di
Franco Piperno
Palermo- Giovedì
8 maggio (ore 17,30), presso la Real Fonderia alla Cala, il Centro di
documentazione “Zabut” organizza la presentazione del volume collettaneo “Briganti
o Emigranti”, curato da Orizzonti
Meridiani (rete di autoformazione, inchiesta sociale e conricerca, promossa da diversi
collettivi politici e centri sociali del Sud d'Italia), di recente pubblicato
per i tipi della casa editrice Ombre Corte. Cogliamo l’occasione per proporre
la lettura della Prefazione del libro redatta da Franco Piperno, ospite della giornata di studio promossa dal Centro-Zabut, dove si approfondiranno le nuove trame dell’ “altro
meridionalismo” -un filone di ricerca inaugurato da Luciano Ferrari-Bravo e
Alessandro Serafini con la pubblicazione di “Stato e
sottosviluppo”-, una scuola di pensiero che tenta di rovesciare quella letteratura tradizionale fiorita attorno alla “questione
meridionale” che rappresenta un sud congenitamente arretrato, anello debole strutturale dello sviluppo
Il
Mezzogiorno: espressione geografica o luogo dove suole risiedere la
temporalità meridiana?
I
diciassette saggi contenuti nel libro gettano multipli sguardi sulla “vexata
questio” della condizione del Mezzogiorno d’Italia; anzi, a vero dire,
affrontano, magari per allusione, tramite lampi di diverso colore,
l’interrogazione chiave sull’esistenza stessa del Meridione – ovvero di una
comune ed autonoma temporalità, un sentimento del luogo e del movimento,
quell’“aura” civica premoderna che, forte di una esperienza millenaria, ha
resistito all’ideologia del progresso e costituisce ancor oggi il tratto
distintivo, quello originario, il legame che riconduce ad unità etico-politica
l’interiorità dei meridionali.
Lo
sforzo di pensiero che regge questi saggi consegue i suoi risultati proprio
nell’aprire, con rigore analitico, nuove questioni piuttosto che attardarsi nel
tentativo velleitario di dare risposte alle vecchie – una per tutte, risolvere
la “questione meridionale”.
Ma
vediamo le cose per ordine, un ordine logico-storico che non coincide con
quello tipografico.
I
contributi di Petrusewicz e di Rossi pongono, dirò così, una sorta di premessa
al libro: il situare le condizioni al contorno – la lunga durata, il
Mediterraneo europeo – dentro cui si svolge e si rappresenta oggi la vita
civile nel Meridione d’Italia; siamo qui al punto di partenza di questo
programma di ricerca; dove si pone una pietra tombale sulle illusioni cognitive
dure a svanire, siano esse l’interpretazioni biorazziali dell’arretratezza del
Sud o il giudizio antropologico sulla “amoralità” del legame civico nella polis meridionale
– a ben vedere, se esiste una illegalità diffusa, dirò così, molecolare, allora
è la legge che non va e non già i comportamenti di massa.
Su
questo programma di ricerca – la decostruzione degli stereotipi – convergono
poi i saggi tanto di Curcio quanto di Petrillo.
Lo
scritto di Festa fa da ponte tra la prima e la seconda parte del libro, sì da
coprire, con una bibliografia varia ma pertinente, l’intero arco della nostra
storia unitaria, da Cavour a, parlando con decenza, Letta. La tesi dell’autore
si delinea con nettezza fin dall’inizio: lo “stato d’eccezione”, la “guerra al
brigante”, è il dispositivo statuale tramite il quale ha avuto luogo
l’annessione delle città meridiane al regno sabaudo. Questo dispositivo ha
continuato ad agire anche dopo lo sterminio delle insorgenze, ed è ancora
all’opera nei nostri giorni, sia pure sotto forme diverse. Di converso, come
suole accadere ai dispositivi, lo “stato d’eccezione permanente” è riuscito a
secernere il suo contrario, a produrre la sua negazione: nella memoria
collettiva delle insorgenze meridionali corre un filo unitario, sottile e
fortissimo, tra il prima ed il dopo, i morti ed i vivi; tra le brigantesse –
armate, belle e spavalde – e quelle centinaia di migliaia di giovani
meridionali che, nel corso di quest’anno, hanno invaso strade e piazze, un
“fiume in piena” annota Festa, a difesa di ciò che, pur possedendolo già, lo
hanno appena intravisto: il genius loci.
Il
contributo di Mezzadra ha un respiro più propriamente di storia del pensiero
politico, nel suo procedere ad un riesame critico delle categorie concettuali
adoperate, nella tradizione marxista, per indagare la condizione meridionale.
