lunedì 26 ottobre 2015

La società "post-sindacale"

di Lelio Demichelis -

Se sono morte le grandi narrazioni del passato, oggi trionfano le narrazioni d’impresa e di brand, lo storytelling d’impresa e di rete. Alienazione, mascherata da comunità e da collaborazione.

Che il sindacato fosse in crisi lo sapevamo da tempo. Ma pensare di essere già entrati nella società post-sindacale, questo ancora non lo avevamo immaginato, né lo ritenevamo possibile. Eppure, se ha ragione Dario Di Vico (Più tutele in cambio di produttività. Benvenuti nella società post-sindacale, nel Corriere della sera del 27 settembre) questo è quanto si starebbe verificando e questo è negli obiettivi (o nei sogni) degli industriali – ma un incubo per la società e per la democrazia, perché se viene meno uno dei soggetti forti della rappresentanza del lavoro, se si scioglie anche il sindacato insieme alla società civile, se il sistema non ha più corpi intermedi, se viene meno il bilanciamento del potere dell’impresa, allora entriamo non solo in una società post-sindacale ma, e peggio in una società (non tanto post-democratica quanto) non-più-democratica. E allora vediamo di capire cosa sia o cosa potrebbe essere questa società post-sindacale e soprattutto se sia una rottura/cesura col passato o non sia invece, e piuttosto l’ultimo pericolosissimo stadio di un processo di incessante divisione/scomposizione del lavoro per la sua successiva totalizzazione/integrazione in un apparato d’impresa, di rete, di consumo. Un processo iniziato con la prima rivoluzione industriale (la fabbrica di spilli di Adam Smith, per semplificare), transitato per fordismo e taylorismo e organizzazione scientifica del lavoro, arrivato al toyotismo e ora alla rete.

La società post-sindacale: un obiettivo antico
Scrive Dario Di Vico: «A condurre il sindacato verso l’irrilevanza è un’erosione combinata nella capacità di leggere il mutamento, nell’autorevolezza e nella rappresentatività. Se proprio volessimo trovare un incipit di questo declino potremmo prendere quel carrello della spesa che nel 2009 Leonardo Del Vecchio decise di distribuire ai suoi dipendenti per attutire i colpi della crisi. (…) Il segnale era chiaro: gli imprenditori riprendevano l’iniziativa sociale, non lasciavano più il monopolio della difesa del reddito dell’operaio al sindacato e arrivavano a una politica di scambio nuova. Tutele in cambio di produttività». Dunque, il welfare aziendale: che nella strategia di Confindustria, secondo Di Vico avrà un ruolo sempre più importante perché capace anche di surrogare quote di salario. «E’ chiaro che siamo solo alle prime battute», ma questi sono i discorsi che si sentono fare tra gli industriali, continua Di Vico, perché: «L’azienda di domani sarà una comunità che deve obbedire al mercato, agire dentro le leggi vigenti ma coltivando la responsabilità sociale verso i propri dipendenti, anzi collaboratori. (…) Tenta di costruire una società più giusta con meno sindacato, un’equazione che, finora, è stata considerata una bestemmia». Dunque, non il sindacato ma l’impresa difende i lavoratori, un’impresa che si fa sociale, responsabile, che considera i lavoratori come collaboratori, che si fa comunità (ma che deve obbedire al mercato). Quello che però racconta Di Vico è vecchio, sa di paternalismo padronale (si legga la storia del Villaggio Crespi, a Crespi d’Adda), anche se oggi potremmo ridefinirlo (fa tanto nuovo e post-moderno) paternalismo 2.0. Anche l’idea di una impresa come comunità è antica, come pure l’idea di trasformare il lavoratore in collaboratore. Ma siamo anche al perfezionamento dell’ordoliberalismo tedesco & del neoliberismo statunitense, ovvero a una società da intendere e da vivere come mercato, l’impresa come soggetto forte e modello non solo economico e sociale/individuale ma anche di organizzazione politica e istituzionale (la riforma costituzionale di Renzi), la competizione invece della solidarietà, il lavoro e l’impresa come vocazione/beruf, la produttività come mantra interiorizzato da ciascuno, l’economia come vita a mobilitazione totale. Ma procediamo con ordine.

