di Roberto Ciccarelli
Ecco, immaginiamo
l’impossibile. La Cgil riscopre parole come mutualismo, municipalismo,
federalismo, cooperazione, coalizione. Sembra incredibile, ma crediamoci per un
istante
L’impensabile
Esercizio
di immaginazione. Dopo la manifestazione a Roma del 25 ottobre 2014 in cui la
Cgil ha portato in piazza un milione di persone contro il partito “della
nazione” di Renzi (un partito che ha votato quando era guidato dalla fazione
bersaniana sconfitta da Renzi), la segretaria Susanna Camusso decide di avviare
una gigantesca operazione di riforma interna al sindacato. Insieme allo
sciopero generale, invocato da “radicali” e “riformisti” come il feticcio che
abbaterà sulla testa di Renzi il maglio dei poveri e degli sfruttati, Camusso
fa l’impensabile.
Dopo
avere passato anni (sin dal suo insediamento) a pentirsi di non avere fatto
qualcosa di significativo contro la precarietà, Camusso si accorge che a questa
(auto)critica senza contenuto e senza conseguenze deve far seguire un’azione
che coinvolga dirigenti e delegati, le federazioni e le camere del lavoro.
Camusso capisce di dovere reagire nel merito alle accuse ipocrite del suo
attuale antagonista Renzi: “Dov’era il sindacato quando in Italia la precarietà
si estendeva?”.
Per
il momento risponde che il sindacato ha cercato di tappare le falle prodotte da
una legislazione che ha precarizzato tutti. Ma è una risposta molto debole che
non dice nemmeno l’essenziale: quel legislatore, infatti, era il
centro-sinistra che nel 1997 creò il “pacchetto Treu” e nel ventennio
successivo non ha fatto altro che peggiorare la situazione, non avendo
l’accortezza di modificare le leggi peggiorative approvate dal centro-destra.
Quale partito ha votato la Cgil
Questo
partito è l’incarnazione del Pds-Ds-Pd, uno scioglilingua che oggi suona male
nella bocca di Renzi. Un neo-liberista infantile e tardivo che scopre con
trent’anni di ritardo le ricette di Pietro Ichino e il fascino di Tony Blair
(quello che truccava le carte per fare la guerra in Iraq) e parla di un
“partito della nazione”. Se il sindacato di Camusso è vecchio perché è
novecentesco, il Pd di Renzi arretra fino all’inizio dell’Ottocento e rilegge
il conservatore cattolico De Maistre. Non proprio un progressista.
Si
sta preparando il terreno allo scontro che verrà: il partito della nazione di
Renzi contro il partito razzista di Salvini (lega nord o come si chiamerà).
Questo è il dibattito allucinato che si è affermato a sinistra, in Italia e in
Europa, in vista dell’affermazione della destra nazionalista xenofoba e
cripto-fascista del Front Nationale di Marine Le Pen in Francia.
Il
“partito della nazione”: giusto per essere “moderni” e pensare al “futuro”.
Cosa chiede un milione in piazza?
Allora, noi abbiamo bisogno di una
boccata d’aria. Respirare. Vogliamo il possibile, altrimenti soffochiamo. E
troviamo sulla strada Susanna Camusso, e la Cgil, che nella cornice mediatica
ricopriranno per qualche mese il ruolo dei principali oppositori al progetto
politico di Renzi. L’unico sulla piazza, in fondo.
Insomma,
questo non è proprio qualcosa di entusiasmante. Ma è a queste persone che si è
rivolta una massa da un milione che cerca qualcosa. Un’alternativa.
Ecco
allora un’ipotesi. Loro dicono: abbiamo bisogno di forza. Senza forza non
esiste politica. Se non c’è la possibilità di agire una forza, non esiste
nemmeno un’egemonia. Ma come si crea una forza? E, una volta creata, questa
forza non rischia di replicare l’identità alienata a cui reagisce oppure quel
soggetto sovrano che ha imposto lo sfruttamento e da cui cerca di fuggire?
Ma
questa forza la si cerca in un sindacato come la Cgil? Sembra di sì. Questo è.
Se vi pare.
Per
scherzo, incoscienza, o convinzione (parole da usare con molta prudenza) allora
Camusso, e il gruppo dirigente di un sindacato che ha vissuto in uno stato
ipnotico per vent’anni, formulano un’ipotesi arrischiata, ma sperimentale,
coraggiosa, inaudita. La cercano nella storia del movimento operaio,
antecedente alla cosiddetta “svolta tedesca” che caratterizza ancora oggi la
Cgil, un sindacato fortemente centralizzato, verticale, gerarchico.