Qui viene ad essere svolta una rivisitazione del pensiero politico di Gramsci
che conclude in una sorta di “autocritica del post-operaista” – Mezzadra
riconosce che, da parte della corrente di pensiero “operaista”, è stata
frettolosa, troppo frettolosa, la liquidazione del tentativo del comunista
sardo di sottrarre il processo rivoluzionario italiano al determinismo rassegnato
del movimento operaio.
Un
po’ di materialismo geografico non guasta
A
seguire un richiamo al reale, una topologia delle lotte in corso nel
Mezzogiorno d’Italia; ecco allora allinearsi una serie di ricerche, dirò così,
sul campo, di notevole interesse nella loro autonomia ma che acquistano ancor
più rilievo nel mettere a verifica la coerenza tra le diverse figure teoriche,
anche quelle elaborate in questo stesso libro, e le forme reali che i conflitti
sociali, fossero anche in stato di latenza, assumono nel Meridione.
Sfilano
così immagini di lotta del Centro storico e del quartiere di Bagnoli, di
Taranto, di Caserta, di Benevento, di Terra di lavoro, di Salerno, di Cosenza e
di Palermo – in quest’ultimo saggio, sia detto per inciso data l’attualità, viene
analizzata la composizione sociale del movimento popolare siciliano, quello
originario, noto come “I Forconi”, anche se si tratta, conviene avvertire,
della composizione quale appariva circa un anno fa.
Un
posto a sé occupa il notevole saggio di Caterina Miele volto a ridisegnare con
cura la vita quotidiana dei Rom di Napoli, dove si mostra quanto più acuto sia
lo sguardo antropologico sulle forme di vita piuttosto che la visione, così
disperatamente ristretta, dell’economia politica.
Per
ultimi ma non ultimi vi sono due saggi, rispettivamente di Amendola e di
Caruso, che, a mio avviso, più di altri si avventurano nell’impresa di
rintracciare una strategia che, dall’interno, riconduca ad unità le insorgenze,
facendo emergere quel comune che tra loro spartiscono, estrapolandone il senso.
Amendola
inizia la sua ricognizione semantica della coppia concettuale
sviluppo-sottosviluppo rileggendo il bel libro di Ferrari-Bravo e Serafini, che
porta quel titolo, edito da Feltrinelli nei primi anni Settanta del secolo
appena trascorso, e ristampato qualche anno fa per i tipi di ombre corte[1]. Quei due operaisti di prima generazione
analizzavano la condizione economico-sociale del Meridione e la riconducevano
agli effetti del dispositivo statuale per il quale il sottosviluppo è solo una
funzione di governo dello stesso sviluppo. Partendo da questa acquisizione,
Amendola mostra come la crisi del pensiero meridionalista sia solo il
corrispettivo ideologico del rovinoso tentativo capitalistico d’imporre la
temporalità dello sviluppo, a un tessuto sociale la cui ricchezza e mobilità
mal sopporta il tempo unidimensionale della crescita quantitativa, l’incantamento
del misterioso Pil.
Caruso,
invece, raffronta gli attrezzi concettuali elaborati dal pensiero
post-coloniale indiano con la trattazione gramsciana delle culture subalterne,
mettendone in rilievo analogie e differenze; procede, poi, ad utilizzare la
teoria per ricostruire le lotte metropolitane in Campania; e conclude, infine,
delineando una sorta di “politica popolare” spontanea che attraversa le
insorgenze e fa del “diritto ineguale” lo strumento decisivo per assicurare la
sopravvivenza di forme di vita metropolitane. Qui sembra verificarsi un effetto
inatteso, una sorta d’inconsapevole ricongiungimento tra le parole sovversive
di Marx contro il “diritto uguale” e la prassi delle moltitudini napoletane in
lotta.
‘Ndrangheta,
mafia, camorra e così via: le comunità criminali e l’accumulazione
primitiva
Nel
programma di ricerca appare anche il tema della malavita meridionale ma
affrontato in quanto legame etico-politico, dirò così, “Bildung” popolare;
dunque, non già nei termini mistici della “difesa della legalità”, alla Saviano
e dintorni, bensì attraverso la ricostruzione delle condotte delle comunità
criminali che quei luoghi abitano e agiscono; condotte che interferiscono, nel
bene e nel male, con la prassi emancipativa di quegli stessi luoghi.
Intanto
traspare da questi scritti (cfr. i saggi del Csoa Tempo Rosso di Pignataro e di
Martinico) che il fenomeno sociale chiamato dai media “criminalità organizzata”
deriva la sua potenza non già dalla organizzazione demoniaca ma piuttosto dal
radicamento sociale, dal consenso di cui è circondata; e questo consenso lo
ottiene perché assolve una funzione sociale specifica: l’accumulazione
originaria necessaria per trasformare il pre-moderno in moderno, la formazione
di una borghesia capitalistica nel Mezzogiorno d’Italia.
