di Sergio Bologna
Ovvero come il patrimonio teorico dell’operaismo
italiano è servito a comprendere la realtà del lavoro postfordista. Non c’è mai
stata una discussione sulla periodizzazione storica dell’operaismo, non ci sono
dubbi sulla sua data di nascita ma non c’è nessun accordo sulla sua data di
morte, anche perché una teoria politica che è anche una metodologia conoscitiva
non muore mai finché c’è qualcuno che ritiene utilizzabili i suoi strumenti
analitici e le sue conseguenze pratiche
Il
sistema di pensiero che viene riassunto con il nome di “operaismo italiano” non
è un sistema organico, racchiuso in un testo fondamentale, in una qualche Bibbia,
ma è la somma di diversi contributi teorici provenienti da alcuni intellettuali
militanti che hanno fondato le riviste “Quaderni Rossi” e “Classe Operaia”.
Raniero Panzieri, Mario Tronti, Toni Negri e Romano Alquati sono quelli che
hanno posto le fondamenta del sistema, altri, come Gaspare De Caro, Guido
Bianchini, Ferruccio Gambino, Alberto Magnaghi, hanno portato dei contributi
essenziali su tematiche specifiche che completavano l’orizzonte del pensiero
operaista e gli davano l’impronta di un “sistema” coerente al suo interno, come
la storiografia, l’agricoltura, le migrazioni, il territorio.
Operaismo e fordismo
L’esperienza
dei gruppi operaisti si è sviluppata in un periodo storico nel quale sembrava
che nelle società capitaliste non ci fosse un’alternativa alla produzione di
massa caratterizzata da grandi imprese in grado di ottenere forti economie di
scala. La grande fabbrica nella quale migliaia di lavoratori svolgevano
operazioni sempre più semplificate - mentre le macchine svolgevano operazioni sempre
più complesse - sembrava il punto d’arrivo di un processo storico che aveva
origine nella nascita dell’industrialismo. La produzione di massa era il modo
migliore per produrre beni che costavano poco sul mercato e potevano essere
acquistati da tutti, in primo luogo dagli stessi lavoratori che li producevano,
anche se si trattava di beni complessi come l’automobile. Così si creavano le
premesse per realizzare l’insostituibile integrazione alla produzione di massa,
cioè il consumo di massa.
Un
sistema tanto perfetto e ben funzionante che era stato adottato anche dai paesi
dove aveva trionfato la rivoluzione comunista. Anzi, la rivoluzione comunista
aveva trionfato in paesi nei quali questo sistema era ancora molto imperfetto,
poco sviluppato o addirittura inesistente, sono stati i governi usciti dalla
rivoluzione a portare a compimento lo sviluppo del sistema della produzione di
massa organizzandola in grandi Kombinat, in complessi industriali con migliaia
di lavoratori, estendendola anche all’agricoltura. In Occidente questo sistema
veniva chiamato per comodità “fordismo” perché aveva trovato la sua
applicazione pratica e teorica più compiuta nell’organizzazione delle fabbriche
dell’automobile di Henry Ford. L’idea di base dell’operaismo, mutuata ovviamente
dalla teoria marxiana, era che la grande fabbrica con le sue migliaia di operai
potesse trasformarsi in un grande terreno fertile per un progetto
rivoluzionario e diventare da sede della produzione di massa a spazio liberato
dall’oppressione capitalistica. Il capitalismo doveva essere imprigionato nella
sua stessa dimora, le mura della sua casa dovevano diventare le sbarre della
sua prigione. Il lavoro fordista alla catena di montaggio doveva diventare il
terreno di formazione del soggetto rivoluzionario, dell’operaio massa.
Come
si vede, l’idea primordiale dell’operaismo era il calco, l’impronta rovesciata
del fordismo. Senza un’organizzazione sociale come quella della fabbrica
fordista l’operaismo avrebbe avuto difficoltà a elaborare il suo progetto rivoluzionario,
l’operaio massa si formava come classe dentro un sistema produttivo con
particolari caratteristiche tecnologiche, era tutt’uno con questo sistema, che
gli forniva i mezzi di sussistenza. L’operaio massa era innanzitutto un
salariato, la struttura della sua busta paga era composta da una parte fissa,
il salario base, da un parte variabile, collegata alla produttività e da altre
voci che corrispondevano ad altrettante conquiste contrattuali come il recupero
dell’inflazione, gli assegni familiari, le ore straordinarie, i premi di
produzione, le indennità per lavori notturni o nocivi ecc.. L’organizzazione
produttiva fordista non era il sistema dominante solo all’interno della
fabbrica ma proiettava i suoi rigidi schemi anche sulla società, sulla mobilità
urbana ed extraurbana, sugli insediamenti abitativi, sugli orari dei negozi.
Migliaia di operai uscivano al mattino presto dalle fabbriche dopo aver fatto
il turno di notte ed altrettante migliaia erano in attesa fuori dai cancelli
per entrare al primo turno del mattino. Era questo il momento migliore per
distribuire e diffondere i volantini di “Classe Operaia” e di “Potere Operaio”,
volantini che quasi sempre erano stati scritti su indicazioni fornite da operai
delle stesse fabbriche, dopo un lungo lavoro di “conricerca”, di dialogo e di
scambio di opinioni e informazioni tra militanti operaisti e operai di
fabbrica.
L’operaismo
quindi è stato in tutto e per tutto l’immagine rovesciata del fordismo, era
tutt’uno con il fordismo, viveva in simbiosi con esso, non sembrava
immaginabile un operaismo senza una società fordista, senza una produzione di
massa, senza l’operaio massa. Con la morte del fordismo avrebbe dovuto morire
anche l’operaismo. La società postfordista, la società dell’informazione, la società
della prevalenza del terziario e della finanza, del lavoro precario e del
lavoro indipendente, avrebbero dovuto essere incomprensibili a chi si era
formato sul fordismo. L’operaismo avrebbe dovuto estinguersi lentamente man
mano che la figura dell’operaio massa diventava sempre più marginale nelle
società occidentali. Invece ciò non è avvenuto, i militanti, gli attivisti, gli
intellettuali che avevano condiviso l’esperienza operaista sono stati in grado
meglio di altri di cogliere le caratteristiche della nuova formazione
capitalistica – che per comodità abbiamo chiamato “postfordista”. Anzi, di
tutte le organizzazioni ed i gruppi extraparlamentari degli Anni 70 operanti in
Italia, gli eredi dell’operaismo sono rimasti gli unici a tentare, a volte con
successo, di elaborare una nuova teoria della liberazione praticabile nella
società postfordista, sono gli unici che sono riusciti a tallonare l’evoluzione
del capitalismo da Henry Ford a Steve Jobs, producendo analisi convincenti e
pratica politica sia con il lavoro salariato sia con il lavoro non salariato.
