martedì 23 agosto 2016

IL MANIFESTO DI VENTOTENE. UN’INTRODUZIONE A SETTANT’ANNI DALL’EDIZIONE DEL 1944

di Giuseppe Allegri/Giuseppe Bronzini -

In occasione dell’incontro trilaterale Renzi/Merkel/Hollande, del quale oggi le pagine dei media sono piene, riuniti sul ponte di volo della nave Garibaldi, a poca distanza da Ventotene, dove -durante il periodo di confino- Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, tra il 1941 ed il 1944, scrissero il Manifesto, proponiamo in alternativa la lettura della Introduzione al volume collettaneo VENTOTENE. UN MANIFESTO PER IL FUTURO, edito da Manifestolibri, Roma (2014)

Rileggendo oggi  Il Manifesto di Ventotene (Per un’Europa libera e unita – Progetto d’un manifesto, scritto a quattro mani da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, nel confino di Ventotene, nel 1941)e i due combattivi saggi di Altiero Spinelli del 1942/43, Gli Stati Uniti d’Europa e le varie tendenze politiche e Politica marxista e politica federalista, quel che colpisce con maggiore evidenza «politica» è la testimonianza antinazionalista e, nel linguaggio di oggi, «antisovranista» che li contraddistingue.

In un’Europa ancora in gran parte sotto il giogo nazista il  Manifesto e gli scritti di quel periodo sembrano dare per acquisita la lotta di liberazione e la costruzione di un fronte antifascista vincente e– in alcuni passaggi – quasi per scontata la vittoria finale e la capacità rigeneratrice delle forze democratiche. Il «gran mattatoio» della seconda guerra mondiale deve, tuttavia, operare come leva di un nuovo ordine costituzionale capace di cancellare per sempre non solo il devastante nazionalismo nazista che la Scuola di Francoforte definì come una «fusione satanica tra tecnica e dominio», ma ogni nazionalismo, anche quello sviluppatosi in quei paesi che si sono ribellati ad Hitler. Persino l’occupazione nazista di Parigi è, in questa prospettiva,vista, alla fine, come salutare mortificazione dello sciovinismo francese. Gli orrori della guerra (forse in quel momento ancora non si aveva un quadro chiaro dell’Olocausto) sono la premessa necessaria per una ricostruzione dell’Europa che annulli il potere «sovrano» degli Stati nazionali inducendoli a un’aggregazione di tipo federale. Se si seguisse, una volta debellato Hitler, un’altra strada ci si incamminerebbe in una direzione che, nel tempo, non potrebbe che portare – esaltando il particolarismo delle nazioni e gli interessi aggregati lungo un confine nazionale – a un nuovo militarismo foriero di altre guerre fratricide. Uomini segregati nelle carceri fasciste o isolati su isolotti sperduti per anni, ancora in serio pericolo per la loro vita (Eugenio Colorni verrà assassinato pochi mesi dopo aver scritto la prefazione all’edizione del1944 del Manifesto) riescono ad allargare la loro visuale oltre la drammatica contrapposizione alle dittature nazi-fasciste, individuando una più profonda radice della tragedia europea: il principio della sovranità nazionale che racchiude in sé i germi, anche se declinata in forma democratica, dell’aggressività militarista e dell’inimicizia distruttiva. Tutti i testi di quel periodo ammoniscono a non ricostruire semplicemente uno status quo ante, ad evitare che sul suolo del vecchio Continente torni egemone lo ius publicum europaeum: il diritto degli Stati indipendenti a fronteggiarsi nel rispetto di alcune regole «minime» di riconoscimento reciproco.