La
svolta consiste in questo: torniamo alle origini, ben sapendo che nulla sarà
eguale. Oggi, come ieri, abbiamo persone che lavorano e sono isolate, senza
rappresentanza, ci sono giovani precari disoccupati. Poveri, salari bassi,
intermittenti, senza tutele. Perché, allora, non spingere il sindacato
all’incontro con queste masse disperse, solitarie, mute. Persone che non hanno
la tuta blu, né lavorano dietro la scrivania in un ufficio, o dietro una
cattedra. Ma che stanno nei campi e nelle città, vivono una vita in incognito.
Tutto
questo è un film?
Non chiederti “Chi siamo?”, ma “Cosa facciamo insieme”?
E
noi, sindacato, che facciamo? Creiamo occasioni di incontro. Mettiamo a
disposizione i servizi, i patronati, le camere del lavoro, le case del popolo.
E non solo per organizzarli. No questa è l’ultima cosa da fare. Dobbiamo
aiutarli a riconoscersi l’uno con l’altro. Non per pensare a chi siamo, ma per
fare qualcosa tutti insieme. E nello stesso tempo risolvere i problemi di una
dichiarazione dei redditi (senza avere un vero reddito). Oppure a stilare
convenzioni per la tutela socio-sanitaria per chi non ha un sussidio contro la
disoccupazione, oppure ha un figlio o un congiunto malato e non ha i soldi per
curarli.
Come
si faceva un tempo con le società di mutuo soccorso. Anche oggi lo si fa. Sono
in molti a riscoprire il mutualismo, una pratica che era del sindacato quando
esistevano masse di spossessati e di senza diritti, e lo Stato rifiutava di
assisterli. Come oggi, dopo che è stato deciso di annientare lo Stato sociale.
Bisogna rifondarlo, certo. Ma su quali basi? Sul vecchio modello del lavoro
dipendente, il maschio e padre di famiglia che porta il pane a casa? In un
momento in cui 7 su 10 nuovi tra i nuovi assunti non hanno un contratto di
lavoro dipendente e non hanno alcuna speranza di entrare nella cittadella del
lavoro dipendente? Quando ci sono 3 milioni di 800 mila partite Iva e poco più,
o poco meno, 4 milioni di precari.
Sì,
il Welfare dev’essere ripensato, magari a livello europeo, ma su basi tali da
rispecchiare questo sterminato quinto stato che si affolla alle porte della
cittadella del lavoro.
Ecco viene l’impossibile
Quello
a cui Renzi dice di rivolgersi, contro il sindacato, ma che nei fatti getterà
nelle fiamme precarizzandolo e facendo mercimonio dei suoi diritti in cambio di
indennità da fame.
Ecco,
immaginiamo l’impossibile. La Cgil riscopre parole come mutualismo, municipalismo,
federalismo, cooperazione, coalizione. Sembra incredibile, ma crediamoci per un
istante.
I
luoghi prescelti per questo genere di pratiche sono: i territori, le città, i
quartieri. Le modalità sono: il lavoro associato, le economie condivise, le
attività in comune, la progettazione e il finanziamento dal basso (le collette
o il reperimento fondi su piattaforme civiche, elettroniche e internazionali).
Stiamo parlando delle vecchie tecniche di autofinanziamento e di
auto-organizzazione del movimento operaio.
Non
sfuggirà la coincidenza temporale: il neoliberismo che si è saldato con le
politiche di austerità ci sta spingendo indietro di più di un secolo. E dal XIX
secolo ritornano tecniche e discorsi che sembravano scomparsi nel corso del
Novecento. Questo anacronismo diventa produttivo. Così come lo è sempre la non
contemporaneità degli eventi che danno vita ai processi.
Usa e India: esempi di mutualismo e auto-organizzazione
È
uno dei cortocircuiti nella cultura globale. Il discorso sul mutualismo, e le
tecniche organizzative diffuse nel socialismo europeo delle origini, vengono
oggi applicate in tutto il mondo. Molto meno in Europa, dove sono ancora
fortissimi i sindacati tradizionali di cultura “tedesca”: organicistica,
gerarchica, verticistica.
Stati
Uniti. C’è la Freelancers
Union, fondata da Sarah Horowitz nel 1995 a New York, il più grande
sindacato dei freelance al mondo. È il primo esperimento di mutualismo nel
lavoro autonomo al mondo e ad oggi raccoglie più di 200 mila membri. Horowitz
rivendica di avere studiato il modello del mutualismo e delle cooperative e di
averlo adattato negli Usa.