Com’è stato possibile?
Il ruolo dell’intellettuale
Innanzitutto
occorre ricordare che l’operaismo non è stato una semplice riproposizione
dell’anarcosindacalismo o del Linkskommunismus, gli operaisti non hanno mai
creduto che il sistema capitalista, assediato da conflitti industriali sempre
più estesi, con una classe operaia sempre più aggressiva, disposta a praticare
il blocco della produzione e di qualunque attività propria del lavoro
subordinato, sarebbe crollato in seguito a uno sciopero generale prolungato e
irreversibile. Queste utopie non appartengono alla tradizione operaista, anche
se le tecniche del conflitto industriale che l’operaismo ha cercato di
promuovere erano le stesse dell’anarcosindacalismo. L’operaismo non è mai stato
indulgente con le semplificazioni, con le facili parole d’ordine, a costo di
apparire esercizio di intellettualismo, a costo di essere accusato di eccesso
di pensiero astratto. Prima di tutto l’operaismo non ha mai preteso di poter
“insegnare” agli operai la via della rivolta o della rivoluzione, al contrario,
la pratica operaista della “conricerca” vuol dire semplicemente che il
militante deve “imparare” dagli operai, deve saperli ascoltare, mantenendo però
sempre il suo ruolo d’intellettuale, che gli consente di trasmettere strumenti
di pensiero e di analisi che possono essere utili all’operaio che intende
affrontare un percorso collettivo di liberazione.
L’operaismo
ha sempre rifiutato l’atteggiamento populista, che era molto comune tra i
militanti dei gruppi extraparlamentari degli anni 70 in Italia, di camuffarsi
da operai, di vestire la tuta blu per assomigliare agli operai, di nascondere
con vergogna le proprie origini borghesi. Al contrario, chi ha avuto la fortuna
di poter studiare, di frequentare l’Università, di avere a disposizione
strumenti per arricchire le proprie conoscenze, per sviluppare uno spirito
critico, chi ha avuto la fortuna di poter studiare all’estero, di imparare le
lingue, di conoscere meglio e da vicino il pensiero del capitale, chi ha avuto
la fortuna di conoscere la storia del movimento operaio, il pensiero marxista,
ha il dovere di perfezionare al massimo questi strumenti di conoscenza, di
raggiungere con i suoi lavori i livelli più alti di produzione scientifica e di
mettere a disposizione di tutti ma in particolare dei lavoratori il suo sapere,
le sue conoscenze. Deve concepire se medesimo come una cellula di una struttura
di servizio. Questo atteggiamento degli operaisti veniva trattato con
disprezzo, venivano chiamati spregiativamente “i professori”, in realtà anche
quando i loro principali esponenti si sono trovati a ricoprire ruoli accademici
(da Negri a Tronti, da Alquati a Gambino, da Bianchini a Magnaghi) hanno sempre
svolto il loro insegnamento come una missione politica, hanno sempre fatto
ricerca come fosse una “conricerca”, hanno sempre parlato e scritto lo stesso
linguaggio nelle loro pubblicazioni scientifiche e nel materiale di propaganda
politica. Il principio regolatore della loro vita d’intellettuali è stato
quello di essere sempre se stessi, non di sdoppiarsi in un ruolo di professori
ed uno di militanti, facendo gli accademici di giorno e gli operaisti di sera o
nei week end. Ed infatti sono stati gli unici professori universitari ad essere
messi in galera o ad essere espulsi dall’Università. La repressione si è
abbattuta in maniera selettiva su di loro.
La classe operaia come organismo complesso
Da
quanto si è detto è facile intuire che il sistema di pensiero operaista non ama
gli schematismi e le semplificazioni, al contrario, consapevole dell’estrema
complessità della realtà capitalistica, cerca di scandagliare a fondo questa
realtà, di rendersi conto dei suoi aspetti palesi e meno palesi. Potremmo dire
che ha una grande considerazione dell’avversario, sa che deve combattere una
potenza raffinata, brutale e seducente al tempo stesso. Sottovalutare
l’avversario è proprio degli stupidi, destinati a sicura sconfitta. Il primo
aspetto del sistema capitalistico al quale l’operaismo ha prestato la sua
attenzione è stato quello della tecnologia. L’impulso decisivo lo ha dato
Raniero Panzieri con la sua lettura innovativa del “Frammento sulle macchine”
di Marx pubblicato sul n. 1 dei “Quaderni Rossi”. La tecnologia è lavoro
incorporato, essa svolge un ruolo ambivalente, perché “libera” l’operaio da una
certa fatica ma al tempo stesso “sottopone” l’operaio ad un maggiore e più
rigido controllo. La tecnologia ha il potere di plasmare un certo tipo di forza
lavoro, di determinare certe sue caratteristiche professionali, che possono
avere dei risvolti specifici anche nella sua mentalità, nella sua cultura e
quindi nel suo agire politico.
