di Davide Gallo Lassere
A
un mese dalle elezioni europee, il dibattitto sul futuro (destino?)
del’Europa stenta a decollare. I punti di vista nazionali prevalgono sulla
declinazione di un punto di vista europeo autonomo. E’ anche l’esito del ruolo
strumentale che le istituzioni europei hanno svolto da Maastricht in poi al
servizio dei potentati finanziari. Le politiche di austerity sono state la
ciliegina sulla torta. E possibile creare un punto di vista europeo autonomo e
alternativo in grado di sperimentare nuovi circuiti di valorizzazione e di
creazione monetaria?
Che
la crisi europea provenga da fuori e che solo ricollocandola all’interno delle
giuste coordinate storiche e geografiche la si possa cogliere nella sua reale
portata, non v’è dubbio alcuno. Che proprio nel presente dell’Unione europea,
però, la crisi pluridecennale del capitalismo globale raggiunga vertici
parossistici, sembra ancora più evidente. Ergo: la crisi che sta dilaniando il
vecchio continente cristallizza in maniera emblematica le problematicità
generali della fase odierna del neocapitalismo.
Il collo della gallina dalle uova d’oro
L’attuale
regime d’accumulazione trainato dalla finanza è insostenibile. Rappresenta il
tentativo disperato del ciclo sistemico d’accumulazione guidato dall’egemonia statunitense
di prolungare le proprie sorti declinanti. Dopo il progressivo esaurimento del
modello fordista di regolazione, stiamo infatti assistendo al rilancio
finanziario dell’economia nella speranza di recuperare i tassi di profitto
erosi dall’intensità e dall’estensione delle lotte degli anni ’60 e ’70. Tale
tentativo avviene (anche) attraverso la metabolizzazione distorta di alcune
delle istanze alla base dei movimenti contestatari; in questa sede, però, poco
importa. Ciò che più conta è come tale concomitanza di contromosse abbia di
fatto comportato dei paurosi svuotamenti della sostanza e della forma delle
democrazie liberali classiche – senza offrire, peraltro, un porto sicuro alle
esigenze illimitate di valorizzazione del capitale. Tale inquietante
configurazione si manifesta nell’Unione europea attraverso i tratti paradossali
di uno stallo storico sempre più traballante, in cui tutto degenera in
continuazione affinché nulla cambi per davvero.
Il
progetto di costruzione europea – sorto, secondo alcuni (Mandel), per
rivaleggiare contro l’imperialismo americano, perseguito, a parer d’altri
(Poulantzas), per meglio assestare le istituzioni politiche alla nuova
condizione economica – reca inscritti nella propria matrice i principi
cardinali dell’ordoliberalismo tedesco[1]. A partire dal
Trattato di Maastricht fino al recente Trattato sulla stabilità, il
coordinamento e la governance, passando Lisbona, ogni passaggio, eminentemente
politico, della progressiva integrazione europea si svolge all’insegna della
sottrazione di discrezionalità democratica tramite l’implementazione di
meccanismi automatici di (presunto) (ri)aggiustamento strutturale. I
tristemente noti “vincoli esterni” sul governo della moneta e dei tassi
d’interesse, così come i rigidi parametri budgetari recentemente incorporati
nelle costituzioni dei vari paesi membri fissano i ristretti margini di manovra
all’interno dei quali non è più giuridicamente possibile operare alcuna scelta
politico-economica di stampo progressista: l’incostituzionalizzazione della
socialdemocrazia keynesiana. Gli articoli 7 e 8 del recente TSCG[2], poi, non solo
obbligano le “parti contraenti” a sostenere la Commissione europea qualora
imponga certe “proposte o raccomandazioni” (sic!) a uno Stato “che abbia
violato il criterio del disavanzo”, ma istituiscono anche la possibilità di
denuncia tra Stati membri[3]. Della serie:
se qualcuno (i paesi in difficoltà) non si adegua alle normative vigenti, è
ormai sufficiente l’iniziativa di un singolo membro (chissà quali?) per
costringere la Corte di giustizia a imporre un rimedio.
