di EURONOMADE
L’intuizione, a suo
modo paradossale, dello «Sciopero Sociale» ha funzionato. Ha prodotto i suoi
primi frutti. Ed ha fatto correttamente di una giornata di lotta, l’occasione
della verifica sulle condizioni di un nuovo percorso politico – collettivo,
eterogeneo, a suo modo anomalo. Così, adesso – nella cupezza dei tempi
dell’austerity – il paradosso, approfondendosi, sembra esserne subito diventato
un altro: un nuovo ciclo di lotte pare volersi fare strada
Ma
cominciamo dal principio. Dall’inizio della crisi. Quindi, inevitabilmente,
dallo spazio europeo. Perché è da qui, dalle lotte che hanno attraversato
l’Europa, principalmente nel suo bordo meridionale, che è possibile imparare
qualcosa in più sulla rilevanza del #14N. E l’angolazione con cui conviene
osservare queste lotte, allo scopo di comprenderne la logica interna dello
sviluppo, non è solo quella della geografia. C’è un’altra questione, che
attende di essere compresa teoricamente, per essere afferrata politicamente: la
temporalità a-sincrona delle lotte nello spazio europeo, come motore di
accumulazione di sapere, come forma di apprendimento reciproco delle
«coalizioni sociali» in lotta.
Dall’inizio
della crisi, dicevamo, i paesi dell’Europa del sud sono stati attraversati da
numerose lotte sociali. I sindacati tradizionali in più occasioni hanno ricorso
allo sciopero generale in Grecia, in Spagna, in Portogallo, nel tentativo di
fermare le violenze generate dalle politiche ordoliberali. Le coalizioni
sociali di precari, lavoratori dei servizi immateriali, partite iva,
disoccupati, studenti, hanno esteso, complessificandola, la portata di questi
strumenti di lotta. Modificando, oltre ogni minima capacità delle organizzazioni
tradizionali stesse, la composizione sociale delle lotte. Dentro questo ciclo
di scioperi, ma in modo radicalmente autonomo, questi movimenti sociali sono
stati in grado di sperimentare nuove forme diistituzionalità del comune.
E’ accaduto così in Grecia, come in Spagna soprattutto. L’esperienze di nuovo
mutualismo, le occupazioni delle case, il recupero e l’autogestione di
produzioni dismesse, hanno rappresentato un terreno su cui estendere la lotta
sociale. Farla durare, per poi spostarla anche su terreni diversi.
Nel
quadro delle lotte sociali nell’Europa meridionale, fino ad allargare lo
sguardo a tutto il mediterraneo, l’Italia ha rappresentato in questi ultimi
anni un’anomalia. Da qui, quello che è prevalso è stato soprattutto l’impasse
dei movimenti. Sia chiaro, questa figura, non corrisponde ad un vuoto di
lotte. Quello che si è potuto rilevare in questi ultimi anni, piuttosto
che l’assenza, è stata l’incapacità soggettiva di produrre formule espansive di
conflitto, dotate di una generale possibilità di attraversamento, di un
potenziale di riproducibilità – persino di una radicalità concreta di obiettivi
politici e non solo di linguaggio. Mentre accadeva, invece, che nelle metropoli
e nei territori della provincia continuavano a diffondersi esperienze di
riappropriazione, di sperimentazione neo-istituzionale, di autogoverno. E nei
luoghi del lavoro, seppur nella forme problematiche della scomposizione
micro-conflittuale, le lotte non sono mai sparite. L’anomalia è poi doppia, se
si considera che proprio qui, in questo paese, in anticipo rispetto alle
dinamiche europee, si era sviluppato – con l’Onda – il primo movimento di
critica alla crisi del capitalismo neoliberale. Non è questa l’occasione per
interrogarci sul perché di questo blocco. Conviene, tuttavia, rilevare che
soprattutto in questo paese, le centrali sindacali dopo aver operato
ordinariamente in funzione del contenimento della mobilitazione studentesca
dell’Onda, hanno forzatamente evitato il ricorso allo sciopero generale. Da qui,
la gestione manageriale della crisi da parte dei sindacati tradizionali è stata
più evidente che altrove. Il loro orizzonte strategico aveva permesso di
trasformare l’antica ipotesi della «cinghia di trasmissione» tra sindacato e
partito (socialdemocratico o comunista che sia), in una relazione di potere
interna allagovernance neoliberale. Fatto sta, che questo
equilibrio interno ai soggetti dellagovernance è attualmente
entrato in crisi. Non sappiamo se momentaneamente o meno, ma di certo, al
momento, non è questo che ci interessa. Il sindacato tradizionale – e benché
con modi e tempi diversi, la stessa Fiom – arriva tardivamente, con le sue
parole d’ordine, allo sciopero generale, mentre silenziosamente, nella pieghe
della cooperazione sociale, questo annuncio è stato anticipato dal capillare
lavoro di organizzazione dello Sciopero Sociale.