L’operaismo
dice che la tecnologia ha il potere di determinare “la composizione tecnica
della classe operaia”. Facciamo un esempio. Nelle fabbriche dell’auto degli
anni 70 c’erano dei reparti nei quali l’operaio aveva un rapporto individuale
con la macchina, ne conosceva tutti i segreti, era in grado di “prepararla”, di
attrezzarla ed era molto orgoglioso di questa sua conoscenza che era anche la
fonte del suo piccolo potere. Si trattava di operai specializzati con una forte
coscienza del proprio ruolo, che venivano considerati la cosiddetta
“aristocrazia operaia” ed in genere erano anche i più combattivi, moltissimi
erano comunisti e consideravano il loro essere comunisti come una naturale
conseguenza del loro essere i più specializzati, i più qualificati, non solo
per quanto riguardava la macchina loro affidata, una pressa, un tornio, una
fresa, una saldatrice, ma per quanto riguardava l’intero ciclo produttivo;
conoscevano la fabbrica in ogni suo angolo, erano in grado quindi di
organizzare scioperi improvvisi, blocchi della produzione, fermando i punti
nevralgici del ciclo. Trasmettevano il loro sapere ai più giovani ma al tempo
stesso avevano un forte senso della gerarchia, ritenevano giusto un sistema
salariale fortemente differenziato, il giovane doveva salire gradino dopo
gradino la scala della specializzazione. In altri reparti della fabbrica invece
c’erano le catene di montaggio, cioè un tipo di tecnologia che non permette un
approccio individuale, dove potevano essere inseriti operai e operaie senza
nessuna qualificazione. A Milano agli inizi degli Anni 60 nelle fabbriche
elettromeccaniche, dove il lavoro alla catena non era spesso pesante come
nell’auto, nei reparti del montaggio venivano impiegate le donne, operaie
generiche, pagate ovviamente molto meno degli operai addetti alle macchine.
Questa classe operaia era quella che l’operaismo definì “operaio massa”, con
una mentalità molto diversa dall’operaio specializzato dell’aristocrazia
operaia e quindi con delle rivendicazioni opposte: aumenti salariali uguali per
tutti, abolizione del cottimo individuale. Rivendicazioni che dovevano suonare
come una bestemmia alle orecchie del vecchio operaio comunista che lavorava
come attrezzista sulle macchine individuali.
Cosa
succede quando negli Anni 80 la fabbrica si disintegra e poco alla volta si
diffonde e poi dilaga la tecnologia dell’informazione? Cosa succede quando gli
operai di fabbrica, specializzati o meno, operai massa o meno, vengono in parte
sostituiti dai robot, in parte vengono licenziati perché la produzione si
delocalizza verso i paesi emergenti, perdono la loro forza sociale, la
tradizione comunista viene buttata a mare dai partiti di sinistra e la classe
operaia non è più un soggetto politico? Succede che il mondo del lavoro si
adatta alle nuove tecnologie, viene plasmato dalle nuove tecnologie. Chi
proviene dall’esperienza operaista si trova ad avere degli strumenti
intellettuali in grado di capire cosa sta succedendo. Come prima aveva
osservato il rapporto tra operaio specializzato e macchina individuale o tra
operaio massa e catena di montaggio ora osserva il rapporto tra personal
computer e soggetto che lo sta utilizzando, mette a confronto due modi di
lavorare totalmente differenti, un modo di lavorare fordista, inquadrati in una
rigida organizzazione che comprende migliaia di persone in spazi dedicati, ed
un modo di lavorare solitario, senza spazi dedicati, capace di determinare i
propri ritmi e di accedere in permanenza ad un universo d’informazioni
potenzialmente infinito.
Al
primo momento l’uomo che lavora al personal computer gli appare come un puzzle.
E’ un uomo libero? Ha un grado di libertà maggiore dell’operaio schiavo della
catena di montaggio? Apparentemente sì. E’ un uomo che ha potere? Potere di
negoziazione nei confronti del suo datore di lavoro, quanto ne avevano gli
operai che collettivamente fermavano la produzione e trattavano con la
direzione? Apparentemente no, anzi sicuramente no, il potere sociale lo si
ottiene solo con la coalizione, l’individuo da solo è sempre subalterno. Come
dice Michel Serres, “la connettività ha sostituito la collettività”, il
lavoratore non vive insieme ad altri lavoratori come lui, a tu per tu, è
connesso con altri lavoratori dei quali non conosce né il volto né la voce ma
solo l’indirizzo mail. La massa d’informazioni che può procurarsi tramite
Internet gli conferisce maggiore potere, maggiore capacità di negoziazione
rispetto all’operaio che, schiavo della macchina, non aveva la possibilità di
accedere al mondo dell’informazione? No, non ha maggior potere, il solo
vantaggio che può avere nei confronti del lavoratore subordinato, operaio o
impiegato che sia, è quello di potere usare quelle informazioni per vivere come
lavoratore indipendente, come non salariato. Sono bastate quindi poche domande
che il vecchio operaista ha rivolto a se stesso sulla natura del lavoro
postfordista per capire che il capitalismo aveva fatto un enorme salto in
avanti nella capacità di controllare la forza lavoro; il nuovo soggetto, al
quale mancava ancora un nome, non aveva soprattutto la possibilità immediata di
coalizzarsi, di porsi in maniera negoziale con il datore di lavoro, anzi non
sapeva chi fosse il suo datore di lavoro, se medesimo o una terza persona? Per
immaginare un percorso di liberazione era necessario ricominciare daccapo,
mantenendo fermo però il punto di partenza, quello che tutti ritenevano ormai
superato: il problema del lavoro. Era ancora possibile immaginare un percorso
di liberazione partendo dal lavoro? Era ancora possibile vedere nell’uomo del
personal computer un lavoratore o questa parola “lavoratore”, worker, Arbeiter,
travailleur, trabajador, doveva essere cancellata dal vocabolario, perché
appartenente ad un’epoca ormai tramontata, cioè all’epoca fordista?
L’idea di lavoro nel postfordismo
La
forza dell’elaborazione teorica operaista consiste, come si è detto,
nell’affrontare la complessità dei problemi, nell’andare a fondo delle cose,
evitando le semplificazioni, le scorciatoie. L’esempio più illuminante lo si
può vedere osservando come gli operaisti trattavano il concetto di classe
operaia. Per la maggior parte dei militanti politici degli anni 60 e 70 il
termine “classe operaia” era una specie di mantra, una parola magica
onnicomprensiva. Bastava richiamarsi alla classe operaia per essere considerato
una persona appartenente alla “Sinistra”, al movimento operaio, per essere
considerato un comunista. Per gli operaisti invece la classe operaia era un
universo inesplorato, estremamente differenziato e complesso o, meglio, era il
punto di arrivo di un processo lunghissimo, irto di ostacoli, nel corso del
quale la forza lavoro prendeva coscienza del proprio ruolo e della propria
forza e si presentava sulla scena della società come un protagonista, non come
l’appendice del sistema di produzione capitalista.