La
camicia di forza delle regole d’oro, dunque, non solo impedisce de jure di
agire sulle cause strutturali del precariato e delle sperequazioni, ma
prescrive anche la rivalità e la competizione sfrenate come soluzioni ottimali
alle patologie sociali da loro stesse causate. Nel cortocircuito di questa
costellazione, la moneta unica rappresenta il veicolo più efficace di tale
strategia di messa in concorrenza universale. L’euro così com’è pone infatti
sullo stesso piano paesi con forze produttive, mercati del lavoro e sistemi
educativi e previdenziali radicalmente diversi, favorendo la deflagrazione
delle asimmetrie, anziché una virtuosa convergenza al rialzo. Impossibilitando
ogni altro tipo di compensazione tramite la valvola di sfogo delle politiche
monetarie, l’euro suggella de facto la deflazione salariale
quale via maestra per (tentare di) bilanciare gli squilibri finanziari e
commerciali interni all’Eurozona. Peggio ancora: la moneta unica non solo
condanna allo sfruttamento programmatico del lavoro – al centro come in
periferia – ma spalanca anche le porte a un modello di accumulazione al
contempo sempre più mercantilistico e parassitario.
In
un contesto così rigidamente disciplinato, la migliore strategia di
sopravvivenza nella lotta di tutti contro tutti consiste infatti nell’attaccare
le economie limitrofe, conquistando fette sempre più ampie di mercato estero
tramite l’abbattimento dei costi interni del lavoro e della sua riproduzione –
ultimo fattore flessibile rimasto su cui scaricare il peso delle
ristrutturazioni sociali. In questo modo, l’euro apre terreni fertili ai capitali
del Nord, i quali possono invadere le economie mediterranee approfittando dei
vantaggi accumulati nel corso degli anni precedenti a colpi di precarietà e
compressioni salariali[4]. Non solo.
Messi ulteriormente alle strette dall’accresciuta concorrenza internazionale,
privati di ogni arma monetaria di legittima difesa e oggetto di ripetute ondate
speculative, i paesi periferici sono costretti a svendere public
utilities e patrimoni collettivi per provare a mantenere la testa a
galla, procurando ai paesi dominanti una duplice posizione di rendita, sia per
quanto concerne i nuovi sbocchi commerciali che per quanto riguarda l’accaparramento
di posizioni avanguardistiche in settori nevralgici.
Non
potendo qui affrontare il discorso sulla necessità economica di un’unica moneta
per economie costitutivamente differenti[5], ci limiteremo
a constatare come tale gioco al massacro metta in scena uno scabroso teatrino.
Posto che il neoliberalismo si caratterizza su scala mondiale come una feroce
lotta di classe condotta dall’alto verso il basso via diktat e ricatti
finanziari[6], appare
evidente come né le classi proprietarie mediterranee (le quali possono
smantellare le acquisizioni sociali dovute alla conflittualità novecentesca a
suon di privatizzazioni, austerità e liberalizzazioni) né, tantomeno, quelle
nord-europee siano intenzionate a mollare la presa. Ciò non significa, però,
che non siano disposte a concedere delle deroghe (sotto prescrizioni ampiamente
post-democratiche) all’irremovibilità delle norme, pena il crollo di tale
progetto di espropriazione su scala continentale. Come insegnano le storie, per
esempio, degli Stati Uniti d’America, dell’Italia monarchica e della
riunificazione tedesca, le unioni monetarie non si fanno dall’oggi
all’indomani. È infatti ovvio che, senza gli allentamenti continui a quanto
stabilito dai dispositivi di governance dei Trattati, l’Unione monetaria
europea sarebbe implosa da tempo. In questo senso, gli apparenti miracoli come
il programma Outright Monetary Transactions del banchiere
centrale Mario Draghi non risultano affatto tali, quanto, piuttosto, degli
stratagemmi congegnati per impedire il collasso definitivo della costruzione
europea. Uguale discorso relativamente alle leggere crepe che stanno pian piano
intaccando (secondo gradazioni variabili) i dogmi tanto cari a Troika, Große
Koalition e Bundes Bank: senza di esse la gabbia d’acciaio dell’Europa
austeritaria sarebbe già saltata in aria. Appare allora chiaro come le ridotte
condizioni di possibilità all’interno delle quali possono spaziare le politiche
economiche “sovrane” risultino orchestrate secondo parametri fittiziamente
neutrali, i quali trovano la loro giustificazione ultima nella razionalità
a-democratica tipica del neoliberalismo trionfante: il trascendentale, in
breve, non è altro che un costrutto tecnocratico di parte, quella che sta
saldamente ai vertici della scala sociale internazionale.