Ora,
si sa, altrove e in altro tempo, rapinatori e pirati, intenti ad accumulare,
sono divenuti borghesi quando non alto-borghesi già alla prima generazione. Nel
Sud, dove le banche, quasi tutte del Nord, raccolgono una frazione
significativa del risparmio meridionale, i prestiti all’impresa sono risicati e
comunque gravati da un interesse assai più alto che nel Centro Nord, con
l’inevitabile sviluppo abnorme dell’usura – fenomeno anch’esso tipico della
fase d’accumulazione primitiva. Inoltre, una ingegnosa legislazione speciale,
volta a sradicare le comunità criminali meridionali, consegue il suo assoluto
fallimento nella distruzione giudiziaria di questa accumulazione e nel
ricacciare daccapo i nuovi imprenditori, talvolta di terza o quarta generazione,
nella condizione di fuori legge dalla quale i loro antenati erano partiti.
Porto qui, a sostegno di una tesi che questi saggi sembrano suggerire, da una
parte, lo spropositato numero di meridionali, decine e decine di migliaia,
indagati per “associazione esterna ad organizzazione criminale” – delitto
inventato dalla giurisprudenza, come accusare qualcuno d’essere un poco di
buono, di frequentare cattive compagnie, e per ciò stesso renderlo passibile di
anni e anni di carcere speciale; dall’altra, la confisca di migliaia d’imprese
agricole e industriali e la conseguente scomparsa di posti di lavoro per via
del fallimento di questa imprese una volta affidate ai custodi giudiziari o,
ancor peggio, ad improvvisati imprenditori, professionisti sì ma, come ebbe a
scrivere il siciliano Sciascia, dell’antimafia. Così, nel Meridione si svolge
senza mai concludersi la fase d’accumulazione originaria: la trasformazione
incompiuta del criminale in borghese.
Il
risarcimento dei luoghi comuni
Vediamo
ora alcune considerazioni generali sugli esiti in parte espliciti, ma qualche
volta impliciti, ai quali approdano, con diversa energia argomentativa, i saggi
qui raccolti.
Innanzi
tutto risulta confermato che la prassi delle insorgenze urbane del Sud si
colloca definitivamente fuori da ogni rivendicare lamentoso la mancata
industrializzazione, per situarsi dentro il rifiuto della modernità; rifiuto
che, lungi dall’essere provinciale e periferico innerva i movimenti
emancipativi della nostra epoca, ben visibili a coloro che vogliono vedere,
dalla Val di Susa nel Settentrione d’Italia a Tarnac nella regione della Vienne
francese, dalle comuni berlinesi alle esperienze dei nativi del Chiapas, dal
territorialismo Nord americano ai movimenti dei Sem Terra brasiliani,
dall’Officina Zero di Roma alle moltitudini in rivolta nel continente indiano,
dall’uso del patrimonio immobiliare pubblico agito da Action nella periferia
romana all’autogestione delle fabbriche a Cordoba in Argentina – avvenimenti
questi, per citarne solo alcuni, che hanno in comune il risarcimento dei luoghi
piuttosto che l’opera di qualche avanguardia illuminata, di un partito – o
comunque un soggetto instauratore di improbabili diritti umani e facitore suo
malgrado di alleanze elettorali quando non di patetiche nuove costituzioni.
In
altri termini, la qualità comune dei movimenti emancipativi sta in quel loro
sottrarsi alla prassi rivendicativa che punta, in ultima analisi, ad imporre la
soddisfazione di bisogni indotti tramite la coercizione della mano pubblica,
l’intervento dello Stato, cioè del “sovrano”.
Al
contrario, l’unica richiesta che questi movimenti avanzano al dispositivo
statale è quella di astenersi dall’intervenire, di lasciare che i problemi
siano affrontati e si tenti di risolverli nei luoghi stessi nei quali si sono
generati; e qualora, come capita a scorno delle anime belle, sia necessaria la
coercizione, questa sia esercitata dalle comunità che abitano i luoghi nella
loro, totale ed autonoma, potenza etico-politica.
Da
questo punto di vista, che è quello di questi saggi, appare affrettata una
certa fiducia, che corre in più di uno scritto, nella promozione di
mobilitazioni generali, a livello nazionale o sovranazionale; ed in particolare
nella vertenza del reddito di base incondizionato.