Suddivisione e individualizzazione del lavoro
La fabbrica di spilli di Adam Smith, appunto; secondo il quale la divisione del lavoro, nella misura in cui può essere introdotta, determina in ogni arte un aumento proporzionale della capacità produttiva del lavoro. Replicava Tocqueville (nel 1835): con il progredire della divisione del lavoro, l’operaio diventa sempre più debole, più limitato e meno indipendente: l’arte fa progressi, ma l’artigiano regredisce. L’uomo si avvilisce a misura che l’operaio si specializza. (…) egli non appartiene più a se stesso ma al mestiere che si è scelto. O che ha dovuto accettare. Ma Smith ha vinto e Tocqueville ha perso.
Alienazione, dunque. Come nella catena di montaggio di Ford (1913), come i principi dell’organizzazione scientifica del lavoro di Taylor tra cui vi era quello di definire i compiti da assegnare ai lavoratori e nel farli eseguire, stabilendo il tempo esatto per la loro esecuzione. Con il toyotismo tutto sembra cambiare, cresce l’autonomia degli operai (la loro auto-attivazione e quella delle macchine), ma sempre di catena di montaggio si tratta, semmai tutto deve essere fatto just in time e con maggiore sincronizzazione. Con la rete poi questo processo di individualizzazione e di suddivisione del lavoro cambia nella forma e nelle retoriche che lo sostengono - si parla infatti di wikinomics, di condivisione, di lavoro di conoscenza, di capitalismo intellettuale, Gorz scriveva di lavoro immateriale, tutti noi sociologi abbiamo favoleggiato di post-fordismo – ma non nella sostanza e siamo passati dal fordismo concentrato nelle grandi fabbriche al fordismo territorializzato dei distretti e della piccola impresa, del toyotismo e dell’impresa snella e del capitalismo molecolare di Bonomi e ora al fordismo personalizzato (partite iva, lavoratori free-lance, capitalisti personali, makers) in rete e via rete, se è vero che il lavoro in rete si svolge grazie ad un personal computer, che il taylorismo digitale è ben più presente e diffuso del lavoro di conoscenza, che anche la sharing economy e il lavoro uberizzato (per non parlare del modello Amazon) sono poco diversi dal vecchio fordismo-taylorismo, con la sola differenza che oggi l’assegnazione dei compiti e dei tempi di lavoro viene comandata a distanza grazie a un device, ma ciascuno (a parte una ristretta frazione del mercato del lavoro) è comunque sub-ordinato ad una qualche forma di organizzazione che non controlla e che non è sua. Si replica (i due processi vanno in parallelo) quanto avvenuto nelle forme della società di massa, un tempo anch’essa concentrata (consumi standardizzati, ideologie di massa, la piazza), poi sempre più individualizzata e tutti ricevono gli stessi messaggi, tutti sono conformisti, tutti replicano individualmente ciò che pensano tutti, e oggi la massa passa per i social network e il conformismo digitale, tutti sono connessi ma soli. Tutti organizzati, ma singolarmente.

venerdì 16 ottobre 2015

Sinistra, movimenti e guerre in Medio Oriente

di Giuseppe Acconcia - 

Con i raid russi in Siria la strisciante divisione tra una parte della sinistra, vicina ai movimenti sociali che hanno attraversato il Medio Oriente dal 2011 in poi, e l’altra, che li ha criticati e sminuiti, finalmente ha chiarito la questione di fondo che alimenta lo scontro politico. Perché una parte della sinistra considera come sinonimi essere anti-Nato e pro-Putin? Lo scontro tra queste anime della sinistra è accesissimo e radicato. Viene spesso banalizzato nella discussione corrente. Invece racchiude questioni di primaria importanza. Quale giudizio dà la sinistra dei movimenti? E ovviamente delle loro alleanze geopolitiche?