Le aporie dell’europeismo astratto
Ciò
che più colpisce e rivolta nel processo di costruzione europea non è tanto
l’assoluta mancanza di democraticità con la quale è stata perseguita e
perfezionata tale cibernetica economico-politica, quanto lo sfacciato e cinico
paternalismo attraverso cui i rappresentanti dell’élite continentale ammettono
il normale funzionamento del percorso integrativo: di crisi in crisi, lo stato
d’eccezione permanente e il bene della comunità tutta, in quanto istanze
sovraordinate, forzano il politicante nazionale di turno ad applicare delle
misure “lacrime e sangue” difficilmente giustificabili altrimenti. Nessun
governo o leader politico, infatti, godrebbe mai del supporto necessario per
praticare tali operazioni antisociali. Del resto, ogni volta che i desiderata europei
sono stati sottoposti al vaglio cittadino il verdetto è parso
inequivocabilmente lampante: dal rifiuto danese del Trattato di Maastricht fino
alla minaccia del referendum greco sull’ennesimo salasso di salvataggio, passando
per il dibattito pubblico svedese sulla (mancata) entrata nell’euro o per
l’esito negativo dei referendum francese e olandese circa l’approvazione del
Trattato costituzionale (in Irlanda si è dovuto reiterare più volte
l’esperimento prima di ottenere il risultato corretto…). Insomma, c’è del
marcio in Europa, la consapevolezza sociale lo riconosce in modo diffuso, ma si
persevera comunque su un odioso – e pericoloso – piano inclinato!
Oltre
agli adepti fedeli militanti tra le fila delle (ex)sinistre di centro, anche il wishfull
thinking progressista, nella richiesta intransitiva di “più Europa”,
rischia insidiosamente di fungere da “utile idiota” del progetto di
affossamento dei diritti sociali e civili ottenuti nel corso degli ultimi due
secoli. Ciò per mera miopia strategica. La questione, infatti, non consiste nei
valori etici o politici di fondo (chi mai, a sinistra, può porsi contro la
commistione e libera circolazione di idee, lingue, esperienze, persone,
culture, etc.?); e nemmeno nella potenziale fattibilità, a lungo termine, di
tale ideale politico e culturale. Essa riguarda, piuttosto, da un lato, il
calcolo delle attuali disparità delle forze in campo e le tempistiche
ragionevoli per sperare di mutare sostanzialmente le carte in tavola; dall’altro,
invece, la constatazione della drammatica situazione in cui versano, qui e ora,
milioni di cittadini europei, in particolare nei paesi meridionali. Certo, le
lacerazioni materiali provocate dal naturale procedimento di un accorpamento
monetario prematuro sono puntellabili a posteriori: politiche
fiscali radicalmente progressive, aumenti massicci del budget comunitario,
robuste redistribuzioni dal centro verso la periferia, etc. Tuttavia, se non
vuole risolversi in una vuota petizione di principio, la richiesta di
un’“Europa politica” volta a compensare l’economicismo dilagante deve spiegare
con urgenza – il tempo stringe! – chi e come può riuscire in tale intento.
Quale soggettività e per quale via può fungere da punto archimedeo (enforcement,
direbbero gli anglofoni) per scardinare al più presto l’Europa neoliberale senza passare
per una rottura monetaria. Due ordini di considerazioni (desunti dal caustico
pamphlet di Lordon citato in nota) sembrano vanificare ab origine ogni
sforzo rivolto in direzione di una riforma dell’euro in senso sociale.