Così,
il #14N torna ad essere l’occasione per i soggetti sociali di svolgere quella
fondamentale funzione anticipatrice, riconfigurando un nuovo campo di
conflitto. E non lo fa inserendosi semplicemente nel ciclo di lotte europeo, né
tanto meno limitandosi a riempire un vuoto nel nostro paese. Lo compie,
con la forza di operare un salto in avanti. Si presenta come una soggettività
politica potenzialmente in grado di incarnare il superamento oramai
maturo, nei linguaggi, nei metodi e nei programmi, del corporativismo
sindacale, anche quando questo si presenta con iniziative «generali». Lo fa
esprimendo la forza della «coalizione sociale», come forma organizzativa aperta,
irriducibile sia alla somma delle componenti politiche che, al contempo, alle
reti di scopo. In secondo luogo, ma non meno rilevante, lo fa aprendosi
consustanzialmente ad una dinamica in grado di divenire transnazionale. D’altro
canto, le politiche lavorative nello spazio europeo, dove il comando
finanziario si traduce in irrigidimento della governance neoliberale,
costringono i movimenti a dotarsi di un dispositivo politico
de-territorializzante. Lo Strike meeting, prima ancora dello Sciopero Sociale,
ha dato vita a un processo virale ripreso da altri gruppi in Europa (Francia,
Grecia, Germania, Inghilterra), che sembra voler assumere una dimensione
costituente a patto che riesca ad attivare una politica della traduzione delle
campagne di opposizione alle politiche di workfare in ambito transnazionale,
così come delle reti di forza lavoro migrante all’interna dell’Ue. L’ultimo
meeting di Blockupy a Francoforte, ha iniziato una discussione produttiva
proprio sull’estensione europea della sperimentazione dello Sciopero Sociale.
Il principio della risonanza delle lotte
La
metropoli ha affermato politicamente la sua esistenza. Lo sciopero del #14N,
secondo modalità molecolari ed eterogenee di conflitto, ha mostrato la sua
dimensione moltitudinaria, come forma della classe che nella metropoli vive e
produce. E con essa intrattiene un rapporto di sfruttamento, mentre
l’eterogeneità del lavoro vivo viene ricondotta all’unificazione del
“meccanismo estrattivo”, trattenuta nel dispositivo di comando culturale e di
dominio lavorativo. In oltre 40 città, picchetti, cortei, blocchi della
circolazione e molto altro, nell’arco di 24 ore, hanno fornito l’occasione per
la presa di parola di decine di migliaia di giovani e meno giovani, studenti e
disoccupati, lavoratori autonomi di nuova generazione e Neet. Una classe in sé
che va riconoscendosi. Nello spazio della città, lo «sciopero sociale», più che
concretizzarsi come una mera evocazione, ha funzionato come dispositivo di
moltiplicazione delle pratiche e di implicazione delle soggettività. Questo
modello organizzativo molteplice, in grado di mostrare, più di ogni altra cosa,
i dispositivi di contropotere che possono essere agiti dal pluri-verso del
lavoro precario, è stato la causa principale delle reazioni preoccupate alla
diffusione dello sciopero da parte del governo (ministero degli interni, in
modo più esplicito), del garante per gli scioperi e persino del Vaticano. Ad
impensierire l’establishment politico, sembrano essere stati soprattutto due
aspetti. Da un lato, la forma molecolare stessa delle pratiche, che non si
presta ad essere controllata dai dispositivi organizzativi –ordinati e rigidi –
delle centrali sindacali, sfuggendo quindi ad una loro possibile cattura.