La sinistra, le masse e il neo-nasserismo

Un esempio molto convincente di quanto la sinistra possa assumere una posizione anti-movimentista si è concretizzato con il colpo di stato in Egitto del 3 luglio 2013. In quel caso, alcuni partiti e intellettuali della sinistra egiziana, e non solo, si sono schierati a favore del generale Abdel Fattah al-Sisi. Secondo loro, il ritorno dei militari, e ancora di più, il neo-nasserismo di al-Sisi, sono compatibili con la sinistra più dell’islamismo politico.
Questa visione può inizialmente sembrare forzata ma non lo è. I Fratelli musulmani egiziani, ma anche in altri paesi, si sono dimostrati davvero incapaci di rappresentare gli interessi delle classi disagiate, rispetto alle pressanti richieste che dal basso venivano per una vera rivoluzione sociale. Non solo, l’islamismo politico ha forzatamente monopolizzato il movimento di piazza, annullando, neppure co-optando, le richieste che venivano da sinistra. E così, secondo questa visione neo-nasserista, le necessità sociali di poveri e diseredati sarebbero soddisfatte meglio da militari o autocrati. In altre parole, Al-Sisi e Putin, con il loro capitalismo di stato (grandi opere, gasdotti, estensione del Canale di Suez, ecc.), potrebbero fare di più per le masse dell’islamismo politico che ha saputo, nel poco e forse inesistente tempo (questo non vale per la Turchia) in cui ha governato, solo riprodurre politiche conservatrici e neo-liberiste.
Questo ha a che fare con le manifestazioni di piazza del 2011 quando la stessa sinistra che ora inneggia a Putin ha visto di cattivo occhio le proteste giovanili, come se fossero sostenute da un manipolo di giovani sprovveduti, appoggiati dagli Stati Uniti. Forse in parte questo può anche corrispondere ad una iniziale verità in riferimento ai movimenti siriano e libico, di sicuro non vale né per le proteste di piazza Tahrir, Tunisi e neppure per le esigenze sociali della sinistra turca e curda.

Il velo alzato sul mondo dei morlock

di Benedetto Vecchi - 

«Il regime del salario», le analisi di un gruppo di ricercatori e attivisti raccolte in un volume. Dal jobs act al job sharing, la discesa negli inferi della condizione lavorativa. Dai quali uscire senza sperare in facili scorciatoie.