Innanzitutto,
bisogna convincere la (a dir poco restia) Germania. Fermo restando che la
complessità dell’impalcatura istituzionale europea e la sua costitutiva
impermeabilità alle istanze provenienti dal basso remano contro ogni buon
proposito, l’isterismo feticistico tedesco nei confronti delle soglie
inviolabili (2% di inflazione, rapporto 3% deficit/Pil, 60% di debito pubblico)
è tenacemente interrelato al romanzo nazionale che la Germania si racconta da
sessant’anni a questa parte. Senza indagare la (quantomeno dubbia) consistenza
storica e teorica di tale narrazione[7], bisogna
realisticamente assumere il ruolo decisivo rivestito dall’ossessione monetaria
tedesca nel corso dell’organizzazione della Repubblica Federale Tedesca seguita
alla doppia disfatta delle Guerre Mondiali: il marco forte, garante di stabilità,
pace sociale e prosperità. Ora, l’assoluta indipendenza della Banca Centrale,
l’indefesso rigore budgetario, l’indiscutibilità delle missioni
anti-inflazionistiche, etc. non ineriscono certo a una presunta e immutabile
essenza germanica. Ciononostante, è quantomeno naif sottostimare il peso
inerziale di tali assiomi, i quali permeano da lunga data ormai lo spirito
delle istituzioni tedesche tanto da assurgere a cornice metapolitica più o meno
acriticamente assunta da una parte rilevante dello spettro politico. Detto per
inciso: questo mito fondativo è diventato nel corso del tempo un “fatto di
cultura”, un’“invariante simbolica”; di conseguenza, non potrà conoscere delle
serie inflessioni col cambiar di stagione. A tal proposito, non è detto che si
possa contare sul drastico peggioramento delle condizioni socio-economiche di
una larga fetta della popolazione tedesca. A causa della posizione
geo-economica che la Germania ricopre all’interno della divisione
internazionale del lavoro, infatti, essa potrebbe risultare tra le ultime a
subire le ripercussioni più gravi della crisi.
Successivamente,
bisogna ricordarsi che 1. l’architettonica europea si è finora rivelata una
micidiale macchina da guerra al servizio del capitale finanziario e che 2.
l’euro “così com’è” (in assenza di una BCE prestatrice di ultima istanza e in
presenza dei parametri comunitari vigenti) funge da punta di diamante di tale
mostro istituzionale. Il rischio consiste dunque nella sfasatura sussistente
tra la rapidità degli attacchi speculativi e le tempistiche richieste per
mettere in piedi una modifica considerevole atta a diminuire il potere della
finanza. È infatti azzardato immaginare che i mercati finanziari lascino
tranquillamente elaborare un piano volto a contrastare i loro interessi senza
scatenare delle immediate ondate disciplinari di panico aventi per effetto o
l’insabbiamento di ogni velleità riformista o il precipitarsi incontrollato
della crisi con il conseguente sfascio dell’ordine monetario vigente e il
ripiego sulle valute nazionali. Lo scenario prospettabile non è certo dei più
rosei, né in un caso né nell’altro. Che fare, dunque, per non rimanere
invischiati nello stallo attuale?
Oltre un’unica moneta
In
primo luogo, bisogna riconoscere come i fatti monetari costituiscano un
acceleratore di trasformazioni sociali – per il buono come per il cattivo
verso. In secondo luogo, poi, si deve sottolineare come la moneta unica non sia
sinonimo di “Europa” o “Comunità europea”. Non esiste, infatti, esclusivamente
l’internazionale economicistica: la libera circolazione di prodotti, servizi e,
soprattutto, capitali non esaurisce lo spazio di immaginazione/sperimentazione
né il perimetro di fattibilità di un’altra Europa, per dirlo con un’espressione
tornata in auge con la recente campagna elettorale. Nel frattempo,
l’armamentario messo a punto dalla teoria economica eterodossa diventa via via
più ricco, anche se difficilmente i movimenti sociali potranno incidere per il
suo tramite. Senza entrare nel merito delle politiche produttive: ripudio del
debito, imbrigliamento della finanza (tassazione di transazioni e rendite e
limitazione della circolazione dei capitali), camera di compensazione
multilaterale per la bilancia degli scambi internazionali (o moneta comune),
integrazione fiscale, eurobonds, coabitazione monete nazionali ed euro, etc..
Tutte queste soluzioni, più che altro, contribuiscono all’articolazione di una
governance socialistica. E, come tali, non possono che essere le benvenute,
specie in tempi bui. Esse presuppongono, però, la delega a rappresentanti di
fiducia o l’appoggio di una sponda politica che stenta ancora a fare capolino.
Su
cosa far leva, allora, per poter cominciare a migliorare immediatamente la
propria condizione particolare, sottraendosi il più possibile, al contempo, da
ogni tipo di complicità con le logiche economiche dominanti? Come accennato, i
fenomeni monetari rivestono una certa priorità nell’ambito economico. Ciò è
dovuto alla natura olistica della moneta, fatto sociale totale per antonomasia.