Come
ho avuto modo di scrivere in un mio saggio sull’operaismo, “il lavoro
collettivo che la pattuglia operaista stava conducendo a contatto diretto con
il mondo della produzione di fabbrica cercava di andare a fondo dei diversi
piani che compongono il sistema dei rapporti di produzione: l’organizzazione
sequenziale del ciclo produttivo, i meccanismi gerarchici che esso produce
spontaneamente, le tecniche di disciplinamento e di integrazione che vengono elaborate,
l’evoluzione delle tecnologie e dei sistemi di lavorazione, le reazioni ai
comportamenti spontanei della forza lavoro, le dinamiche interpersonali
all’interno del reparto, i sistemi di comunicazione degli operai durante
l’orario di lavoro, la trasmissione dei saperi dagli operai più anziani a
quelli più giovani, la formazione di una cultura del conflitto, le divisioni
interne alla forza lavoro, l’uso delle pause e dell’orario di mensa, i sistemi
retributivi e la loro applicazione differenziata, la presenza del sindacato e
le forme di propaganda politica, la coscienza del rischio e i metodi per
tutelare la propria integrità fisica e la propria salute, il rapporto con i
militanti esterni, il controllo dei tempi e il rapporto con il cottimo, l’ambiente
di lavoro e via dicendo”. L’uomo con il personal computer, in quanto
lavoratore, cioè persona che cede un determinato prodotto intellettuale a terzi
in cambio di una retribuzione per poter sopravvivere, doveva presentare la
stessa, se non maggiore, complessità.
Cominciamo
dalle cose più semplici. Per esempio: quale forma assume la sua retribuzione?
La vecchia forma del salario oppure la forma dell’onorario? Viene pagato a ore
o a prestazione professionale? Ha un orario di lavoro? I parametri fondamentali
per definire un lavoratore sono il salario e l’orario, la sua vita privata, la
sua esistenza personale, la sua quotidianità, i suoi consumi, i suoi rapporti
di coppia, il suo standard di vita sono determinati in tutto o in parte da
questi due parametri. E’ una visione molto materialista, rozzamente
materialista, alla quale l’ideologia della modernità oppone la teoria che ciò
che conta nell’individuo non è la sua condizione materiale ma è la sua
personalità, il suo carattere, se è ottimista o pessimista, socievole o
scontroso, seducente o scostante, portato alla leadership o sottomesso,
espansivo o silenzioso, disinvolto o timido, che ha “carattere” o non ne ha.
Ma, a ben vedere, il più rozzo materialismo è meno ingannevole del
soggettivismo esasperato, dell’individualismo sterile e illusorio, che sono, a
ben vedere, dispositivi ideologici che hanno lo scopo di dissolvere la nozione
di “lavoro”.
La
concezione moderna di lavoro contenuta nell’ideologia della modernità è che
esso non è più un’attività umana conto terzi in cambio di mezzi di sussistenza
ma attività in cui l’individuo estrinseca la propria personalità, conosce
meglio se stesso, è quasi un incontro mistico. “Il lavoro è un dono di Dio” ho
sentito un giorno dire da un dirigente sindacale cattolico, il lavoro non
rientra nel mondo delle merci ma in quello della psicologia umana. Da questa
ideologia nasce l’idea del lavoro come “dono” dell’individuo alla collettività,
nasce la giustificazione del lavoro gratuito, del lavoro malpagato. Il
principio marxista che considera il lavoro il terreno primordiale sia
dell’antagonismo sociale che della cooperazione tra individui, il terreno sia
del conflitto che della solidarietà, viene completamente cancellato.
White collar e knowledge worker
Che
nome diamo all’uomo con il personal computer? Abbiamo accettato il nome che gli
aveva affibbiato l’ideologia dominante, knowledge worker, ci sembrava utile
perché conteneva la parola “worker” e quindi nessuno poteva negare che si
trattasse di una persona la cui essenza viene definita dal lavoro. Abbiamo
cominciato a ragionare su questa definizione. Poteva assomigliare al white
collar del fordismo? La risorsa analitica che potevamo mettere in campo era
quella delle inchieste sui tecnici di produzione apparse sin dai primi numeri
di “Classe Operaia” e poi divenute una costante della teoria e della pratica
operaista. Quanto più complessa diventava la tecnologia, quanto più sofisticate
diventavano le macchine, tanto maggiore era l’importanza della forza lavoro
dotata di conoscenze tecniche.
Il
capitalismo incorporava dentro i suoi processi produttivi sempre maggiori
contenuti scientifici, la produzione industriale di massa aveva alle spalle i
laboratori di ricerca delle università e dei reparti specializzati delle
aziende. I tecnici potevano essere rappresentati come una nuova classe, che
avrebbe potuto avere uno sviluppo analogo a quello della classe operaia. Già
nella storia del movimento operaio, durante i movimenti rivoluzionari dei
consigli alla fine della prima guerra mondiale, i brain worker avevano svolto
un ruolo positivo ed erano stati considerati dal comunismo delle origini una
componente essenziale della classe rivoluzionaria. Non è un caso che
l’operaismo, durante le rivolte studentesche del ’68, era più diffuso nella facoltà
scientifiche che in quelle umanistiche. Ma l’uomo con il personal computer non
poteva esser definito banalmente un white collar perché il mondo del lavoro non
era costituito soltanto da lavoro subordinato, da lavoro salariato, bensì da
tanti lavoratori indipendenti che fornivano le loro prestazioni, anche se
avevano un solo committente, lavorando a casa o in spazi di coworking o in un
caffé Starbuck. Il white collar condivideva con gli operai gli spazi
dell’azienda, aveva orari di lavoro simili, era a contatto quotidiano con i
problemi della produzione. Ci trovavamo di fronte ad un mutamento
antropologico, non solo a un mutamento sociologico. Se avessimo dovuto
ragionare ancora in termini sociologici avremmo dovuto dire che la divisione
chiara tra classi che il sistema fordista aveva determinato non era più
riconoscibile nella società dell’informazione e quindi i nostri parametri
dovevano cambiare. Restava fermo invece il punto di partenza, cioè la
convinzione che la tecnologia ha un effetto fortissimo sulla vita e la
mentalità del soggetto che usa questa tecnologia per stare nel mondo, per
lavorare, per guadagnarsi da vivere, per comunicare.