L’inferno degli ate­lier della pro­du­zione non è neces­sa­ria­mente un luogo dove ci sono forni accesi, rumori assor­danti, caldo insop­por­ta­bile e dove gli umani sono ridotti a bestie. Il lavoro può essere infatti svolto in ambienti lindi dove viene dif­fusa musica rilas­sante e pia­ce­vole; oppure in case dove la sovrap­po­si­zione tra vita e lavoro è la regola e non l’eccezione. L’immagine più forte del lavoro non è data certo da «Tempi moderni» di Char­lie Cha­plin. L’omino con baf­fetti, cap­pello e bastone risuc­chiato negli ingra­naggi delle mac­chine rap­pre­senta con lie­vità l’orrore della catena di mon­tag­gio. Strappa un sor­riso di fronte la disu­ma­nità dell’organizzazione scien­ti­fica del lavoro. Ma la rap­pre­sen­ta­zione del lavoro non è viene più nep­pure dalla folla rab­biosa di Metro­po­lis di Fritz Lang. Sono due film dove è pre­sente l’imprevisto dell’insubordinazione, della rivolta. Ma in tempi di pre­ca­rietà dif­fusa, occorre leg­gere le pagine o far scor­rere i foto­grammi del film tratto dal libro di Her­bert George Wells La mac­china del tempo per avere la misura di come è cam­biato il lavoro.
Il romanzo dello scrit­tore inglese è utile non tanto per­ché ci sono gli eloi, umani ridotti a ebeti che pos­sono con­su­mare di tutto in attesa di essere divo­rati dai mor­lock umani-talpa che vivono nel sot­to­suolo per pro­durre chissà cosa. La mac­china del tempo è un testo signi­fi­ca­tivo per­ché rap­pre­senta una società che ha occul­tato gli ate­lier della pro­du­zione, li ha sot­tratti allo sguardo pub­blico. Sono come le com­mu­nity gated delle metro­poli: zone dove lo stato di ecce­zione – limi­ta­zione dei diritti e della libertà per­so­nale — è la nor­ma­lità. Per gli atti­vi­sti e ricer­ca­tori del gruppo «Lavoro insu­bor­di­nato» sono espres­sione di un regime che non cono­sce faglie distrut­tive e dove la crisi è la chance che il capi­tale ha usato per affi­nare e ren­dere più sofi­sti­cate, e dun­que più potenti, le forme di assog­get­ta­mento e di com­pres­sione del sala­rio del lavoro vivo. Lo scri­vono in un ebook dal titolo pro­gram­ma­tico Il regime del sala­rio che può essere sca­ri­cato dal sito inter­net www​.con​nes​sio​ni​pre​ca​rie​.org. Ha una intro­du­zione di Fer­ruc­cio Gam­bino e saggi di Lucia Gior­dano, Isa­bella Con­so­lati, Roberta Fer­rari, Pier­gior­gio Ange­lucci, Eleo­nora Cap­puc­cilli, Flo­riano Milesi e Fran­ce­sco Ago­stini. Sono testi sulle nuove nor­ma­tive che rego­lano il rap­porto di lavoro, dal Jobs Act, all’introduzione dei vou­cher, al job sha­ring. E se per il Jobs Act il lavoro cri­tico è faci­li­tato dalla mole di mate­riali usciti sulla legge varata in pompa magna dal governo di Mat­teo Renzi come pana­cea per la pre­ca­rietà dif­fusa e la disoc­cu­pa­zione di massa, meno facile è invece resti­tuire il valore per­for­ma­tivo che le dispo­si­zioni sui vou­cher e il job sha­ring hanno per l’intero «regime del salario».
L’impianto ana­li­tico pro­po­sto è effi­cace e con­di­vi­si­bile. Più pro­ble­ma­ti­che sono le pro­po­ste poli­ti­che avan­zate nel volume. Non per­ché impos­si­bili, ma per­ché pro­ble­ma­tica è la pro­spet­tiva indi­cata come neces­sa­ria: orga­niz­zare l’inorganizzabile, cioè quelle nuove figure del lavoro, disperse, fram­men­tate, sem­pre più indi­vi­dua­liz­zate. È con que­sta pro­spet­tiva che occorre fare i conti. Il limite che emerge dalle pro­po­ste avan­zate è infatti il limite che si incon­tra quando si cerca di lace­rare il velo che occulta il lavoro con­tem­po­ra­neo. Fanno dun­que bene gli autori a nomi­narlo. Non ci sono infatti facili scor­cia­toie da imboccare.

L'accordo farsa

di Adam S. Hersh / Joseph Stiglitz -

Il Tpp ha ben poco a che fare con il libero scambio, e somiglia piuttosto a un accordo che vuole gestire i rapporti commerciali e di investimento tra i suoi membri ­per conto delle più potenti lobby di ciascun paese. 


