di Massimo
Franchi
Jobs act. Il nuovo contratto a tutele crescenti
cancella l’articolo 18 e, allargando la normativa ai licenziamenti collettivi,
apre la strada alle discriminazioni. Inserito a sorpresa nel decreto il
contratto di ricollocazione con cui le agenzie interinali private cercheranno
lavoro ai licenziati, incassando un voucher in caso di riassunzione
La
«rivoluzione copernicana» di Matteo Renzi è stata un regalo di natale
assai sgradito per i lavoratori italiani — specie se giovani — sebbene
non contenga due delle «porcate» che i professoroni della destra volevano
inserire. Nel primo decreto del Jobs act sul contratto a tutele crescenti
che andrà progressivamente a sostituire il contratto a tempo
indeterminato — varato alla vigilia di natale dopo un consiglio dei ministri
tutt’altro che sereno — dell’articolo 18 rimane solamente un filo flebile ed
isolato.
A
parte il licenziamento discriminatorio — tutelato dalla Costituzione —
il reintegro sul posto di lavoro rimane solo nel caso «in cui sia direttamente
dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale». La paternità
dell’espressione per l’unica casistica rimasta di reintegro per il licenziamento
disciplinare — vanto della minoranza Pd — viene rivendicata dal giuslavorista
e parlamentare di Scelta Civica Pietro Ichino: «L’avverbio “direttamente”
è stato aggiunto con l’intendimento esplicito di sottolineare che il
presupposto per la reintegrazione circa la radicale insussistenza del
fatto contestato non possa essere fondata su presunzioni, ma su una prova
piena diretta», scrive il professore sul suo blog, contento comunque per
l’inserimento — a sorpresa — nel decreto del «suo» contratto di ricollocazione
con cui le agenzie interinali private cercheranno di ricollocare
i lavoratori licenziati, incassando un voucher in caso di
riassunzione.
Lo
stesso Ichino è però deluso dal fatto che le pressioni del ministro
Poletti — «ha destrutturato dall’interno la riforma più importante del
governo» — abbiano portato ad escludere dal testo due provvedimenti
a lui — e a Sacconi — molto cari: la cosiddetta opting out (la possibilità
per le aziende a cui sia intimato il reintegro di optare per un indennizzo
economico) e il licenziamento per «scarso rendimento». In entrambi
i casi Matteo Renzi ha spiegato che la decisione è stata presa perché
ci sarebbe stato il rischio di «andare oltre la delega del parlamento», come
aveva già denunciato il presidente della commissione lavoro della camera
Cesare Damiano.
Rimangono
invece nel testo due altri provvedimenti molto gravi — già denunciati dal manifesto il
giorno precedente il varo — e a rischio incostituzionalità. Il
primo riguarda l’allargamento del campo di applicazione della nuova normativa
sui licenziamenti anche a quelli di tipo collettivo. Un colpo di mano
veramente pesante perché va ad intaccare lo strumento — la legge 223 del
1991 — con cui in questi anni di crisi le aziende, specie quelle più grandi,
hanno portato avanti processi di riorganizzazione. Uno strumento che prevede
procedure precise per trovare un accordo con i sindacati
e ridurre il numero degli esuberi dichiarati usando gli ammortizzatori
sociali e — soprattutto — criteri di tutela dei più deboli nell’individuazione
del personale da licenziare.
D’ora
in poi quindi le aziende potranno in sostanza derogare a queste procedure,
arrivando a licenziare chi vogliono, senza il rischio di doverli reintegrare.
Il secondo provvedimento riguarda il fatto che la nuova disciplina sui
licenziamenti varrà per le imprese oggi non soggette all’articolo 18 perché
di dimensioni inferiori alla soglia di 15 dipendenti che supereranno tale
soglia: in questo caso il nuovo regime si applicherà anche ai rapporti di
lavoro costituiti anteriormente, cambiando quindi ai lavoratori assunti
precedentemente il loro contratto in modo surrettizio.
Per
il resto, rispetto alle previsioni, il testo non ha diversificato gli
indennizzi al variare della grandezza della azienda: tutte pagheranno due
indennità al mese con un massimo di 24, lasciando però totalmente aperto il
rischio che le imprese incassino gli incentivi per le assunzioni della legge
di stabilità, per poi licenziare allo scadere dell’anno, guadagnando nel
computo delle due voci: sgravi fiscali superiori all’indennizzo da pagare.
Il
governo ha poi varato anche un secondo decreto, quello su una parte dei nuovi
ammortizzatori sociali. Un testo tutt’altro che definitivo visto che viene
approvato con la dizione «salvo intese» e che — soprattutto — manca
ancora di copertura per un importo di almeno 400 milioni. I 16 articoli
che disciplinano la «nuova prestazione di assicurazione sociale per
l’impiego» sembrano una sciarada. Le sigle si accavallano: c’è la Naspi che
sostituisce la vecchia Aspi della Fornero, c’è poi l’Asdi — assegno di
disoccupazione che sostituisce la vecchia indennità — e infine la
Dis-coll, il nuovo ammortizzatore per co.co.co e cocopro.
Di
sicuro c’è solo che l’affermazione di Renzi — «allunghiamo l’Aspi a 24
mesi per tutti» — è palesemente falsa: i due anni saranno solo per
i pochissimi precari che hanno lavorato senza interruzioni con «contribuzione
negli ultimi quattro anni» e si specifica dal «primo gennaio 2017 la
durata è in ogni caso limitata ad un massimo di 78 settimane», meno di
un anno e mezzo.
I
commenti di partiti e sindacati sono variegati. Se Forza Italia
sbraita «alla vittoria della Cgil», Ncd e centristi con Maurizio Sacconi
parlano di «compromesso», mentre Cesare Damiano stuzzica i compagni
di maggioranza e annuncia che «ci batteremo per limitare ai licenziamenti
individuali le nuove norme, escludendo quelli collettivi». Tra i sindacati
alle critiche di Cgil e Uil fa dà contraltare la Cisl che plaude
a molte norme e parla di «testo migliorabile».
Ora
toccherà alle due commissioni Lavoro di Camera e Senato esprimere un
parere — non vincolante — entro 30 giorni. Poi il governo dovrà decidere se
modificare i testi o mantenerli inalterati. Nel frattempo le
mobilitazioni del sindacato — come annunciato da Susanna Camusso
e Maurizio Landini — andranno avanti.