Il
nostro interesse, la nostra analisi, dovevano concentrarsi sulla figura del
knowledge worker e scandagliare le caratteristiche intrinseche a quella
moltitudine che formava la nuova middle class, un aggregato sociale che ormai
non aveva più i valori della vecchia borghesia, che non era più capace di
sfruttare il lavoro altrui perché ancora non capiva come faceva a non sfruttare
se stesso. L’estrazione di plusvalore ormai si trasferiva sempre più dalla
sfera produttiva alla sfera finanziaria, le enormi disuguaglianze di reddito
che sempre più si accumulavano nelle società capitaliste, l’impoverimento
progressivo della middle class, si spiegavano meglio analizzando le dinamiche
finanziarie che quelle della produzione di massa. Anche su questo terreno
l’operaismo poteva mostrare una sua superiorità, perché, unico tra le
componenti dei movimenti di protesta degli Anni 70, aveva affrontato le
problematiche della politica monetaria e dei grandi flussi finanziari
internazionali, soprattutto con il lavoro svolto dalla redazione della rivista
“Primo maggio”.
Il caso italiano
Infine,
la ragione forse decisiva per la quale l’operaismo ha avuto gioco facile nel
comprendere la natura del postfordismo è stata la sua origine italiana. Tra
tutti gli stati del capitalismo avanzato l’Italia è stata il paese che ha
portato avanti la disgregazione della grande fabbrica in maniera più radicale.
L’Italia è stata all’avanguardia nel cosiddetto “decentramento produttivo”,
nella frammentazione dell’impresa in tante piccole e minuscole aziende
artigiane. Nel giro di un decennio, dal 1980 al 1990, l’Italia diventa il paese
dei “distretti industriali”, aree specializzate in determinate produzioni,
soprattutto in produzioni a basso valore aggiunto (tessile-abbigliamento, cuoio
e calzature, arredo per la casa), caratterizzate dalla presenza di piccole e
medie imprese. Il sistema del decentramento produttivo comporta due vantaggi
rispetto alla fabbrica fordista: diminuisce i costi di produzione e riduce il
rischio di conflitti industriali. Una parte delle lavorazioni vengono date in
outsourcing, spesso agli stessi operai che vengono trasformati in artigiani
fornitori, il numero dei dipendenti diminuisce drasticamente e si riduce la
massa salariale e l’effetto di rivendicazioni sindacali. Siamo a metà tra
fordismo e postfordismo o, se vogliamo, siamo in presenza di un postfordismo
“dall’alto”. I vantaggi di questo sistema consentono la formazione anche di
grandi imprese multinazionali, come Benetton e Luxottica. I distretti
industriali si diffondono in particolare nelle regioni a forte controllo
sociale, nel Veneto cattolico e nell’Emilia Romagna comunista.
Il
Partito Comunista Italiano sposa l’ideologia del decentramento produttivo come
un “capitalismo dal volto umano” sostenibile perché privo di conflitti, il fine
principale di una comunità civile sembra quello, dopo il decennio di forti
conflitti e scontri di classe, della pace sociale. Gli intellettuali che
provengono dall’esperienza operaista colgono immediatamente questa
trasformazione, che viene accentuata e resa più radicale anche dai movimenti di
protesta del ’77, i quali rappresentano con le tematiche della soggettività,
dell’ambiente, del rifiuto del lavoro normato, disciplinato, irreggimentato,
una specie di postfordismo “dal basso”, un desiderio di liberazione che non
teme di contrapporsi alla stessa classe operaia. Sin dalle prime grandi ristrutturazioni
di aziende dell’auto (Innocenti di Milano, anni 1974-75) con l’uso massiccio
della Cassa Integrazione, gli operaisti seguono da vicino queste
trasformazioni, l’analisi del decentramento produttivo è uno dei temi centrali
sia di riviste come “Primo Maggio” che di gruppi universitari di ricerca, in
particolare a Milano alla Facoltà di Architettura dove insegna Alberto
Magnaghi.
Non
sono gli unici, anzi molti laboratori universitari, nel Veneto, in Emilia
Romagna, in Toscana, nel Mezzogiorno, seguono con interesse la trasformazione
del modello fordista, la differenza sta che nell’analisi dei gruppi che
mantengono il retaggio dell’operaismo il decentramento produttivo viene visto
come un attacco all’unità della classe operaia, come una rivincita del
capitalismo dalle sconfitte dell’”autunno caldo”, mentre gli altri gruppi di
ricercatori vedono nel decentramento produttivo solo una nuova frontiera del
capitalismo, con molti risvolti positivi. E’ il periodo in cui Toni Negri
promuove il movimento di Autonomia e teorizza l’emergere dell’”operaio
sociale”. Quindi la percezione del cambiamento e di un cambiamento epocale è,
si può dire, immediata. Il movimento del ’77 sembra per un momento intravedere
uno sbocco libertario del postfordismo, ma è solo una fiammata, l’anno
successivo i gruppi della lotta armata alzano il tiro e raggiungono l’apice
della loro azione con il rapimento Moro (marzo 1978). Un anno dopo, il 7 aprile
1979, parte l’ondata di arresti di tutti i militanti del disciolto “Potere
Operaio”. Non ci sarà più nessuna “via libertaria al postfordismo”, il
cambiamento di paradigma del capitale porterà solo ed unicamente il segno della
rivincita di classe.