La Service
Employees International Union, alla metà degli anni
Ottanta lanciò la campagna giustizia per i pulitori (Justice for Janitors), e
oggi costituisce una rete transnazionale di nuovo sindacalismo che unisce
migranti e lavoratori poveri nelle città globali con un’economia dei servizi
organizzata in termini neoliberali.
La United
Farm Workers ha portato il sindacalismo sociale nelle
zone urbane e ha sviluppato campagne sui diritti insieme alle chiese, alle
associazioni e ai movimenti sociali. È il risultato di un metodo organizzativo
che mescola il «community organizing» ormai tradizionale negli Stati uniti e
pratica alleanze con altri movimenti sociali, minoranze, sindacati
tradizionali, artisti e ricercatori.
Kim
Moody, scrittore e teorico del nuovo sindacalismo sociale, teorizza da tempo
l’alleanza tra i movimenti sociali e i sindacati tradizionali. Questo modello
rappresenta l’evoluzione della politica delle coalizioni sociali. Il
sindacalismo delle origini si alleò con l’associazionismo e le istituzioni del
mutualismo. I primi partiti operai erano il prodotto di questo intreccio
inestricabile, non interrotto dalle rivalità interne all’Internazionale
socialista o dal conflitto con la parte cattolica. Il fascismo cancellò tutto.
Oggi,
sottolinea Moody questi nuovi soggetti conducono una lotta contro la svolta
“manageriale” delle confederazioni sindacali avvenuta negli anni Ottanta. Ciò
non cancella il piano politico dell’alleanza: rafforzare i movimenti dei
poveri, dei precari, dei disoccupati, dei migranti con le strutture dei
sindacati e aiutare questi ultimi ad aprirsi alle nuove condizioni di vita
delle classi lavoratrici.
Parliamo
di una struttura aperta, policentrica, connettiva, transnazionale.
Si sviluppa per campagne e teorizza l’uso universale dei diritti dell’uomo. Il
diritto al lavoro è un diritto fondamentale della persona e si afferma
attraverso atti o pratiche di cittadinanza. Questo un modo per
affermare la centralità dei diritti sociali al di là del lavoro salariato.
Intenderli come diritti fondamentali (diritti umani) significa
prospettare il superamento dell’idea che essi vadano negoziati poiché
nell’edificio costituzionale, e ancor più negli stati travolti dalla
rivoluzione conservatrice del neoliberismo, non hanno spazio.
L’attivista
Valery Alzaga definisce queste pratiche di cittadinanza come labour
organizing. La creazione di una comunità, o di una rete di comunità, è
finalizzata alla vittoria in una vertenza contrattuale. A questo scopo possono
collaborare le chiese, le organizzazioni religiose, le associazioni civiche,
oltre che i sindacati tradizionali o le organizzazioni professionali di
settore. Queste tecniche mirano alla creazione di piattaforme politiche
che hanno una base sui territori messi in rete. È necessario aprire
degli snodi. Alzaga parla dei workers centers e delle legal
clinic. In sostanza si tratta delle vecchie camere del lavoro e degli
attuali Caf, ma negli Stati Uniti rappresentano istituzioni autogestite al di
fuori dei sindacati tradizionali che collaborano alla diffusione microfisica di
queste istituzioni di base.
Ci
sono esempi significativi anche tra i movimenti antirazzisti che hanno
costruito gli sportelli per i migranti. Su questa base in Italia i movimenti
per la casa hanno creato i loro sportelli. Anche il movimenti Lgbtqi ha creato
sportelli di mutuo aiuto e di informazione per trans o persone omosessuali.
Il diritto all’abitare in India
In
India. È quello
che hanno fatto, ad esempio, i movimenti per il diritto alla casa in India e le
Ong di Mumbai. Arjun Appadurai, in una straordinaria etnografia urbana
contenuta in The Future as Cultural Fact: Essays on the Global
Condition, ne descrive le tecniche di organizzazione e l’orizzonte politico
in una società castale dove esistono milioni di poveri urbani, in ostaggio
dall’apartheid finanziaria.
Alleanza della Sparc (Society for the Promotion of Area Resource Centres): è una Ong fondata nel 1984 da docenti
e un gruppo di donne formate al lavoro sociale nel Tata Institute of Social
Sciences che lavora con agenzie governative, organizzazioni di base e
professionisti sull’emergenza abitativa e i programmi di credito per le case.
