di
Paolo Cacciari
Economie
solidali e cooperanti, relazioni di auto-mutuo-aiuto, scambi non mercantili,
lotta allo spreco e al consumo del suolo, ritorno alla terra,
all’autoproduzione, all’autogestione dei beni comunitari. Insomma, una
colossale riconversione degli apparati produttivi e di consumo, una
rifinalizzazione della ricerca scientifica e delle tecnologie per aumentare le
capacità di rigenerazione dei cicli vitali ecosistemici. Una rivoluzione delle
teorie e delle politiche economiche volte a limitare il lavoro coartato e a
distribuirlo equamente. Una nuova “grande transizione” per fuoriuscire dalla
dominazione della stagione del profitto e dell’accumulazione monetaria ed
entrare in un altro ordine di pensiero e di relazioni umane. Una grande
intrapresa sociale e politica-democratica congiunta che chiamiamo di decrescita
dalla dipendenza dal totalitarismo del sistema mondo capitalistico
Cambiare
il mondo si può fare, è un obiettivo alla portata dell’umanità. Perché ognuno
di noi, in cuor suo, lo desidera e sa bene come lo vorrebbe, e perché siamo il
99 per cento della popolazione del mondo.
Paul
Hawken le ha chiamate «moltitudini irrequiete»1. Manuel Castells, che ha condotto uno
studio in Catalogna sullo stile di vita delle famiglie colpite dalla crisi
economica, la chiama «cultura economica alternativa». Alcune persone hanno già
cominciato a vivere in modo diverso o perché vogliono altri stili di vita, o
perché non hanno scelta […]. A vivere in modo diverso – ossia quel che risulta
dall’espansione di quelle che chiamo “pratiche non capitalistiche”. Sono
pratiche economiche, ma che non sono motivate dal profitto – reti di scambio,
monete sociali, cooperative, autogestione, reti agricole, auto aiuto reciproco,
semplicemente la voglia di stare assieme, reti di servizi gratuiti per gli
altri, nell’aspettativa che anche gli altri ti aiuteranno. Tutto questo esiste
e si sta espandendo in tutto il mondo2.
Alla
base della società, in tutti gli angoli del mondo, vi sono enormi energie
vitali capaci di farci uscire dalla crisi di civiltà in cui siamo precipitati.
Movimenti di donne e di uomini che si battono per la giustizia sociale e per la
salubrità dell’ambiente, associazioni professionali e sindacali che operano per
l’innovazione e il cambiamento, gruppi di cittadinanza attiva che vorrebbero
partecipare alla gestione della pubblica amministrazione, collettivi di
consumatori e di produttori che operano per tracciare la sostenibilità sociale
e ambientale delle merci, comitati locali che rivendicano la sovranità
territoriale, energetica ed alimentare delle popolazioni, giovani e anziani che
mettono a disposizione le loro forze e la loro esperienza nel volontariato. Una
foresta sta crescendo senza fare troppo rumore. Hanno scritto due epidemiologi
impegnati nella ricerca dei determinanti sociali della salute:
“Un
movimento sociale che aspiri a realizzare l’uguaglianza ha bisogno di una
chiara direzione di marcia di una visione di come poter realizzare i
cambiamenti economici e sociali necessari. Il segreto è individuare i diversi
modi di cui la nuova società può cominciare a crescere all’interno e a fianco
delle istituzioni, che potrebbe gradualmente marginalizzare e sostituire. È
così che si realizza il cambiamento; anziché aspettare che un governo lo faccia
al nostro posto, dobbiamo essere noi a cominciare a produrlo immediatamente
nelle nostre vite e nelle istituzioni sociali. Ciò di cui abbiamo bisogno non è
una grande rivoluzione, ma un flusso continuo di piccoli cambiamenti in una
direzione coerente3”.
Un’enorme
intelligenza collettiva non viene ancora utilizzata4. Disoccupazione, inoccupazione,
precarizzazione sono lo spreco più intollerabile generato da una
(dis)organizzazione sociale incapace di dare risposte ai bisogni più elementari
delle popolazioni. La responsabilità è della politica istituzionale che non
ascolta e rinuncia ad intervenire, per non disturbare i meccanismi “spontanei”
dei mercati dei capitali e delle borse valori. Ma la nozione di politica,
nonostante tutto, è costretta a fondarsi sull’idea della partecipazione e del
consenso. Ha bisogno di noi.
