di
Miguel Mellino
“Razza
di classe” (e-book uscito di recente a cura del
collettivo Commonware) raccoglie articoli e interviste in cui attivisti e
intellettuali americani riescono a collocare in modo efficace i fatti di
Ferguson entro una “genealogia lunga”, sia in senso temporale - nella specificità
della storia degli USA- sia in senso spaziale - nei mutamenti del modo di
sfruttamento del capitale globale, divenuto sempre più estrattivo e rimodellato dai "processi di gentrificazione" e di “accumulazione per spoliazione”
1.
Ferguson è di nuovo in fiamme. Il verdetto del Grand Jury è arrivato: Darren
Wilson, il poliziotto che uccise nell’Agosto scorso il giovane
africano-americano Michael Brown durante uno dei soliti controlli vessatori a
cui vengono sottoposti ogni giorno migliaia di neri nelle città degli States,
non sarà incriminato. Dai presidi e dalle mobilitazioni delle settimane scorse
si è passati di nuovo alla rivolta; sintomo che buona parte della popolazione,
e non solo di Ferguson, aveva già espresso la sua sentenza: omicidio,
esecuzione, e non altro.
Quanto
accaduto a Ferguson però non deve essere interpretato come un semplice episodio
di violenza poliziesca che chiede giustizia, e nemmeno come un qualcosa di
tipico soltanto della società americana, della sua storia
particolare, della sua particolare struttura di classe. Le violenze razziste
(istituzionali e non) che subiscono i neri di Ferguson, così come la realtà
urbana profondamente segregata di questo sobborgo periferico di St. Louis,
rimodellato negli ultimi anni dai processi di gentrificazione e di
“accumulazione per spoliazione” di un capitalismo divenuto sempre più estrattivo,
pur nella loro specificità americana, non appaiono poi così tanto diverse dalle
logiche di comando del capitale ad altre latitudini.
Sono
due delle conclusioni che si possono ricavare (sin dal titolo) da Razza
di classe, un interessante e-book uscito di recente a cura del collettivo
Commonware. Si tratta di una raccolta di articoli e interviste in cui attivisti
e intellettuali americani riescono a collocare in modo efficace i fatti di
Ferguson entro una “genealogia lunga”, sia in senso temporale (nella
specificità della storia degli USA), sia in senso spaziale (nei mutamenti del
modo di accumulazione del capitale globale).
2.
La raccolta presenta alcune tesi comuni a tutti gli interventi. Le violenze
quotidiane della polizia nei confronti dei giovani neri, messe in pratica
attraverso la tecnica dello “stop and frisk” (fermo e perquisizione), vengono
qui interpretate come un aspetto essenziale di una “guerra di classe” di bassa
intensità condotta dallo stato contro quei gruppi e soggetti divenute mera
“eccedenza”, ovvero come uno degli strumenti di controllo sociale su quella
parte del proletariato nero espulsa dal mondo lavoro e dalla sfera della
società civile dopo il processo di ristrutturazione neoliberista. La violenza
poliziesca viene a configurarsi qui, nella sua funzione minatoria, come una
sorta di prosecuzione postfordista dei linciaggi, per ricordare la nota tesi di
Angela Davis.
Tuttavia,
la polizia viene vista soltanto come l’avamposto, insieme alle “scuole ghetto”
e alle prigioni, di una “macchina penale repressiva” più estesa che, nella sua
dialettica di controllo, oscillante tra abbandono (come nel caso dell’uragano
Katrina) e incarcerazione di massa, deve essere interpretata come la risposta
politica dello stato americano all’abolizione della schiavitù, al movimento dei
diritti civili e del black power, ovvero alla minaccia posta dal lavoro nero
libero e dalla mobilità del lavoro nero alla struttura di classe tradizionale
della società americana, plasmata sul discorso coloniale della whiteness.
Michael Brown, come tanti altri giovani neri e latinos, è stato inghiottito non
da un poliziotto, ma dagli ingranaggi criminali della macchina americana della
supremazia bianca.