L’operaismo e le nuove generazioni degli Anni 90
Per
un decennio la talpa operaista smette di scavare. In realtà “il periodo d’oro”
dell’operaismo si era chiuso già da un pezzo. Per Tronti, Asor Rosa, Cacciari
ed altri si era chiuso già prima del ’68 con il loro ingresso nel PCI, per
Negri ed altri compagni si era chiuso probabilmente con lo scioglimento di
“Potere Operaio”. Non c’è mai stata una discussione sulla periodizzazione
storica dell’operaismo, non ci sono dubbi sulla sua data di nascita ma non c’è
nessun accordo sulla sua data di morte, anche perché una teoria politica che è
anche una metodologia conoscitiva non muore mai finché c’è qualcuno che ritiene
utilizzabili i suoi strumenti analitici e le sue conseguenze pratiche. Sicché
possiamo ben parlare di un “post-operaismo” intendendo con questo il
riaffiorare di un interesse per i suoi paradigmi presso una nuova generazione
di militanti e di ricercatori nati alla fine degli Anni Sessanta e che
all’inizio degli Anni Novanta avevano vent’anni. La rivista “Primo Maggio” è
stata senza dubbio un’iniziativa culturale che esplicitamente si richiamava
all’operaismo, le sue pubblicazioni cessano nell’autunno 1988 con il numero 29,
ma proprio negli ultimi anni, quando a dirigerla erano Cesare Bermani e Bruno
Cartosio, s’erano avvicinati alla redazione alcuni giovani che in seguito
avrebbero avuto un ruolo nella critica al postfordismo e nei tentativi di
organizzare il precariato, il lavoro cognitivo, all’interno dei centri sociali.
Altri
si erano buttati a capofitto nell’informatica e nella cultura digitale
contribuendo a creare l’area italiana del movimento cyberpunk e del movimento
hacker, avendo come punto di riferimento iniziale la Libreria Calusca di Primo
Moroni a Milano, che era stata anche il centro propulsore della distribuzione
di “Primo maggio”. Raffaele “Valvola” Scelsi e Ermanno “Gomma” Guarneri saranno
tra i fondatori della rivista “Decoder” e poi della casa editrice Shake, che ha
svolto un ruolo fondamentale nella diffusione della “civiltà del computer” e
della cultura digitale. Essi, assieme a Rosie Ficocelli, Paola Mezza e Marco
Philopat (il quale fonderà poi una propria casa editrice), appartengono alle
nuove generazioni fortemente influenzate dall’operaismo, che intraprenderanno
dei percorsi politici originali e innovativi. Altri ancora avevano avuto come
maestri e docenti universitari i fondatori dell’operaismo e quindi facevano
tesoro del loro insegnamento, come Devi Sacchetto, allievo di Ferruccio
Gambino, o Emiliana Armano, allieva di Romano Alquati, che oggi è tra le
ricercatrici più attive a livello internazionale sulle tematiche del
precariato.
Questa
nuova generazione, nata e cresciuta nel postfordismo, si serve per la sua
crescita teorica e per le sue prime produzioni di saggi e di riflessioni della
rivista “Altreragioni”, nata nel 1991 nel clima di tensione politica creato
dalla guerra del Golfo, per iniziativa di alcuni tra i primi collaboratori di
“Classe Operaia”, di “Quaderni Piacentini” e dell’Istituto Ernesto de Martino.
Michele Ranchetti, uno dei più importanti intellettuali italiani del
dopoguerra, storico, saggista, direttore editoriale, pittore, poeta, musicista,
Franco Fortini, poeta, scrittore, critico letterario, già vicino ai “Quaderni
Rossi”, Edoarda Masi, sinologa, bibliotecaria, saggista, collaboratrice di
“Quaderni piacentini” assieme a Sergio Bologna, Ferruccio Gambino, Pier Paolo
Poggio, Lapo Berti, Guido De Masi, Cesare Bermani, Bruno Cartosio, Primo
Moroni, Giovanna Procacci (tutti nomi che troviamo anche tra i collaboratori di
“Primo Maggio”) ed altri lanciano l’iniziativa della rivista “Altreragioni”
alla quale si avvicinano immediatamente i giovani della nuova generazione che
aveva subìto l’influsso dell’operaismo. Uno di questi è Andrea Fumagalli, che
negli anni successivi, assieme alla compagna Cristina Morini, rappresenterà un
punto di riferimento teorico e politico dei movimenti del precariato e del
“cognitariato”. Dopo i primi numeri la rivista sarà diretta da Ferruccio
Gambino e Giovanna Procacci, mentre Sergio Bologna, Primo Moroni, Lapo Berti,
Christian Marazzi, Pier Paolo Poggio, Mavì Defilippi, Marco Cabassi ed altri
daranno vita ad un’altra iniziativa che ha avuto una certa importanza nel
raccogliere l’eredità operaista, la “Libera Università di Milano e del suo
Hinterland (LUMHI)”. Due i temi centrali della sua attività culturale: la
battaglia contro il revisionismo storico e la definizione dei soggetti sociali
del postfordismo. Dall’attività della LUMHI nasce in co-edizione
Shake-Feltrinelli l’opera collettiva che rappresenta una svolta nell’analisi di
classe post-operaista: “Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del
postfordismo in Italia” a cura di Sergio Bologna e Andrea Fumagalli. E’ il
1997, vecchia e nuova generazione hanno trovato qui un terreno comune di
dialogo e di produzione analitica.
Le
tesi e le ricerche di alcuni ex militanti dei gruppi operaisti riguardanti la
condizione dell’uomo moderno nel postfordismo e nell’economia del debito hanno
trovato largo riscontro anche sul piano internazionale, è il caso per esempio
di Maurizio Lazzarato, che si era laureato a Padova ed aveva avuto come
insegnanti Toni Negri, Ferruccio Gambino, Ferrari Bravo e Sergio Bologna. La
nuova generazione affronta anche la storia dell’operaismo, comincia a scriverla
a partire dalle testimonianze dei principali protagonisti. Dall’estero, non
soltanto dall’Italia, arrivano altri contributi che, riflettendo sulla storia
dell’operaismo, ne vogliono trarre, come “Storming Heaven” di Steve Wright, un
bilancio culturale e politico. Oggi la fonte principale per i documenti
originali dell’operaismo è la collana “Biblioteca dell’operaismo” della casa
editrice Derive&Approdi di Roma, fondata da un compagno di “Potere
Operaio”, Sergio Bianchi. Uno studio di caso sul passaggio da una società
industriale fordista a una società del terziario avanzato in un quartiere di
Milano è stato analizzato nel documentario di Sabina Bologna “Oltre il ponte.
Storie di lavoro.”
