetterebbe di trasformare radicalmente il rapporto
tra cittadinanze, società ed istituzioni in un Continente nel quale intere
generazioni hanno lottato per affermare libertà, eguaglianza, cooperazione e
accoglienza. Ecco il sottile filo rosso che il Manifesto
di Ventotene consegna all’ «europeismo insubordinato», sempre alla ricerca
dei democratici, dei ribelli e delle più adeguate forme di lotta.
«La solidarietà umana verso coloro
che riescono soccombenti nella lotta economica non dovrà, per ciò, manifestarsi
con le forme caritatevoli sempre avvilenti e produttrici degli stessi mali alle
cui conseguenze cercano di riparare, ma con una serie di provvidenze che garantiscano
a tutti, incondizionatamente a tutti, possano o non possano lavorare, un tenore
di vita decente, senza ridurre lo stimolo al lavoro ed al risparmio. Così
nessuno sarà più costretto dalla miseria ad accettare contratti di lavoro
iugulatori»
1 Nata peraltro, come molte altre
federazioni, sull’onda di una guerra di liberazione. Si dice che nel corso
della Convenzione che preparò il progetto di Costituzione europea fu chiesto ad
un suo eminente esponente se a Bruxelles spirasse il vento di Filadelfia; la
risposta fu che a Filadelfia vi era già stata la resa dei conti con gli inglesi