Gli scritti, talvolta, sembrano avere come destinatari soprattutto le forze progressiste mirando a dissolvere l’illusione che sia sufficiente il ripristino dei principi democratici e addirittura l’adozione di misure egualitarie radicali anticapitalistiche per restituire un futuro di pace ai martoriati paesi europei. Lo sbocco federalista alla crisi europea è premessa per un orizzonte democratico stabile e strumento essenziale e indispensabile anche per politiche sociali redistributive o perfino di segno socialista. Da questo punto di vista si tratta davvero di una svolta metodologica rivoluzionaria: il tentativo di delineare il campo della politica e del conflitto nella demolizione programmatica delle artificiali ed odiose barriere nazionali. L’energia per questo cambiamento di paradigma proviene proprio dalle macerie prodotte dalla guerra civile del secolo breve europeo.
Spinelli e Rossi, comunque, cercano di comporre sul piano argomentativo due elementi tra loro in potenziale tensione. Il federalismo come apriori di ogni discorso democratico e sociale, ma al tempo stesso come idea regolativa solidaristica e coesiva tra cittadini che si riconoscono in un condiviso progetto egualitario di riconciliazione. Si individua, ci pare, una soluzione «costituzionale» per una futura aggregazione sovranazionale che garantisca ad ogni cittadino non solo il diritto di influire a livello partecipativo sul nuovo ed inedito potere pubblico post-statale, ma anche di vedere garantita una eguale dignità sociale di base, a cominciare da quel reddito di esistenza chiaramente individuato come cemento di una nuova solidarietà dopo l’abbattimento dei cupi rituali nazionalistici. Non solo, quindi, procedure per un governo continentale, ma indicazioni sostanziali per rifondare le strutture sociali su principi inclusivi e capaci di promuovere la libertà positiva degli individui. Come motore di questa rivoluzione «del punto di vista» (per dirla con i termini più moderni di Ulrich Beck) Altiero Spinelli individua non già i partiti (che vede troppo coinvolti in dinamiche insulari) o governi «illuminati», ma un «movimento» di liberi cittadini che – potremmo sintetizzare – fortificano i loro legami fraterni mentre rimuovono le appartenenze ad anacronistiche gerarchie nazionali che li vorrebbero divisi ed in competizione.
Certamente la tensione distruttiva dei santuari della sovranità nazionale (nel  Manifesto già si parla di una moneta e di un esercito comuni) è stata ben presto «normalizzata». Più che essere agita dalle moltitudini in rivolta contro i loro governanti (salvo eccezioni come nel fuoco sessantottino o nelle manifestazioni del Movimento Federalista Europeo per abbattere le frontiere o, ancora, nelle giornate della Genova alterglobalista) l’addomesticamento degli egoismi nazionali si è declinato nel freddo linguaggio dei Trattati comunitari voluto da élite che hanno ricombinato il furore antistatalista con la ragione funzionalista della ricostruzione economica continentale. Questa rideclinazione pragmatica dello «spirito di Ventotene» ha sicuramente consentito la pacificazione tra le due rive del Reno, l’elaborazione di quello che Cristian Jeorges ha definito il «diritto dopo Auschwitz» al di sopra degli Stati e prevalente su quello interno. Ha fatto uscire la prospettiva federale da quella genericità con cui viene ancora presentata nel  Manifesto sulla falsariga dell’esempio della federazione Usa1, certamente inadatto per un Continente come quello europeo. Ha strutturato un Sonderweg (percorso particolare) per il processo di integrazione capace di non negare il pluralismo ordinamentale (che può essere anche potente fattore di innovazione) e la specificità di territori e di tradizioni culturali differenziate. Necessità sostenuta anche dagli Autori del  Manifesto quando propugnano «un saldo stato federale […] che abbia gli organi e i mezzi sufficienti per far eseguire nei singoli stati [...] le sue deliberazioni dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli stati stessi l’autonomia che consenta una plastica articolazione e lo sviluppo di una vita politica secondo le particolarità dei vari popoli». La logica incrementale e gradualistica ha certamente portato a realizzazioni molto significative come la codificazione dei diritti fondamentali dell’Unione nella Carta di Nizza, rivendicabili avanti la Corte di Giustizia europea e presso i giudici ordinari qualora esista un nesso con il diritto europeo.