Dall’altro, l’invenzione di uno sciopero che si è prodotto, senza mostrare in
modo riconoscibile e convenzionale il soggetto stesso dell’organizzazione.
Ri-significando, in termini di contropotere, le movenze dello «sciame» di
investitori che opera nel mercato finanziario. Ri-contestualizzando anche
le antiche pratiche più tradizionali del blocco operaio, ma ricollocandole
all’interno di uno schema organizzativo, che punta alla moltiplicazione delle
forme di lotta. Questa importante innovazione delle pratiche conflittuali, è il
caso di dirlo, mostra al contempo tutti i limiti della cultura
dell’«antagonismo identitario», che nel riprodurre costantemente la retorica
dello «scontro finale», si mostra paradossalmente come il soggetto più
rassicurante per l’establishment, perché più facilmente reprimibile.
Al
contrario, le pratiche di sciopero diversificate nell’arco di 24 ore si sono
manifestate nel blocco degli ingressi dei luoghi della produzione, nella
comunicazione delle strade dello shopping, dinanzi alle catene commerciali,
agli snodi aeroportuali e autostradali, presso le istituzioni erogatrici di
welfare, nelle scuole e nelle università. Così lo Sciopero Sociale è divenuto
il tentativo, ben riuscito, di dotarsi di metodi e di pratiche per porre freno
al «bio-potere» della vita, dei corpi, delle forze, muovendosi lungo i punti di
intersezione tra la sfera della produzione e quella riproduttiva.
Ma
ancora, ciò che ha segnato un elemento notevole di forza, ha riguardato quella
specifica possibilità di aprire un terreno in cui le lotte hanno avuto la
capacità di «risuonare» tra loro. E’ accaduto che in alcune città, anche in
assenza di un Laboratorio dello Sciopero Sociale che ne coordinava le azioni,
si sono prodotte ugualmente forme di conflitto, includendo nello spazio dello
Sciopero Sociale, soggetti e organizzazioni che non avevano seguito tutto il
percorso di mobilitazione. In altre realtà, la costruzione di questo spazio, ha
offerto la possibilità anche ad organizzazioni sindacali tradizionali, di
operare autonomamente dagli (e in contrasto con) indirizzi delle Camere
del Lavoro territoriali. E’ il caso di Genova, ad esempio, dove il porto è
stato bloccato per diverse ore, oltre che dai sindacati di base, anche dalla
categoria di settore della Cgil.
Il «Bildungsroman» del precariato metropolitano
A
Londra, il 28 settembre 1864, duemila uomini e donne di umili condizioni,
inglesi, ma anche tedeschi, francesi, spagnoli, russi, polacchi, italiani,
diedero vita alla Prima Internazionale, inventando la prima organizzazione
proletaria, espressone autonoma degli interessi della classe lavoratrice.
Quest’anno
ricorrono i 150 anni dalla sua fondazione. Ciò che quella storia ci consegna, e
che qui vogliamo mettere in risalto, è quel lungo processo di apprendimento
collettivo, fatto di tentativi organizzativi, forme di lotte ed elaborazioni
teoriche, attraverso cui la classe operaia industriale è dovuta passare prima
di scoprire le proprie forme, i propri metodi e le sue proprie istituzioni in
grado di agire con efficacia un rapporto di forza con il capitale industriale.
Di fronte al radicale mutamento della natura del capitalismo, altri processi di
apprendimento sembrano disporsi verso una nuova sedimentazione.
In
questo senso, la centralità che ha assunto all’interno della preparazione del
Social Strike la problematica organizzativa, il questionamento attorno ai modi
più adeguati di intercettare e trasformare politicamente la rinnovata
composizione di classe, di ricomporre conflittualmente la dispersione della
giornata lavorativa e del Welfare State nella sua estensione metropolitana, più
che indicare una qualche soluzione al dilemma, mostra tuttavia la maturità di
un accumulo di sapere e di memoria che si è sedimentato negli anni.