Il
testo dunque appare omogeno nel sollecitarci a pensare il razzismo come un vero
e proprio “sistema”, come un dispositivo centrale della stessa composizione di
classe del capitalismo americano; e in quanto tale, ci viene precisato
nell’introduzione, come un fenomeno che non riguarda unicamente gli apparati
repressivi dello stato, ma la società intera: dalla scuola alle università, dal
lavoro ai media, dallo spazio urbano al sistema penale. Ferguson non fa che
mostrare la natura ideologica dell’ordine discorsivo dominante sul presunto
divenire post-razziale degli Stati Uniti di Obama. Razza e razzismo sono
strutture materiali, non solo simboliche.
3.
È così che Razza di classe propone alcune considerazioni sulla
natura del razzismo su cui occorre soffermarsi, se pensiamo alla povertà (ma
anche a quello che possiamo chiamare in termini sartriani una sorta di
“malafede collettiva”) del dibattito italiano su questo argomento. Dal testo si
evince con chiarezza quanto sia politicamente fuorviante considerare la
violenza razzista come il prodotto di un “pregiudizio”, di una “mancanza”
o di un “deficit di cultura”, per così dire, di cui sarebbero attraversati i
(soli) soggetti razzisti (diversamente al resto della società illuminata). La
forza delle interpellazioni razziste non sta nel pregiudizio, con buona pace di
Pierre-André Taguieff. Ugualmente fuorvianti appaiono qui altri discorsi
“progressisti” che ritornano ogni volta sulla scena pubblica italiana come i
giusti corollari interpretativi di nuove aggressioni o violenze razziste:
contrariamente a quanto pensano liberali e sinistra istituzionale, il razzismo
non è un fenomeno che viene soltanto dall’alto, non è quindi legato soltanto alle
istituzioni (alle forze dell’ordine, al meschino tornaconto dei politici di
professione o alle politiche di controllo del lavoro o delle migrazioni), e non
è nemmeno un fenomeno che emerge tra i soggetti soprattutto nelle
situazioni di povertà o di degrado, o in quartieri periferici disagiati o non
belli dal punto di vista architettonico (come suggeriscono, per esempio, alcuni
interventi di questi giorni a proposito dei fatti di Tor Sapienza a Roma).
4. Razza
di classe ci induce invece a pensare il razzismo come un dispositivo
di comando costitutivo del capitalismo moderno e delle sue
modalità coloniali, sovrane e necropolitiche (e non solo biopolitiche) di
amministrazione, controllo e produzione di territori, culture, saperi e
popolazioni. Interessante appare qui la definizione di Ruth W. Gilmore
riportata nel testo, secondo cui “il razzismo è la produzione e lo
sfruttamento, legittimati in qualche modo dallo stato, di diversi gradi di
‘vulnerabilità a morte prematura’ tra i diversi gruppi sociali, nell’ambito di
geografie politiche distinte ma tuttavia densamente interconnesse”. Il
razzismo, dunque, non può essere considerato come un mero effetto secondario di
altri processi: si tratta di un fenomeno che attraversa tanto la struttura di
classe quanto l’ordinamento simbolico delle società statal-nazionali moderne, e
cha ha avuto il suo “grado zero” nello sviluppo del colonialismo e della
schiavitù, ovvero nella “colonialità” del potere capitalistico globale moderno.
In quanto essenziale dispositivo moderno di gerarchizzazione (materiale e
simbolica) della cittadinanza riguarda la produzione e gestione della società
nel suo complesso. Ad essere razzializzati non sono solo gli “altri”. Ci pare
quest’ultimo un indispensabile punto di partenza per la costruzione di una
pratica teorica e politica antirazzista davvero radicale. Anche perché le
società europee non possono certo dirsi lontane da Ferguson: solo che qui la
supremazia bianca si è storicamente iscritta nello stesso significante Europa durante
l’espansione coloniale, mentre la funzione storica dei linciaggi viene affidata
oggi non solo alla gestione poliziesca delle zone ad alta densità di
popolazioni postcoloniali, ma anche alla violenza di CIE, CARA, Frontex, Triton
e altri elementi delle politiche migratorie. Forse la macchina penale razzista
europea andrebbe pensata come una risposta politica alla mobilità del lavoro
migrante a partire dalla decolonizzazione in poi. Non è un caso che a porre la
questione della razza e del razzismo sullo stesso territorio europeo siano
state le lotte e le insurrezioni di gruppi e soggetti provenienti dalle
ex-colonie.