Già
sento ronzarmi nelle orecchie le accuse che la sinistra politica tradizionale
muove ai movimenti sociali: mancanza di visione generale, di progettualità e di
“cultura di governo”, eclettismo teorico e inconsistenza organizzativa. Sulla
testa dei movimenti che criticano le “magnifiche sorti e progressive” delle
forze produttive dell’industrializzazione cade la condanna di oscurantismo,
neofeudalesimo, pregiudizio antimoderno. Ma nei movimenti sociali nessuno
propone di fare a meno delle conoscenze e dei saperi, sempre più raffinati e
specializzati, in tutti i campi delle scienze umane e naturali, ma “solo” di
non perdere di vista ciò che dovrebbe essere il loro scopo comune: il
miglioramento delle condizioni della vita per tutti.
Oggi
invece i benefici dell’incredibile incremento della produttività dovuta alle
continue innovazioni tecnoscientifiche e organizzative della megamacchina
industriale installata sul pianeta, servono solo ad arricchire ristrette
oligarchie di manager, burocrati e politici che hanno conquistato i vertici
delle gerarchie sociali. Ai piani bassi della piramide si vive sotto la
minaccia dell’inoccupazione e il ricatto della disoccupazione, si accettano
lavori privi di soddisfazione personale e di utilità sociale, si respira
un’aria più inquinata, si mangia cibo spazzatura e ci si ricopre di vestiti e
di gadget frutto di lavoro schiavo, si consumano (come abbiamo visto) più
psicofarmaci e si va di più in galera. Gli “indici della percezione della
felicità” individuali seguono un andamento inverso a quello della crescita del
Pil. Gli “anni gloriosi” del secondo dopoguerra sono lontani ricordi. Sia
nell’ex Primo mondo, dove il “compromesso socialdemocratico tra capitale e
lavoro” aveva fatto balenare la possibilità di un assetto equilibrato nella ripartizione
della ricchezza, sia nel Terzo e Quarto mondo dove la decolonizzazione degli
impianti industriali “a bocca di miniera” e a basso costo del lavoro aveva
aperto la speranza di una rapida uscita dalla povertà5. L’incredibile susseguirsi di crisi, che
dagli inizi degli anni Settanta ad oggi investe le economie capitalistiche,
legittimano una diagnosi di fallimento del sistema. Quantomeno è emersa una
evidente divaricazione tra obiettivi dichiarati e risultati ottenuti.
Serve
quindi ritrovare la autenticità degli obiettivi originari, essenziali, che la
comunità umana da sempre persegue. Una operazione di ascolto delle necessità
sostanziali e dei desideri genuini che solo individui coscienti e liberi sono
in grado di riconoscere e comprendere. Le oligarchie tecnocratiche al potere
del sistema capitalistico dominante (quello delle grandi compagnie
multinazionali che oltre a controllare l’economia condizionano le politiche
degli Stati6) sanno molto bene ciò di cui hanno
bisogno le persone comuni: dormire sotto un tetto, sfamarsi, vestirsi,
muoversi, curarsi, possibilmente istruirsi. Quindi hanno trasformato queste
necessità in bisogni standardizzati e gerarchizzati da soddisfare tramite il
mercato. Gli individui stessi si sono trasfigurati in “bisognosi” dipendenti
per tutte le loro necessità vitali da un reddito cui accedere a beni e servizi
forniti dalla produzione industrializzata. «Le persone si trasformano in
elementi astratti di un equilibrio matematico» osservava Ivan Illich7. Gli economisti, i nuovi sacerdoti del
sistema, ci hanno spiegato che difficili e complessi equilibri dei mercati
delle materie prime, del lavoro, delle merci e del denaro dovrebbero garantire
la ottimale congiunzione della domanda e dell’offerta. Ma così non accade mai.
Mano a mano che l’economia capitalistica cresce, immense masse di contadini e
artigiani si trasformano in prestatori d’opera salariati (un miliardo in più
solo da quando la “globalizzazione” guidata dal WTO ha abbattuto i confini
geopolitici del pianeta8) e le comunità di villaggio con economie
di sussistenza vengono distrutte a favore dell’inurbamento nelle megalopoli
(tre quinti della popolazione mondiale a metà secolo sarà concentrata in aree
con più di 10 milioni di abitanti a fine secolo9).
Siamo
intrappolati nella condizione di produttori-consumatori. Siamo costretti a
cercare di ottenere sempre più denaro dal tempo che dedichiamo al lavoro
retribuito con il quale tentare di comprare la maggiore quantità possibile di
merci. Evidentemente, in questa dimensione di vita, anche le questioni d’ordine
qualitativo sono determinate dalle regole del mercato. Ad esempio, il tempo
necessario da dedicare alla cura e al lavoro domestico è sotto attacco a causa
della istituzionalizzazione e privatizzazione dei servizi sociosanitari e
dell’istruzione, dell’industrializzazione del cibo preconfezionato, ecc.