Seppure
questo processo si sia presentato come una discontinuità nello scenario
politico del nostro paese, non va dimenticato quanto esso si sia nutrito di una
sotterranea continuità nell’elaborazione dei movimenti sociali italiani. Questa
linea di sviluppo è quella che ha nel tempo maggiormente insistito sul
superamento della forma-centro-sociale come base dell’identità politica (sia
nelle versioni antagoniste che in quelle aperte alla cosiddetta «società
civile») puntando invece alle connessioni con le esperienze e i primi tentativi
di auto-organizzazione sociale dei precari e dei lavoratori cognitivi. Questo
processo è passato per il mayday process, così come per gli
esperimenti di guerrilla comunicativa e l’internità ai
movimenti studenteschi degli ultimi 15 anni.
Il
collettivo Euronomade aveva proposto mesi fa proprio su queste tematiche la
discussione attorno al tema del «sindacalismo sociale»: il problema che ci
eravamo posti era come ripensare, nella situazione attuale e in relazione alle
esperienze di conflitto che si sono dispiegate in Europa durante la crisi, la
forma-movimento dal punto di vista dell’organizzazione e delle pratiche di
negoziazione. Il problema è stato, attraverso una sorta di astrazione teorica,
provare a pensare la proliferazione dei dispositivi di conflitto e di messa in
tensione dei rapporti di potere nell’epoca della finanziarizzazione dei diritti
sociali e dell’austerità permanente, come delle forme organizzative
«emergenti». In questo quadro, l’esperienza del #14N e il lavoro di costruzione
del Social Strike, per quanto ancora molto embrionali, ci pare che si
intersechino e rilancino in avanti quello stesso cantiere di ricerca, il quale
conta oggi però su una serie di nuovi punti di aggancio e un insieme di nuove
questioni da rimettere al centro della discussione collettiva. I laboratori
dello sciopero sociale, i loro possibili sviluppi e connessioni, possono forse
proporsi come luoghi privilegiati di questa sperimentazione in corso.
Oltre il 14N, le sfide sul tappeto
Nonostante
l’inaspettato successo del 14N, lo sciopero sociale lascia sul tappeto alcune
rilevanti sfide. La prima, ovviamente, è quella di tenere aperta la contesa
sull’approvazione del Jobs Act ed in generale sui provvedimenti che il governo
intende approvare nei prossimi mesi. Tuttavia, crediamo che il processo di
elaborazione e sperimentazione avviato in questi mesi apra ad una discussione
più ampia sulla capacità dei movimenti sociali di innescare dei processi di
trasformazione. Con tutta evidenza, ci troviamo in Europa di fronte ad una
conclamata crisi della democrazia rappresentativa. In particolare è la
dialettica tra lotte, movimenti sociali e mutamento istituzionale ad essersi
interrotta. Il blocco delle pratiche negoziali agite dai movimenti europei pone
questo problema in tutta la sua urgenza. Riteniamo tuttavia che sia proprio
questo il luogo in cui è corretto porre la questione. Non è infatti né
attraverso la pura evocazione della rottura né pensando al «momento politico»
come un momento separato, per così dire in seconda battuta, che si possa
risolvere il dilemma. Il problema della democrazia deve esser postoall’interno
dei e a partire dai processi di organizzazione della
composizione di classe, dai tentativi di modificazione dei rapporti sociali e
in coincidenza con il lavoro di organizzazione delle soggettività. È qui che la
dimensione politica e costituente dello sciopero e delle coalizioni sociali
deve essere interrogata.
Questo
salto in avanti della riflessione, su cui si era concentrato il seminario di
Passignano, si nutre di solide basi che affondano nella nuova composizione
sociale del lavoro.
La
distanza che la tradizione del movimento operaio ha pensato tra le lotte
economiche e le lotte politiche, in questo contesto mutato, qui si riduce
drasticamente. Come ha avuto modo di sottolineare Michael Hardt su questo sito,
questo rapporto da «esterno» può divenire «interno», nel momento in cui i
«mezzi di produzione» si confondono con le stesse «forme di vita». Quando si
assume lo spazio metropolitano come lo spazio di organizzazione della
composizione di classe, noi possiamo vedere che le lotte per migliori
condizioni di lavoro, per il salario e per il reddito, per la riappropriazione
democratica del welfare, puntano immediatamente alla rivendicazione di un’organizzazione
comune delle nostre esistenze. L’invenzione di nuove istituzioni non può essere
che la base per immaginare una nuova democrazia del comune.