Si occupa anche dell’educazione e della salute dei poveri che partecipano ai
movimenti urbani. È alleata con altri movimenti come il National Slum Dwellers
Federation of India, il Mahila Milan (una federazione
di collettivi femministi) e la coalizione asiatica per i diritti all’abitare.
Le
tecniche del risparmio, dell’autocostruzione, della co-progettazione e della
pianificazione collettiva, della cura di se stessi e degli altri, sono diffuse
in tutto il mondo tra i poveri urbani, ma hanno raggiunto in India (considerate
anche le dimensioni di massa del fenomeno) livelli elevati. A dispetto dei
limiti dell’alleanza, descritti da Appadurai, l’obiettivo dell’azione politica
consiste nel far maturare conoscenza e saperi tecnici nei poveri. Sono gli
stessi obiettivi praticati nell’Ottocento dal mutualismo europeo rispetto al
proletariato dell’epoca e hanno trovato un ambito di applicazione nel mondo
degli esclusi da tutto grazie all’alleanza con gli intellettuali, gli esperti e
i cittadini.
Questo
attivismo ha creato anche una rete internazionale, lo Sdi, diffuso in 14 paesi
e in quattro continenti che ha lo scopo dell’apprendistato orizzontale allo
scambio e alla condivisione, cioè i due valori della solidarietà tra gli
uguali. Non si tratta di assistenzialismo, né di carità dello stato: i poveri
assoluti e quelli relativi, insieme al quinto stato delle professioni, creano
le tecniche e le associazioni capaci di promuovere l’auto-determinazione e
quindi l’autonomia sociale, usando anche i fondi della banca mondiale, delle
Ong e dello Stato indiano. La creazione di “comunità”, secondo l’impostazione
del primo grande teorico americano del diritto alla città, il sindacalista Saul
Alinsky, si fonda sul modello vedere-apprenderepiuttosto che su
quello frontale (e dall’alto) insegnare-apprendere.
Non
è un caso che in queste alleanze (che in maniera più o meno informale esistono
anche in Italia e soprattutto in Grecia e in Spagna) in prima fila ci siano le
professioni tecniche: architetti, urbanisti, territorialisti e poi anche
ingegneri, ragionieri, commercialisti ed economisti. Mettono a disposizione le
competenze per un’impresa collettiva di auto-sostentamento e di produzione di
economie mutualistiche, oltre che permettere la trasmissione di saperi
complessi in situazioni che si affermano sul confine tra il legale e
l’illegale. Ancora più interessante è il ruolo degli accademici, dei lavoratori
della cultura o dello spettacolo. Il loro attivismo si pone come interfaccia tra
le moltitudini e i saperi esperti, nell’ottica di una diffusione delle
conoscenze e delle pratiche di cittadinanza (mobilitazione, trasmissione della
memoria delle lotte, organizzazione e rappresentazione delle stesse).
Il
modello organizzativo, basato sullo scambio orizzontale, il dono e l’attivismo,
permette la circolazione delle piattaforme necessarie per avviare l’impresa
collettiva. La rete serve non per creare una pressione politica e mediatica sia
a livello nazionale che internazionale. Ed è utile anche a creare relazioni con
le associazioni caritatevoli, filantropiche e compassionevoli a livello globale
non sul piano della cooptazione, ma del conflitto sull’uso dei fondi, sulla
peculiarità dei progetti, sul rispetto dell’autodeterminazione espressa da
questi dispositivi di auto-governo.
Appadurai
dimostra l’attualità del mutualismo e delle pratiche di cittadinanza in una
società compiutamente liberista come l’India. Questi e altri movimenti sono
l’espressione di un cosmopolitismo dal basso e adottano
consapevolmente le tecniche della governamentalità neoliberista cambiandone il
segno. Si tratta di una specie di governamentalità dal basso applicata
nel mondo dei poveri urbani, una contro-governamentalità alimentata
dalle relazioni complesse tra soggetti eterogenei in uno scenario politico
multiscalare: locale, nazionale e internazionale. La sua razionalità
politica è ispirata ai principi della cooperazione, dello scambio e
della condivisione.
L’obiettivo
è fare politica a livello globale partendo dalla vita quotidiana e dall’idea
che l’attivismo sia un fare produttivo, non identitario, né
corporativo. Bisogna creare reti, comunità ed economie. La politica,
nell’epoca della condivisione, si dà nell’auto-organizzazione e nella creazione
di nuove istituzioni né pubbliche né statali, ma autogovernate.
Il risveglio
Tutto
questo è possibile. Non è la soluzione, ma è un modo per convocare una forza,
per fare appello a un popolo che viene. Ecco, questo è l’impensabile, ancora,
in Italia.