di
Raffaele Sciortino
«una “geopolitica delle lotte” in
prospettiva anticapitalista suona come un ossimoro suscitando sufficienza o
fastidio. E invece la geopolitica – un tempo si diceva Weltpolitik o
imperialismo – è lotta di classe in altra forma, non riconosciuta come tale».
Questo il nodo affrontato da Sciortino anticipato nella premessa al contributo “Fascinazioni
multipolariste e geopolitica delle lotte”, di cui proponiamo la parte
conclusiva*
Oggi
si inizia a parlare qui e là di una possibile Europa “tedesca” in tendenziale
rottura rispetto all’asse transatlantico così come di un’effettiva alleanza
Mosca-Pechino. Ma il punto è che, qualunque sia il trend che si considera più
probabile, quello che possiamo escludere è che assisteremo a rotture a
freddo. Che cosa significa a freddo? Significa che non è possibile
nessuna seria accelerazione delle dinamiche di rottura inter-capitalistiche che
pure si vanno delineando senza una decisa attivizzazione proletaria e più in
generale sociale. Questo è il punto cruciale di una “geopolitica delle lotte”.
Che di per sé non ci dà però una soluzione antagonistica del problema perché
quell’attivizzazione può anche rimanere interna al sistema e veicolo di una sua
rivitalizzazione.
Al momento assistiamo, nelle relazioni tra grandi attori, a rotture e poi compromessi, minacce di guerra e promesse di pace, guerre sotterranee per procura e poi tregue momentanee, insomma finora ci si è fermati sempre sul limite dell’abisso: il ritorno al major war. Questo perché senza una decisa attivizzazione sociale contro le ricadute della crisi economica o, fuori Occidente, per un’inversione delle diseguaglianze, senza che dal basso si passi dunque a chiedere per davvero il conto alle proprie èlites, queste non si vedranno costrette a recuperare margini di agibilità rispetto alle attuali geometrie internazionali fino a cambiare radicalmente alleanze o ad alzare il livello dello scontro. In questo senso solo l’apertura di significative dinamiche di lotta di classe può, per fermarci ai punti di frizione più importanti, portare la Germania e l’Europa alla rottura dell’asse transatlantico o Cina e Russia alla formazione di un’alleanza di controbilanciamento anti-americana.
Ciò comporta altresì un problema scabroso che si può così formulare: a quali condizioni il precipitare dello scontro inter-capitalistico determinato dal riattivizzarsi del proletariato può evitare che quello scontro precipiti in guerra aperta e aprire invece a un’alternativa di sistema? Oggi questo nesso lo possiamo vedere per così dire in negativo: la difficoltà di reagire dal basso alla crisi, almeno in Occidente, è anche determinata dalla percezione sotto traccia che una risposta potrebbe appunto incasinare tutto il quadro e di questo si ha paura anche in basso. In altri termini, mentre si inizia ad avvertire che non si può più vivere come prima, ancora si vorrebbe vivere come prima. È una contraddizione oggettiva che si tratta di mettere a fuoco nelle diverse situazioni. Perché è evidente che davanti a noi avremo situazioni di ripresa di mobilitazioni sociali in cui si tratterà di tenere insieme la risposta alla crisi, il no alla guerra – nelle diverse forme in cui questa si darà o, come dice Bergoglio, già si sta dando – e un programma sociale e politico anticapitalistico, non ideologico ma espressione del movimento reale.
Allora la domanda diventa: su quali terreni può darsi la riattivizzazione proletaria per chiedere il conto della crisi, con quali dinamiche e composizioni di tipo nuovo per condizionare il quadro geopolitico in una determinata direzione piuttosto che in un’altra?
Insomma, come irrompe la lotta
di classe dentro la geopolitica imperialista (e come può romperla)? Tutto un
lavoro, di ricerca e politico, da fare (si potrebbe parlare di “inchiesta
geopolitica”). Finora abbiamo avuto solo il laboratorio latinoamericano (ovviamente
non generalizzabile) e, con esiti al momento non felicissimi, quello
nordafricano; mentre dinamiche di classe contraddittorie si sono affacciate in
Ucraina . Per non parlare, tema ancora più insidioso, delle rivestiture
“sociali” che tensioni geopolitiche e risposte nazionalistiche assumono o
assumeranno nella Russia putiniana o nella Cina attuale.Al momento assistiamo, nelle relazioni tra grandi attori, a rotture e poi compromessi, minacce di guerra e promesse di pace, guerre sotterranee per procura e poi tregue momentanee, insomma finora ci si è fermati sempre sul limite dell’abisso: il ritorno al major war. Questo perché senza una decisa attivizzazione sociale contro le ricadute della crisi economica o, fuori Occidente, per un’inversione delle diseguaglianze, senza che dal basso si passi dunque a chiedere per davvero il conto alle proprie èlites, queste non si vedranno costrette a recuperare margini di agibilità rispetto alle attuali geometrie internazionali fino a cambiare radicalmente alleanze o ad alzare il livello dello scontro. In questo senso solo l’apertura di significative dinamiche di lotta di classe può, per fermarci ai punti di frizione più importanti, portare la Germania e l’Europa alla rottura dell’asse transatlantico o Cina e Russia alla formazione di un’alleanza di controbilanciamento anti-americana.
