di Francesco Raparelli
«Con un governo simile, che va avanti per decreti o per votazioni di
fiducia, anche quelli che vorrebbero aiutarci ormai sono impotenti. Il mandato
di Renzi è di diretta provenienza europea, è un mandato negoziato tra uno stato
con sovranità limitata come l’Italia e quella Commissione Europea che non cessa
di stupire per la sua ottusità liberista, la sua incapacità di rilanciare
l’economia, le sue ricette fasulle e controproducenti ed oggi anche per
l’equivoco profilo dei suoi massimi rappresentanti. Pertanto, non dobbiamo
aspettarci aiuti da nessuno, né tantomeno comprensione dei nostri problemi, né
tantomeno miglioramenti della nostra condizione fiscale e previdenziale. Ergo,
dobbiamo contare solo sulle nostre forze» (dalla
lettera scritta da Sergio Bologna agli amici di ACTA-Associazione dei
freelance)
Ebbene sì, il “grande innovatore”, Matteo Renzi, ha colpito a morte il
professionismo atipico (che non fa riferimento a ordini), i freelance, le
partite Iva.
Ma
come, dirà qualche imbecille stupito, non aveva promesso felicità per il
“nuovo” (le figure del lavoro intermittente e/o indipendente) e rottamazione
per il “vecchio” (articolo 18 in primis)? Non era facile, nessuno ci era
riuscito prima di lui, eppure Renzi ce l'ha fatta: nello stesso tempo, ha
eliminato lo Statuto dei lavoratori, istituzionalizzato la precarietà (senza
causale), affondato gli autonomi. Un piccolo grande miracolo che subito ha
raccolto l'applauso dei più “deboli”: Confindustria, FMI, Merkel, McDonald's,
Manpower, ecc.
Vediamo
più nel dettaglio l'ultima opera, da molti definita il «tradimento delle
partite Iva». In primo luogo il Jobs Act. Per settimane si è parlato – e lo ha
fatto Renzi a ogni piè sospinto – di estensione universale degli ammortizzatori
sociali, con riferimento ai parasubordinati (collaboratori a progetto) e agli
autonomi. Al dunque si è capito, come d'altronde era chiaro fin dall'inizio,
che le risorse erano insufficienti (2 miliardi di euro), zelante e immediata la
sforbiciata: niente Naspi per le partite Iva. Un primo colpo, ben assestato, di
cui si è parlato poco, come se fosse cosa di poco conto che un autonomo, nel
periodo di transizione da una commissione all'altra, debba vivere di stenti.
Poi
la Legge di stabilità, appena approvata, e la riforma del regime dei minimi.
Per un verso l'innalzamento dell'imposta sostitutiva (di Irpef, Irap e Iva),
dal 5 al 15%. Per l'altro la ridefinizione dei limiti (per accedere al regime
dei minimi): se prima, per tutti, valeva quello di 30.000 euro di fatturato
annuo, ora i limiti sono stati diversificati; “morbidi” (35.000/40.000) per
commercianti e ristoratori, bassissimi (15.000) per i freelance, il lavoro
creativo, della comunicazione, cognitivo. Altrettanto diversificato, a danno
dei freelance, il «coefficiente di redditività» su cui, in modo forfettario, si
calcolerà l'imponibile. Nulla si è fatto, infine, per fermare la mannaia della
Legge Fornero che prevede l'innalzamento dell'aliquota INPS, meglio, della
gestione separata, fino al 33% (entro il 2018); già al 29% a partire dal
prossimo anno. Un accanimento sistematico, di certo non una svista, come vuole
far credere il Primo ministro.
Quale
lezione impariamo da questo ultimo atto del violento autunno renziano?
Due
fra tutte. La prima: in continuità con i governi che l'hanno preceduto, da
Berlusconi a Letta, Renzi sta conducendo una guerra contro la forza-lavoro
qualificata. La guerra risponde a un'esigenza molto chiara: imporre una nuova
ondata di migrazione di massa. Nella contemporanea divisione continentale e
globale del lavoro, l'Italia crolla verso i gradini più bassi: non esistono, da
almeno un ventennio, politiche pubbliche e private a sostegno dell'innovazione
e della ricerca, non c'è un mercato delle competenze, non c'è un welfare
universale, ecc. Per chi ha ancora in mente di studiare, e in attesa di
decretare il trionfo assoluto di apprendistato duale e politecnici, l'unica
strada possibile è la fuga, l'esodo, la migrazione.
La
seconda: fiscalità e accesso selettivo al welfare sono le forme neoliberali di
controllo e ricatto nei confronti del lavoro autonomo. So, si tratta di
un'affermazione che lascia molti freelance, miei “colleghi”, perplessi. Recita
l'adagio: se sono una partita Iva, sono un'impresa individuale, dunque salta la
distinzione tra impresa e lavoro, non serve il conflitto sociale, basta ridurre
al minimo la burocrazia. Sì, peccato che le corporation transnazionali o le
holding bancarie, in combinazione con la governance europea, impongono le
scelte economiche di fondo, le «riforme strutturali» (riduzione della spesa
pubblica, privatizzazioni delle public utilities, precarietà generalizzata,
sotto-retribuzioni, ecc.), tassi di interessi e regimi fiscali. Il committente
non è un padrone, indubbiamente, ma il mercato non è un fatto di natura, a
maggior ragione nella scena ordoliberale, e nel mercato non tutti contano alla
stessa maniera.
Sergio
Bologna, storico e sociologo del lavoro, ma anche animatore di ACTA
(associazione dei freelance), in
una lettera scritta al seguito dell'approvazione della Legge di stabilità,
vista la disfatta, avanza due proposte: rafforzare il mutualismo, con uno
sguardo all'esperienza dei coworking; costruire la coalizione tra i freelance e
gli altri segmenti del lavoro. Citando i precari, pensa al NIdiL, e si
scoraggia. Eppure nell'autunno trascorso si sono addensati momenti di lotta, in
primo luogo lo Sciopero
sociale del 14 novembre, segnati da un robusto protagonismo dei precari e
delle tante figure del lavoro senza tutele. Certo solo un inizio, ma l'inizio
virtuoso a cui anche i freelance dovrebbero guardare con maggiore attenzione.