di Lelio Demichelis -
Se sono morte le grandi
narrazioni del passato, oggi trionfano le narrazioni d’impresa e di brand, lo
storytelling d’impresa e di rete. Alienazione, mascherata da comunità e da
collaborazione.
Che
il sindacato fosse in crisi lo sapevamo da tempo. Ma pensare di essere già
entrati nella società post-sindacale, questo ancora non lo avevamo
immaginato, né lo ritenevamo possibile. Eppure, se ha ragione Dario Di Vico (Più
tutele in cambio di produttività. Benvenuti nella società post-sindacale,
nel Corriere della sera del 27 settembre) questo è quanto si starebbe
verificando e questo è negli obiettivi (o nei sogni) degli industriali – ma un
incubo per la società e per la democrazia, perché se viene meno uno dei
soggetti forti della rappresentanza del lavoro, se si scioglie anche il
sindacato insieme alla società civile, se il sistema non ha più corpi
intermedi, se viene meno il bilanciamento del potere dell’impresa, allora
entriamo non solo in una società post-sindacale ma, e peggio in una società
(non tanto post-democratica quanto) non-più-democratica. E allora
vediamo di capire cosa sia o cosa potrebbe essere questa società post-sindacale
e soprattutto se sia una rottura/cesura col passato o non sia invece, e
piuttosto l’ultimo pericolosissimo stadio di un processo di incessante
divisione/scomposizione del lavoro per la sua successiva
totalizzazione/integrazione in un apparato d’impresa, di rete, di consumo. Un
processo iniziato con la prima rivoluzione industriale (la fabbrica di spilli
di Adam Smith, per semplificare), transitato per fordismo e
taylorismo e organizzazione scientifica del lavoro, arrivato al
toyotismo e ora alla rete.
La società post-sindacale: un obiettivo antico
Scrive
Dario Di Vico: «A condurre il sindacato verso l’irrilevanza è un’erosione
combinata nella capacità di leggere il mutamento, nell’autorevolezza e nella
rappresentatività. Se proprio volessimo trovare un incipit di questo declino
potremmo prendere quel carrello della spesa che nel 2009 Leonardo Del Vecchio
decise di distribuire ai suoi dipendenti per attutire i colpi della crisi. (…)
Il segnale era chiaro: gli imprenditori riprendevano l’iniziativa sociale, non
lasciavano più il monopolio della difesa del reddito dell’operaio al sindacato
e arrivavano a una politica di scambio nuova. Tutele in cambio di
produttività». Dunque, il welfare aziendale: che nella strategia di
Confindustria, secondo Di Vico avrà un ruolo sempre più importante perché
capace anche di surrogare quote di salario. «E’ chiaro che siamo solo alle
prime battute», ma questi sono i discorsi che si sentono fare tra gli
industriali, continua Di Vico, perché: «L’azienda di domani sarà una comunità
che deve obbedire al mercato, agire dentro le leggi vigenti ma coltivando la
responsabilità sociale verso i propri dipendenti, anzi collaboratori. (…) Tenta
di costruire una società più giusta con meno sindacato, un’equazione che,
finora, è stata considerata una bestemmia». Dunque, non il sindacato ma
l’impresa difende i lavoratori, un’impresa che si fa sociale, responsabile, che
considera i lavoratori come collaboratori, che si fa comunità (ma che deve
obbedire al mercato). Quello che però racconta Di Vico è vecchio, sa di
paternalismo padronale (si legga la storia del Villaggio Crespi, a Crespi
d’Adda), anche se oggi potremmo ridefinirlo (fa tanto nuovo e post-moderno) paternalismo
2.0. Anche l’idea di una impresa come comunità è antica,
come pure l’idea di trasformare il lavoratore in collaboratore. Ma siamo
anche al perfezionamento dell’ordoliberalismo tedesco & del neoliberismo
statunitense, ovvero a una società da intendere e da vivere come mercato,
l’impresa come soggetto forte e modello non solo economico e
sociale/individuale ma anche di organizzazione politica e istituzionale (la
riforma costituzionale di Renzi), la competizione invece della solidarietà, il
lavoro e l’impresa come vocazione/beruf, la produttività come mantra
interiorizzato da ciascuno, l’economia come vita a mobilitazione
totale. Ma procediamo con ordine.
Suddivisione e individualizzazione del lavoro
La
fabbrica di spilli di Adam Smith, appunto; secondo il quale la divisione del
lavoro, nella misura in cui può essere introdotta, determina in ogni
arte un aumento proporzionale della capacità produttiva del lavoro.
Replicava Tocqueville (nel 1835): con il progredire della divisione del
lavoro, l’operaio diventa sempre più debole, più limitato e meno indipendente:
l’arte fa progressi, ma l’artigiano regredisce. L’uomo si avvilisce a misura
che l’operaio si specializza. (…) egli non appartiene più a se stesso ma al
mestiere che si è scelto. O che ha dovuto accettare. Ma Smith ha vinto e
Tocqueville ha perso.
Alienazione,
dunque. Come nella catena di montaggio di Ford (1913), come i principi dell’organizzazione scientifica
del lavoro di Taylor tra cui vi era quello di definire i compiti da
assegnare ai lavoratori e nel farli eseguire, stabilendo il tempo
esatto per la loro esecuzione. Con il toyotismo tutto sembra cambiare, cresce
l’autonomia degli operai (la loro auto-attivazione e quella delle macchine), ma
sempre di catena di montaggio si tratta, semmai tutto deve essere fatto just in
time e con maggiore sincronizzazione. Con la rete poi questo processo di
individualizzazione e di suddivisione del lavoro cambia nella forma e nelle
retoriche che lo sostengono - si parla infatti di wikinomics, di condivisione,
di lavoro di conoscenza, di capitalismo intellettuale, Gorz scriveva di lavoro
immateriale, tutti noi sociologi abbiamo favoleggiato di post-fordismo – ma non
nella sostanza e siamo passati dal fordismo concentrato nelle
grandi fabbriche al fordismo territorializzato dei distretti e
della piccola impresa, del toyotismo e dell’impresa snella e del capitalismo
molecolare di Bonomi e ora al fordismo personalizzato (partite
iva, lavoratori free-lance, capitalisti personali, makers) in rete e via
rete, se è vero che il lavoro in rete si svolge grazie ad un personal computer,
che il taylorismo digitale è ben più presente e diffuso del lavoro
di conoscenza, che anche la sharing economy e il lavoro
uberizzato (per non parlare del modello Amazon) sono poco diversi dal
vecchio fordismo-taylorismo, con la sola differenza che oggi l’assegnazione dei
compiti e dei tempi di lavoro viene comandata a distanza grazie a un device, ma
ciascuno (a parte una ristretta frazione del mercato del lavoro) è comunque
sub-ordinato ad una qualche forma di organizzazione che non controlla e che non
è sua. Si replica (i due processi vanno in parallelo) quanto
avvenuto nelle forme della società di massa, un tempo anch’essa concentrata (consumi
standardizzati, ideologie di massa, la piazza), poi sempre più individualizzata e
tutti ricevono gli stessi messaggi, tutti sono conformisti, tutti replicano
individualmente ciò che pensano tutti, e oggi la massa passa per i social
network e il conformismo digitale, tutti sono connessi ma soli. Tutti
organizzati, ma singolarmente.