Mentre i negoziatori e i ministri degli Stati Uniti e degli altri undici paesi del Pacifico si incontrano ad Atlanta per definire i dettagli del nuovo Accordo Trans-Pacifico (TPP), un'analisi più seria è fondamentale. Il più grande accordo della storia sul commercio e gli investimenti non è come sembra.
Si sentirà parlare molto dell'importanza del TPP per il "libero scambio". La realtà è che si tratta di un accordo che vuole gestire i rapporti commerciali e di investimento tra i suoi membri ­- e farlo per conto delle più potenti lobby di ciascun paese. Fate attenzione: è evidente dalle principali questioni, sulle quali i negoziatori stanno ancora contrattando, che il TPP non ha niente a che fare con il "libero" scambio.
La Nuova Zelanda ha minacciato di uscire dall'accordo a causa del modo in cui il Canada e gli Stati Uniti gestiscono il commercio di prodotti lattiero-caseari. L'Australia non è contenta del modo in cui gli Stati Uniti e il Messico gestiscono il commercio di zucchero. E gli Stati Uniti non sono soddisfatti del modo in cui il Giappone gestisce il commercio di riso. Questi settori sono sostenuti da ampi blocchi di elettori nei loro rispettivi paesi. E rappresentano solo la punta dell'iceberg del modo in cui il TPP potrebbe portare avanti un'agenda che in realtà contrasta con il libero scambio.
Per iniziare, si consideri quello che l'accordo farebbe per estendere i diritti di proprietà intellettuale delle grandi compagnie farmaceutiche, come è emerso dalle versioni trapelate dal testo oggetto dei negoziati. La ricerca economica mostra chiaramente che tali diritti di proprietà intellettuale promuovono una ricerca che nella migliore delle ipotesi risulta debole. In realtà, è evidente il contrario. Quando la Corte Suprema ha annullato il brevetto di Myriad sul gene BRCA, questo ha portato molte innovazioni che hanno prodotto test migliori e a costi più bassi. Le disposizioni contenute nel TPP invece limiterebbero la competizione aperta e aumenterebbero i prezzi per i consumatori negli Stati Uniti e in tutto il mondo – un anatema per il libero scambio.
Il TPP gestirà il commercio di prodotti farmaceutici attraverso una varietà di modifiche di norme apparentemente arcane su questioni come "patent linkage1", "l'esclusività di dati", e i "biofarmaci". Il risultato è che alle compagnie farmaceutiche sarebbe di fatto consentito estendere -­ a volte quasi indefinitamente ­- i loro monopoli sui medicinali brevettati, tenere i generici più economici fuori dal mercato, e impedire ai concorrenti biosimilari di introdurre nuovi farmaci per anni. Questo è il modo in cui il TTP gestirà il commercio del settore farmaceutico se gli Stati Uniti riusciranno nel loro intento.

La moneta del comune

di Andrea Fumagalli / Emanuele Braga -

È possibile codificare altri valori oltre quelli espressi dal protocollo Bitcoin,  che ne impediscano un uso distorto? 
Come possono diverse comunità/collettività/movimenti impegnarsi nel processo di creazione di una moneta virtuale non catturabile dai mercati finanziari tradizionali? 
Possiamo concepire non solo una singola cripto-moneta ma una rete di cripto-monete come un supporto e uno strumento per avviare un modello alternativo di produzione? 

Mai come negli ultimi anni il tema della moneta e dei mercati finanziari è stato al centro di libri, saggi e articoli di esperti e di meno esperti. Eppure mai come in questi anni regna una così grande confusione in materia. Si parla di fine della moneta, di fine del contante, di moneta elettronica, di moneta complementare. Si discute più della sua forma che del suo significato economico e sociale. La moneta non è infatti solo un semplice intermediario degli scambi, necessario per poter acquistare e vendere beni. Questa funzione – che appare ovvia – nasconde il fatto che la moneta entra nel sistema economico in una fase precedente allo scambio, quella della produzione. La moneta infatti è in primo luogo mezzo di finanziamento. E la sua natura si modifica quando si modificano le modalità di finanziamento e di produzione. Parlare di moneta, della sua forma e del suo ruolo, significa quindi indagare come avviene l’attività di produzione e quali rapporti sociali di potere innesca.
Sfatando lo stereotipo che il denaro è solo luogo di alienazione dei rapporti sociali, si pone radicalmente la domanda: che tipo di moneta è possibile concepire per costruire il comune? È possibile istituire una moneta del comune, fondata sui principi peer-to-peer delle cripto-monete, rivolta in primo luogo ai movimenti dei lavoratori precari, alla rete dei centri sociali, al circuito dei teatri occupati italiani, ma anche al circuito dell’economia alternativa e dell’auto-organizzazione?
L’obiettivo è semplice quanto ambizioso: la possibilità di creare un ambiente socio-economico ed ecosostenibile tale da essere caratterizzato da una produzione di ricchezza creata dal genere umano in favore del genere umano. Un ambiente in grado di produrre per sé e non per il profitto e la rendita.