Riuscire a escogitare e mettere in pratica dei circuiti monetari alternativi
per oliare gli scambi economici così come istituire delle casse di credito
autonome per finanziare una socializzazione degli investimenti aventi per fine
la produzione dell’uomo per mezzo dell’uomo rappresenterebbe quindi una
soluzione ottimale per eludere il giogo della finanza capitalistica restituendo
indipendenza formale e materiale ai partecipanti alle iniziative. Tale
proliferazione monetaria secondo il principio
del comune richiede l’adesione di tecnici ed esperti oltre
all’implicazione diretta di militanti e cittadini. Essa potrebbe seriamente
coadiuvare a una democratizzazione dell’economico e, di conseguenza, integrare
con contenuti positivi l’opposizione intransigente alle derive più estreme del
capitalismo odierno che stanno devastando l’Unione europea (la quale, finora,
si è rivelata una perversa fusione di necessità, chimera e domino… o meglio: di
dominio attraverso la chimera della necessità). Combattere l’uniformizzazione
monetaria non significa certo combattere il capitalismo tout court né,
tantomeno, affrontare la crisi ecologica. Tale percorso, però, potrebbe
costituire una tra le vie più proficue per aggirare le trappole pratiche e
teoriche che così spesso inquinano la maggior parte dei discorsi vertenti su
“euro, Europa e crisi”. Ciò su cui, forse, potrebbe valer la pena scommettere,
anche in termini di mobilitazione: una severa critica dell’euro, articolata a
delle alternative monetarie concrete.
Note
[1] Per quanto riguarda le analisi
di Ernest Mandel e Nicos Poulantzas, cfr. C. Durand, Pour en finir avec
l’Europe, La fabrique, 2013, pp. 13-19; sull’influenza dell’ordoliberalismo
tedesco, oltre allo studio classico di Michel Foucault sulla nascita della biopolitica,
cfr. P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo, Deriveapprodi,
2013, capitoli 7 e 11.
[2] “Treaty on Stability, Coordination
and Governance”, siglato il 2 marzo 2012 dai paesi dell’Eurozona e da alti 8
paesi.
[3] “La
parte contraente che, sulla base della propria valutazione o della valutazione
della Commissione europea, ritenga che un’altra parte contraente non abbia
preso i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza della Corte di giustizia
comporta può adire la Corte di giustizia e chiedere l’imposizione di sanzioni
finanziarie”. Per una disamina del TSCG, cfr. F. Lordon, Lamalfaçon,
Les liens qui libèrent, 2014, pp. 45-50.
[4] Per una demistificazione delle
presunte prodezze germaniche cfr. V. Giacché, Anschluss,
Imprimatur, 2013.
[5] Affinché l’istituzione di
un’unica moneta in economie radicalmente differenti risulti socialmente
sostenibile bisogna che vengano attuati dei cambiamenti di vasta portata
(unificazione dei sistemi educativi, armonizzazione dei mercati del lavoro,
uniformizzazione dei sistemi di welfare, concertazione delle politiche
macroeconomiche, integrazione fiscale per finanziare tali processi e compensare
i residui squilibri tra Paesi, etc.). Più che di un’impellente necessità
economica, dunque, il processo di instaurazione di una moneta unica dovrebbe
essere interpretato come un’indicazione di percorso: un obiettivo auspicabile,
ma non di certo un prerequisito irrinunciabile. A tal proposito, cfr. A.
Bagnai, Il tramonto dell’euro, Imprimatur, 2012, in particolare pp.
129-134.
[6] Per un’accurata analisi della
recente svolta finanziaria del capitalismo a partire dagli anni ’70 incentrata
sulla scontro di classe dall’alto verso il basso, cfr. D. Harvey, L’enigma del capitale,
Feltrinelli, 2011; G. Duménil, D. Lévy, The crisis of neoliberalism,
Harvard University Press, 2011; L. Gallino, La lotta di classe dopo la
lotta di classe, Laterza, 2012.
[7] La Germania, essendo il più
grande creditore all’interno della zona euro, ha tutto l’interesse materiale nel
promuovere politiche deflazionistiche. Per quanto riguarda i saldi della
bilancia di Target2, vedi qui; per
un rapido commento, vedi qui.