Il ruolo della Libreria Calusca di Milano
A
questo punto è necessario mettere a fuoco il ruolo molto importante che ha
avuto Primo Moroni e la sua Libreria Calusca nel creare un ponte tra la cultura
operaista e le nuove generazioni. La Libreria, durante gli anni 70 e 80, ha
svolto una funzione difficilmente classificabile con i parametri tradizionali
delle organizzazioni culturali. E’ stata un luogo d’incontro, di convergenza,
di dialogo tra tendenze politiche le più diverse, ma con un’accentuata simpatia
per il filone operaista, per i diversi filoni anarchici, per le tendenze
situazioniste e internazionaliste. Tradizioni e tendenze, come si vede,
fortemente diverse tra di loro o anche conflittuali ma che trovavano
accoglienza e rifugio (nei tempi duri) in un luogo che era straordinario perché
eccezionale era la personalità del suo titolare, Primo Moroni, uomo di grande
cultura e di ancora maggiore sensibilità per l’innovazione culturale, pur non
avendo nessuna formazione universitaria. Ex ballerino del varietà, ex
rappresentante librario, figlio di ristoratori toscani immigrati a Milano,
cresciuto in quartieri popolari dove la piccola malavita locale aveva modi e
codici di onore molto diversi da quelli della mafia, dove magari si rubava ai
ricchi per dare ai poveri, ultima propaggine di quella “mala” milanese che agli
inizi del ‘900 popolava i quartieri del Ticinese e viveva in simbiosi nelle
“case di ringhiera” con il proletariato industriale e l’artigianato
tradizionale fortemente influenzati dal socialismo. Ladri, rapinatori,
ricettatori, prostitute indipendenti, scassinatori, falsari vivevano accanto
alla pellicciaia, al tipografo, all’operaio elettromeccanico, al bottaio, al
falegname e formavano un amalgama molto resistente alla mentalità della società
borghese. Erano i componenti di un’unica cultura proletaria che difendeva le
sue prerogative ed ammetteva al suo interno le pratiche di illegalità e di
esproprio. Attorno a questo mondo sono sorti miti e leggende, è nato un vero e
proprio Canzoniere che negli anni 60 e 70 è tornato di moda, soprattutto tra i
movimenti di protesta che esaltavano molte forme di illegalità.
Primo
Moroni era capace di dialogare sia con le ultime tracce di questo mondo sia con
gli intellettuali di “Classe Operaia”. Egli riconosceva nell’operaismo il
sistema di pensiero politico più innovativo, ne era affascinato, così come era
attratto dal pensiero situazionista. Quando nel 1973 gli presentammo il nostro
progetto di “Primo maggio” ne colse immediatamente la ricchezza d’idee ed il
rigore scientifico e divenne l’editore e il distributore della rivista. Quando,
dopo il 1971/72, iniziarono le prime azioni di guerriglia urbana e fecero la
loro comparsa le Brigate Rosse e altri gruppi armati, Primo Moroni non esitò a
tenere in libreria e a diffondere le loro pubblicazioni e i loro scritti;
quando le carceri cominciarono a riempirsi di compagni che militavano nei
gruppi extraparlamentari la Libreria di Moroni divenne un punto di riferimento
per l’invio di materiali di lettura nelle carceri. Fu così che la rivista
“Primo Maggio” ebbe una diffusione ampia nelle prigioni (circa 500 copie per
numero venivano inviate in carcere su richiesta dei detenuti). Questa attività
naturalmente portò gli inquirenti e la polizia a considerare “Primo maggio” una
rivista vicina al terrorismo e solo grazie a delle prese di posizione decise di
alcuni membri della redazione, anche nei confronti di Toni Negri, fu possibile
evitare l’identificazione tra la nostra rivista e i gruppi dell’Autonomia o i
gruppi armati.
Negli
Anni 80 e 90 tutta la controcultura giovanile delle nuove generazioni che
entravano nell’èra digitale faceva riferimento alla Calusca, la quale nel
frattempo era diventata anche una struttura di soccorso ai vecchi militanti che
scontavano molti anni di carcere, soprattutto a quelli privi di ogni sostegno,
senza organizzazioni di riferimento, che avevano perduto tutto, casa, famiglia,
lavoro. Abbiamo visto spesso queste persone, sempre ex operai o comunque gente
di origine proletaria, uscire dal carcere a Milano, magari dopo vent’anni
trascorsi nelle prigioni di alta sicurezza di tutta Italia e, non sapendo dove
rivolgersi per un aiuto, arrivare in Libreria Calusca a chiedere un prestito
per un biglietto del treno, in modo da andare sulla tomba dei genitori morti
nel frattempo in qualche paesino del Sud. In Primo Moroni trovavano sempre
solidarietà proletaria. La sua Libreria dunque metteva insieme i superstiti
della cultura operaista, i giovani dei centri sociali e dei movimenti
cyberpunk, i reduci della lotta armata ma anche moltissime persone di autentici
sentimenti democratici, docenti universitari, professionisti, insegnanti. La
Calusca era una specie di “zona franca” dove persone diversissime e ambienti
che non avevano alcun contatto tra di loro s’incontravano e si rispettavano.
Primo Moroni era un grandissimo affabulatore, non ha scritto molto ma ha
rilasciato molte interviste e testimonianze. Senza Primo Moroni l’operaismo non
avrebbe mai raggiunto le giovani generazioni dell’èra digitale.
Il post-operaismo e la sindacalizzazione dei self employed
La
caratteristica specifica del pensiero dell’operaismo è la sua stretta aderenza
alla realtà, è il suo rapporto costante con l’azione, con la pratica militante.
