di
Sandro Chignola
proponiamo un estratto
della versione italiana(*)dell’intervento di Sandro Chignola al
Colloque International “Foucault(s) 1984-2014″ (Paris, 19-21 mai 2014), in
occasione dell’uscita del suo “Foucault oltre Foucault. Una politica della filosofia”
(Derive Approdi, Roma)
L’introduzione
nell’analitica del potere foucaultiana del termine «governamentalità» mi sembra
alludere esattamente a questo. E cioè: al movimento in base al quale, in
risposta a resistenze «biopolitiche» nelle quali ne va della politicizzazione
della quotidianità, dei corpi, del desiderio, il potere decostituzionalizza e
desovranizza i propri dispositivi e affronta il «governato» come soggetto
inassimilabile per mezzo delle classiche formule identitarie della
rappresentanza politica. Foucault torna molte volte sul punto all’inizio degli
anni ’80. La teoria politica moderna è ossessionata dal potere. E lavora – da
Hobbes a Kant – ad esorcizzare il dominio identificando suddito e sovrano.
L’idea moderna di democrazia rappresentativa – si tratta di cose, ovviamente,
molto note – porta a compimento questo progetto a livello costituzionale.
Quando
Foucault recupera il tema e il lessico del «governo», e lo fa rimontando la
cesura definita dalla modernità definendo lo Stato una semplice «peripezia» di
quest’ultimo (Sicurezza, territorio, popolazione, p. 254), non solo
riallaccia la lunga durata che diventa decisiva anche nelle ricerche
sull’ermeneutica e sul governo del sé, ma sgancia governante e governato dal
patto di solidarietà identitaria che li lega nel moderno concetto di popolo. I
movimenti sociali che egli ha di fronte e ai quali spesso si accompagna,
totalmente esterni alla filosofia, ma, ancora di più, alla filosofia dello
Stato, della sovranità e della rappresentanza, denotano un processo destituente
e installano il «governato» (l’abitante di un territorio assunto come un
ecosistema, un corpo indisciplinabile e sessuato, un desiderio selvaggio di
libertà di cui si alimentano esodanti processi di soggettivazione irriducibili
alle identità o alle fedeltà di partito) di fronte a chi governa come fuoco di
un ellisse che nessun «potere» potrà più sciogliere per mezzo di una fictio come
quella che le moderne categorie del politico realizzano nel concetto di «popolo
sovrano». La figura chiave del rapporto di governo è quella descritta da una
polarità, da una tensione, da un due, non dall’unità cui, ad esempio in Hobbes,
la rappresentanza riconduce un’altrimenti dispersa moltitudine. La figura,
cioè, che mette l’uno di fronte all’altro chi governa e chi è governato senza
che essi possano cambiare di posto. Sottolineo questo perché mi sembra che
Foucault utilizzi il termine «governamentalità» non solo per alimentare
un’altra genealogia della politica, differente da quella sterilizzata dal
moderno dispositivo giuridico-sovranista di neutralizzazione del conflitto, e
che coincide con la governamentalizzazione del potere che molti teorici
neoconservatori, proprio negli anni ’70, auspicano per rispondere alla crisi
della democrazia, ma anche per rinnovare completamente l’uso filosofico della
nozione di critica.
Ciò che qui entra in questione è la «parrhesia del governato», come Foucault ebbe a precisare proprio nel 1984 (Une esthétique de l’existence, entretien avec A. Fontana, «Le Monde», 15-16 juillet 1984 – Dits et ècrits II, n. 357, pp. 1549-1554). Dentro e fuori della filosofia, dicevo. Parrhesia è un termine del lessico filosofico e teologico, come tutti sanno. Ma Foucault la recupera e studia, io credo, in vista di un duplice compito. Da un lato, sotto il segno di Weber, per mettere in rilievo quella potenza di soggettivazione che la filosofia conserva se capace di sottrarsi ai riti e alle liturgie del lavoro salariato all’Università o nelle istituzioni di ricerca. La filosofia come prova di coerenza; la filosofia presa sul serio come compito, come impegno quotidiano e come verifica della coerenza tra parole e azioni di colui o di colei che prende la parola davanti a un pubblico e di fronte al potere.
Dall’altro, la parrhesia – in questo caso come pratica collettiva, moltitudinaria, resistente – per denotare la presa di parola che impone al governo di rendere ragione di ciò che fa, senza l’obbligo di un realismo politico di cui solo chi governa deve dimostrarsi capace, anche affrontando dissidenze e forme della disobbedienza che non possano essere immediatamente recuperate con il filtro della rappresentanza, del realismo politico (“allora sii tu a dirmi cosa devo fare”) o sanzionate attivando il codice binario legale/illegale. Non è compito del governato, governare. Ed è la consapevolezza di questa trasformazione della politica, risultato di un’ontologia dell’attualità che Foucault prosegue sino all’ultimo, ciò che retroagisce sulla formulazione non solo di un’analitica del potere integralmente sganciata dal dispositivo di sovranità, ma su di una politica della filosofia in cui il coraggio della verità si fa assunzione di responsabilità della prassi, coinvolgimento diretto, inchiesta, genealogia funzionale all’effetto sul presente che si abita. In questo senso, la critica muta drasticamente funzione. Essa non viene più esercitata a partire da un universale, ma dal concreto di una situazione alla quale chi pensa è vincolato e che viene soggettivata mobilitandola ad un presa di parola collettiva. Credo sia in questo senso che Foucault pensa una filosofia “fuori di sé”, integralmente storica, perché strutturata come una genealogia dell’attualità, ed interamente politica, perché è la politica il campo al cui interno solo può determinarsi una veridizione.
Una
politica della filosofia è, in questo senso, una politica della
soggettivazione. Accennavo in precedenza ad un gesto che rimonta la scissione
tra Stato e società sulla quale si alimenta il ciclo delle scienze sociali. Mi
sembra evidente che con essa viene rimontata la stessa scissione tra teoria e
prassi sulla quale si edifica il moderno sistema dei saperi della politica. Ciò
che torna qui in questione è la nozione antica di praxis come rete
di relazioni etiche, politiche, comunicative dentro le quali la vita umana
viene valorizzata – se si assume la classica definizione aristotelica dell’uomo
come vivente politico e dotato di facoltà di parola – come sostrato di una
potenza di azione e di inter-azione specificamente connotata in termini
linguistici, affettivi e cognitivi. Per gli stoici l’uomo è uno koinonikon
zoon, un essere naturalmente aperto ad una dinamica, mi si passi il
termine, “costituente” di relazioni tendenzialmente estendibili al cosmo.
*la
versione integrale è leggibile sul sito http://www.euronomade.info