Ciò comporta altresì un problema scabroso che si può così formulare: a quali condizioni il precipitare dello scontro inter-capitalistico determinato dal riattivizzarsi del proletariato può evitare che quello scontro precipiti in guerra aperta e aprire invece a un’alternativa di sistema? Oggi questo nesso lo possiamo vedere per così dire in negativo: la difficoltà di reagire dal basso alla crisi, almeno in Occidente, è anche determinata dalla percezione sotto traccia che una risposta potrebbe appunto incasinare tutto il quadro e di questo si ha paura anche in basso. In altri termini, mentre si inizia ad avvertire che non si può più vivere come prima, ancora si vorrebbe vivere come prima. È una contraddizione oggettiva che si tratta di mettere a fuoco nelle diverse situazioni. Perché è evidente che davanti a noi avremo situazioni di ripresa di mobilitazioni sociali in cui si tratterà di tenere insieme la risposta alla crisi, il no alla guerra – nelle diverse forme in cui questa si darà o, come dice Bergoglio, già si sta dando – e un programma sociale e politico anticapitalistico, non ideologico ma espressione del movimento reale.
Allora la domanda diventa: su quali terreni può darsi la riattivizzazione proletaria per chiedere il conto della crisi, con quali dinamiche e composizioni di tipo nuovo per condizionare il quadro geopolitico in una determinata direzione piuttosto che in un’altra?
Qui accenniamo a tre nodi, con un focus orientato prevalentemente sul nostro quadrante ma dalla portata forse più generale.
Primo. Il percorso classico delle socialdemocrazie (o, cum
grano salis, della “sinistra”) sembra a tutti gli effetti concluso, senza che ciò significhi che sono
finite le istanze neoriformiste dal basso le quali anzi riemergono dislocandosi
su nuovi (o vecchi) terreni, lungo linee nazionali (e neo-nazionaliste),
indipendentiste, subnazionali, territoriali, e altro o peggio ancora (v.
opposizione all’euro). O per altri versi su terreni più consoni a una ripresa
potenzialmente anti-sistema ma che non ci danno di per sé la soluzione, come il
cittadinismo degli indignados. Abbiamo e avremo a che fare con situazioni,
percorsi, composizioni e programmi assai spuri.
Secondo. Se si
acuiscono le tensioni transatlantiche, dovremo aspettarci una ripresa decisa
dell’antiamericanismo trasversalmente alle diverse classi? In tal
caso, come attraversarlo in avanti da un punto di vista antagonistico senza
regalarlo a nazionalismi o, su un altro versante, a nostalgie gauchiste? Del
resto il tema è già aperto sul terreno delle politiche economiche “anti-crisi”:
basta guardare al nodo della lotta all’austerity dove finora per la sinistra la
risposta alla linea rigorista di Bruxelles e Berlino dovrebbe essere quella
espansiva di una Bce che faccia “come la Fed” senza che sorga il minimo dubbio che
dietro al “keynesismo monetario” ci sia la strategia egemonica statunitense.
Terzo. Il nodo
Europa e europeismo. Ci sono tre rischi ma spesso e volentieri se ne vede solo
uno: il rischio sovranista, anti-euro, ecc. Contrastarlo è essenziale per fare
dell’Europa un terreno più generale di conflitto. Ma andrebbe anche detto che
finora coniugare il “dentro” e il “contro” l’Europa si è rivelato assai
difficile. E allora è bene tener presente altri due rischi: quello giacobino
per cui chi non si presenta da subito su un terreno a priori europeista è
reazionario o va lasciato perdere; e il rischio europeismo a prescindere
per cui ci si lega le mani rispetto a un quadro contraddittorio che non
garantisce che l’internazionalizzazione possibile del conflitto passi per forza
di cose per il livello europeo.
Questi
e altri temi possono forse servire a riaprire il discorso sulla soggettività
(anche quella che non ci piace…) all’altezza della situazione. Più si scende
nei gironi della crisi e più si accorcia infatti la distanza tra questioni di
classe e dimensioni geopolitiche. Ciò può indurre impotenza nella sinistra
anti-sistemica, al momento fuori dai grandi giochi. Ma questa impotenza non si
supererà se non si inizia a mettere a fuoco il nesso tra lotte immediate, necessariamente
“spurie”, e spunti di “programma” che non dall’esterno ma da quelle condizioni
e dinamiche sociali possono emergere. Il nodo di fondo -inaggirabile con
escamotage organizzativi- è l’ambivalenza di una domanda ineludibile di
desideri e potenzialità individuali che però, anche quando si dà attraverso
un’azione collettiva, si ferma al di qua di una costruzione antagonista al
mercato perché ritiene sufficienti le piattaforme di socializzazione
offerte dal capitalismo che si tratterebbe “solo” di depurare e democratizzare.
Potente affermazione di autonomia… senza classe,
dell’esserci e decidere contro le mediazioni sociali e politiche, al contempo
incapace di affrontare il problema del potere costituito. È un dato tutt’altro
che ideologico, rimanda a quelle trasformazioni strutturali del capitalismo
degli ultimi decenni che hanno paradossalmente coniugato astrattizzazione del
lavoro e autoattivizzazione dei soggetti nella forma di una meritocrazia
dell’intelligenza e delle capacità come capitale umano, facendo così apparire
la crescente espropriazione come appropriazione potenziale. Ambivalenze della democrazia
come terreno comune alla rivoluzione e alla conservazione all’incrocio tra
l’estensione incredibile della condizione proletaria sussumibile alla finanza e
le istanze di riappropriazione della propria vita…
*per
la lettura integrale vai su http://quaderni.sanprecario.info/