Gli scritti della tradizione operaista non sono destinati alla mera lettura o
alla mera propaganda, il loro rigore scientifico non è destinato alla
valutazione accademica, il loro messaggio è un messaggio puramente politico,
esso deve produrre azione, mobilitazione, conflitto, confronto. L’analisi non
deve restare pura analisi, non avrebbe alcun senso se restasse allo stadio di
analisi, anche la più sofisticata. L’analisi può essere anche parziale,
insufficiente, ma deve produrre mobilitazione, deve risvegliare le coscienze,
deve mettere in moto delle dinamiche soggettive che portano le persone a
tutelare e difendere i propri diritti, la propria dignità, sul lavoro, nei
rapporti di lavoro. Le analisi contenute nel volume “Il lavoro autonomo di
seconda generazione” sono state anche duramente criticate dalla sociologia
accademica, con qualche ragione, ma quelle pagine hanno trovato ascolto in
coloro che cominciavano a muoversi per conto proprio per costituire una
rappresentanza sindacale dei self employed. E così doveva essere. Se la critica
accademica è arrivata a definire sprezzantemente le nostre analisi del lavoro
autonomo come “inutilizzabili” a noi non importa gran che, ne prendiamo atto ma
l’importante per noi è che le nostre analisi vengano comprese, assimilate e
condivise da coloro i quali vivono di lavoro autonomo, da coloro che del lavoro
indipendente non salariato fanno dipendere la loro sopravvivenza. Queste
persone hanno saputo utilizzare le nostre analisi ed hanno smentito in tal modo
la critica accademica. Alla fine degli Anni 90 negli Stati Uniti e agli inizi
del nuovo Millennio in Italia si sono costituite delle associazioni di difesa
dei lavoratori indipendenti, dei freelance, i quali storicamente sia al di qua
che al di là dell’Atlantico sono sempre stati esclusi dal welfare state e dallo
stesso diritto del lavoro perché considerati “imprese”. Poiché queste figure
professionali, esplose con l’avvento dell’informatica, appartengono socialmente
alla lower middle class, l’identificazione con il mondo dell’imprenditoria
piuttosto che con il mondo dei lavoratori è stata un pesante retaggio della
loro cultura borghese.
Le
organizzazioni sindacali dei lavoratori dipendenti non li hanno mai presi in
considerazione, non li hanno considerati come soggetti facenti parte del mondo
del lavoro. Solo in epoca assai recente, negli ultimi due anni, in Italia il
sindacato CGIL, timoroso di vedersi sfuggire di mano una rappresentanza di
questi gruppi sociali che avevano iniziato ad autoorganizzarsi, ha cominciato a
creare dei gruppi di lavoro dedicati ai professionisti ed ai self employed. Il
post operaismo è riuscito quindi a cogliere questa trasformazione del mondo del
lavoro, è riuscito a dare un pensiero collettivo ai self employed, a renderli
consapevoli della loro identità di lavoratori, ha dimostrato l’assurdità di
considerare una persona come un’impresa (the one-man/one woman business),
l’impresa è sempre un’organizzazione complessa di cooperazione tra più persone
con diversi ruoli per la creazione di profitto in cambio dell’erogazione di
salari. Quali sono le principali rivendicazioni dei self employed? In primo
luogo il riconoscimento del loro diritto, come cittadini, a un’assistenza
pubblica in caso di malattia, a sussidi di disoccupazione e ad un trattamento
fiscale pari a quello dei lavoratori dipendenti. L’attività di pressione che le
associazioni di difesa dei diritti dei self employed ha esercitato in Europa
negli ultimi cinque anni ha ottenuto qualche risultato, in particolare la
dichiarazione del parlamento europeo del gennaio 2014 nella quale si afferma
che tutti i cittadini hanno gli stessi diritti indipendentemente dal lavoro che
svolgono.
Molto
maggiore ampiezza ha assunto invece la sindacalizzazione dei freelance negli
Stati Uniti grazie a una donna, Sara Horowitz, che negli ultimi anni del
Novecento ha saputo creare la Freelancers Union (FU), che oggi conta quasi 250
mila iscritti. Grazie al sostegno finanziario di molte Fondazioni private, la
FU ha costituito una Insurance Company che offre ai soci copertura finanziaria
e assistenza in caso di malattia.
In
Italia l’associazione che ha recepito le analisi post operaiste è
l’Associazione Consulenti Terziario Avanzato (ACTA), fondata a Milano nel 2003,
purtroppo ancora molto piccola, circa 2000 soci, ma riconosciuta come sister
organization dalla Freelancers Union. ACTA è membro anche dell’European Forum
of Independent Professionals, di cui detiene la Vicepresidenza. Se nella storia
del movimento operaio dei salariati la sindacalizzazione si accompagnava sempre
a un’adesione alle idee socialiste, nella sindacalizzazione dei self employed
prevale l’apoliticità, ma anche perché non esiste più una forza politica di
sinistra a livello europeo. In Italia, per esempio, dove esisteva il più forte
Partito Comunista dell’Occidente, non c’è più traccia di un pensiero sociale
d’ispirazione marxista, se non in movimenti sociali che non sono rappresentati
in Parlamento. Il Partito Democratico, che è in parte l’erede del vecchio
Partito Comunista e che nel corso degli anni ha cambiato nome più volte per
cercare di cancellare le tracce delle sue origini marxiste, è oggi una
formazione politica che sposa interamente le dottrine neoliberali delle lobbies
finanziarie. Essere apolitici non significa non avere idee politiche ma non
riconoscersi nei partiti rappresentati nel Parlamento.
Conclusioni
Il
pensiero operaista ha dimostrato di sapersi rinnovare e di saper interpretare
le grandi trasformazioni della società e dei modi di lavorare. Ma le speranze
dell’operaismo, i valori morali, civili e sociali per i quali si era battuto
sono stati brutalmente combattuti ed emarginati, quasi cancellati, dal pensiero
neoliberale dell’epoca postfordista ed in particolare dalle classi dirigenti
italiane di origine cattolica, socialista o liberale. La sistematica
persecuzione dei militanti di “Potere Operaio”, talvolta più ossessiva di
quella rivolta contro i militanti della guerriglia urbana, l’emarginazione del
pensiero operaista dalla scena culturale ed accademica non sono riusciti
tuttavia a impedire che le nuove generazioni riconoscessero in quel pensiero
uno strumento utile di liberazione. Le classi dirigenti che hanno combattuto
con stupido accanimento l’operaismo sono le stesse che hanno trascinato
l’Italia nella condizione miserevole, sia dal punto di vista economico che dal
punto di vista civile, di oggi. Il 40% di disoccupazione giovanile non è forse
l’aspetto più grave della miseria delle nuove generazioni, il precariato di
milioni di persone, i bassi salari, gli stages gratuiti, oltre all’assenza di
tutele, sono altrettanto, se non ancora più gravi. Se finalmente un giorno
questa massa di cittadini umiliati troverà la forza di ribellarsi, il pensiero
operaista e post-operaista tornerà ad avere un’ampia diffusione e forse avrà
ancora lunga vita.
Pubblicato
originariamente in inglese su viewpointmag.com e ripreso anche da dinamopress.it