Nell’ottica della logica della crescita dei valori di scambio delle merci, il
tempo dedicato a pratiche gratuite è considerato tempo sprecato,
“improduttivo”. Come ricorda spesso Maurizio Pallante, “fa più Pil” una
‘badante’ che non una assistenza amorosa familiare. Così come non sarà più
possibile pretendere un lavoro professionalmente corrispondente ai propri
interessi e vocazioni personali, poiché gli accessi scolastici (numero chiuso,
costi di iscrizione, ecc.) sono indirizzati in base alla domanda di lavoro che
l’apparato produttivo richiede. A che serve studiare ciò che piace? Ovviamente,
anche la possibilità di vivere in un ambiente decente, dopo la distruzione
sistematica degli ecosistemi naturali, è regolata dal mercato immobiliare.
Dalle città si scappa appena si può.
Note
[1] P. Howken, Moltitudine
inarrestabile. Come è nato il più grande movimento al mondo e perché nessuno se
ne è accorto, tr. it. di P. Zaratti, Edizioni Ambiente, Milano 2009.
Ma il titolo originario era: Blassed Unrest, traducibile in
‘benvenuta irrequietezza’.
[2] Intervista a M.Castells, L’espansione
del non-capitalismo, P. Mason, in www.outraspalavras.it, 10 dicembre 2012.
Per la traduzione si veda: in www.democraziakmzero.org.
[3] R.Wilkinson e K. Pickett, La
misura dell’anima. Perché le diseguaglianze rendono la società più infelice,
Feltrinelli, 2009 [pp. 236-237].
[4] Guido Viale, La
conversione ecologica. There Is No Alternative, NdA Press, Rimini,
2011.
[5] Ricorda sempre Latouche che “la
generazione dei trent’anni di sviluppo economico (1945-1975) si è così
addormentata, credendo di essere in cammino verso il paradiso, e un bel giorno
si è svegliata all’inferno […] Dimenticava a quale prezzo li (i successi) aveva
conseguiti. Questo prezzo era duplice: il dominio da parte dell’Occidente e la
sottomissione del resto del mondo; il saccheggio sconsiderato della natura e la
devastazione dell’ambiente”. S. Latouche, La fine del sogno occidentale,
Elèuthera, Milano, 2002, p.170.
[6] Il Centro Nuovo Modello di
Sviluppo coordinato da Francesco Gesualdi produce da tempo un osservatorio
sulle corporation. L’ultimo rapporto si intitola: La
crescita del potere delle multinazionali, del 2009. Guido Rossi ha
calcolato che “Il 51% della ricchezza mondiale è nelle mani delle grandi
corporations”, che hanno imposto la loro lex mercatoria. “Le grandi
imprese lavorano tra di loro: non c’è più una norma giuridica che ne disciplini
i comportamenti”. Guido Rossi ha calcolato che “il 51% della ricchezza mondiale
. nelle mani delle grandi corporations”, che hanno imposto la loro lex
mercatoria. “Le grandi imprese lavorano tra di loro: non c’è più una norma
giuridica che ne disciplini i comportamenti.” G. Rossi, Crescita
impossibile e fine del progresso, in “Il Manifesto”, 31 ottobre 2010. I
trattati transcontinetali di libero scambio ne sono una tragica conferma.
[7] Ivan Illich, Bisogni,
in di W. Sachs (a cura di), Dizionario dello sviluppo, Edizioni
Gruppo Abele, Torino, 1998.
[8] E’ bene tener presente la
dislocazione sul pianeta della forza lavoro a disposizione del capitale. Dati
2008. Cina 775 milioni di lavoratori; Stati Uniti d’America: 145. Brasile: 91.
Giappone: 64. Messico: 44. Germania: 39. Regno Unito: 30. Francia: 26. Italia:
23.
[9] Per avere un’idea di cosa stia
succedendo lì dentro vedi i lavori di Mike Davis, incominciando dalle: Città
morte. Storie di inferno metropolitano, Feltrinelli 2002, e di David
Harvey, Il capitalismo contro il diritto alla città, Ombre corte,
2012.
* Paolo Cacciari, Vie di fuga, Marotta&Cafiero
editori, Napoli, 2014 (disponibile
su Comune-info)
l’estratto corrisponde al paragrafo Cambiare il mondo (pp.33 -38), Cap. I - Dopo la fine del sogno americano