Così  come l’Unione ha comunque consacrato la nozione di «cittadinanza europea», promosso uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, introdotto forme di partecipazione democratica diretta come l’iniziativa dei cittadini europei (Ice – art. 11 Tue) e via dicendo. Proprio Spinelli, vero Machiavelli dell’ideale europeo, cercò già nel 1984 (ricorre quest’anno il trentennale) di mettere in forma e di completare e razionalizzare l’integrazione europea, come si era sino a quel momento realizzata, in un Trattato costituzionale votato dal Parlamento europeo (poi messo sotto naftalina dai successivi Consigli europei). Un testo molto più avanzato, sia sotto l’aspetto dell’accountability delle istituzioni sovranazionali, sia per il contenuto delle politiche di competenza dell’Unione, del Progetto poi affossato nel 2005 dai referendum di Francia ed Olanda. Il protagonismo federalista ed europeista spinse Spinelli a un’instancabile militanza in favore di un movimento per la democrazia europea, fino a diventare membro del Parlamento europeo nel 1979 e poi nel 1984, esperienza che fu interrotta solo dalla sua morte, il 23 maggio 1986.
E proprio in occasione delle elezioni per l’europarlamento 2014-2019 sembra esserci un disperato bisogno di tornare a imparare dagli antichi maestri dell’europeismo democratico e federale, aperto e inclusivo. Soprattutto dinanzi a spazi politici continentali e globali fagocitati dal dominio di un tecnocapitalismo finanziario senza limiti,che continua a concentrare le ricchezze nelle mani delle élites della «rivoluzione dall’alto», per dirla con Étienne Balibar. E ancor di più in un’Europa dove una sorta di «Direttorio degli esecutivi», capitanato da Angela Merkel, riscrive un «diritto europeo dell’emergenza» che mina alla radice l’integrazione continentale e approfondisce la frattura tra i «virtuosi» Paesi del nord Europa e i «dissipatori» dell’area mediterranea. Ancora l’Europa degli Stati contro le cittadinanze d’Europa.
Tornare alla radicalità di analisi e di proposta del  Manifesto di Ventotene ci permette di immaginare il futuro di un Continente, e della sua vocazione di trasformazione globale, in forte tensione con il tempo presente. Alla ricerca di un movimento plurale di azioni collettive che spinga il frantumato spazio politico europeo a ripensare le sue stesse fondamenta sociali e culturali, alla luce di una maggiore giustizia sociale e redistribuzione delle ricchezze. Per tornare a legare i processi di emancipazione individuale e collettiva con una nuova idea e pratica di Europa. Le inequivocabili parole del  Manifesto di Ventotene in favore di un reddito di esistenza possono diventare la bussola dell’Europa sociale e democratica che verrà. Perché parlano direttamente alle attuali condizioni di sfruttamento del lavoro, alla disoccupazione e al ricatto della condizione precaria, soprattutto nei paesi dell’area mediterranea. In assenza di un qualsiasi strumento universale di garanzia sociale paneuropea, che permetterebbe di trasformare radicalmente il rapporto tra cittadinanze, società ed istituzioni in un Continente nel quale intere generazioni hanno lottato per affermare libertà, eguaglianza, cooperazione e accoglienza. Ecco il sottile filo rosso che il  Manifesto di Ventotene consegna all’ «europeismo insubordinato», sempre alla ricerca dei democratici, dei ribelli e delle più adeguate forme di lotta.
«La solidarietà umana verso coloro che riescono soccombenti nella lotta economica non dovrà, per ciò, manifestarsi con le forme caritatevoli sempre avvilenti e produttrici degli stessi mali alle cui conseguenze cercano di riparare, ma con una serie di provvidenze che garantiscano a tutti, incondizionatamente a tutti, possano o non possano lavorare, un tenore di vita decente, senza ridurre lo stimolo al lavoro ed al risparmio. Così nessuno sarà più costretto dalla miseria ad accettare contratti di lavoro iugulatori»

1 Nata peraltro, come molte altre federazioni, sull’onda di una guerra di liberazione. Si dice che nel corso della Convenzione che preparò il progetto di Costituzione europea fu chiesto ad un suo eminente esponente se a Bruxelles spirasse il vento di Filadelfia; la risposta fu che a Filadelfia vi era già stata la resa dei conti con gli inglesi