Risolvere
il problema della riproduzione in termini di reddito monetario, garantito da
una qualche istituzione pubblica nazionale o sovranazionale – da un sovrano
insomma – se può significare un innegabile vantaggio per il suddito consumatore
certo non comporta alcuna conseguenza sulla qualità dei beni e dei servizi
prodotti, sulla frenetica valorizzazione di ogni nuova merce seguita da una
altrettanto rapida svalorizzazione – questa ideologia del “nuovo” a scapito del
“reale” che caratterizza la temporalità moderna; e rende tra loro complici
l’innovazione tecnico-scientifica e la produzione industriale delle merci;
insomma, una ipostasi di massa, superstiziosa e raccapricciante, del futuro. In
questo scenario, la rivendicazione del reddito di base rischia di comportare
“un chiedere di più delle stesse cose”, risolvendosi così nel prototipo del
bisogno alienato, per niente antagonista, serenamente gestibile come mero
sostegno alla domanda di merci, ulteriore rigonfiamento dei consumi, manovra finanziaria
che consegue il risultato collaterale d’allargare la sfera pubblica, la
burocrazia – come del resto dimostra l’esperienza dei paesi, per esempio il
Canada o la Danimarca, dove questo reddito di base esiste da decenni senza che
abbia contribuito in alcun modo a rafforzare il processo emancipativo.
In
effetti, la fuoriuscita dalla condizione servile del rivendicare, oltre a
garantire comportamenti collettivi che evitano la catastrofe nella quale è
precipitato già al nascere il movimento operaio, facilita l’emergere delle
attività dei luoghi laddove prima vigeva il non-locale, il “soggetto” ovvero il
sovrano, magari nella forma patetica del partito; questo con ragione, perché,
mentre il pensare è globale, l’agire è definitivamente locale. Il posto che nel
pensiero politico moderno occupava il soggetto ora sta per venir preso dal
luogo, il luogo comune – inteso come relazioni tra tutti gli esseri che lo
abitano, uomini, animali, piante e cose.
Comunismo
e autorganizzazione
Sostituire
al dispositivo della democrazia rappresentativa l’agire nei luoghi delinea una
condotta politica sovversiva che conviene chiamare comunista – malgrado che il
nome abbia, ai nostri giorni, subito un tale accartocciamento semantico, una
tale banalizzazione da richiedere d’esser usato con parsimonia e cura; come
accade, peraltro, alle parole che ci sono care e non abbiamo smesso di
proferire nell’intimità. Beninteso, qui comunista non significa un
rivoluzionario di professione, un’appartenenza ad una delle tante sette che si fregiano
abusivamente di quel nome e men che mai una sprovveduta militanza nella
variegata sinistra, antagonista sì ma di governo.
Essere
comunista vuol dire “agire nel luogo dove la sorte ti ha gettato”; e rovesciare
la sorte in destino comportandosi da individuo sociale, dalla coscienza enorme,
all’altezza della specie. Comunista è colui che cerca l’attività che lo attrae,
cerca il proprio “demone”; e una volta riconosciuto non lo lascia fuggir via.
Come scrive Agnes Heller, nel senso comune l’azione è attribuita a chi sceglie.
Il comunista non sceglie cercando il consenso degli altri, men che mai quello
elettorale. Il comunista sceglie la libertà. Il comunista sceglie di divenire
ciò che già è, sceglie se stesso – e dopo questa scelta, per dirla con Nietzsche,
non vi sarà più niente da scegliere. Così, il comunista non rappresenta né gli
operai, né i poveri e ancor meno gli sfruttati, o altre moltitudini in
sofferenza. La potenza della prassi comunista deriva proprio dal vivere una
vita dove mezzo e scopo coincidono; una vita irrimediabilmente finita e,
proprio per questo, potenzialmente perfetta.
Il
comunista non si rifiuta all’attraversamento del deserto, sceglie la libertà,
sceglie se stesso; anche quando la scelta potrebbe comportare la solitudine,
dove la folla è muta e gli amici non riconoscono. La scelta d’essere se stesso
trasforma il corpo in individuo sociale, la coscienza enorme d’appartenere ad
una specie animale che usa il “General Intellect” – cioè la memoria dei saperi
e delle tecniche costruite dalla attività di cooperazione umana lungo i
millenni, dai morti e dai vivi. Così nella voce del comunista risuona il
“General Intellect”; quasi fosse la specie umana stessa a prendere parola per
scandire, ad uno ad uno, i nomi del suo modo paradossale d’essere natura.
Ci
troviamo dunque oltre l’esperienza del movimento operaio, talmente oltre da
rendere le categorie dell’economia politica dei ceppi della mente che hanno
fatto nido nel senso comune.
Lo
scenario non è quello della Rivoluzione d’Ottobre ma piuttosto della grande
trasformazione, promossa dal “General Intellect”, un mutamento delle mentalità,
una diversa configurazione del senso comune – insomma, qualcosa di simile a
quel che è accaduto in Europa al tempo delle eresie medievali, o, ancor più, nell’Italia
rinascimentale.
Di
nuovo, oggi come allora, emanciparsi vuol dire coniare nuove parole e
rievocarne di antiche, per produrre presenza.
Strappare
la gioia al futuro
In
effetti il processo emancipativo dell’epoca nostra trova qui un passaggio decisivo
verso l’espansione o la rovina: l’egemonia si costruisce non producendo teorie
tramite teorie, non rivendicando diritti, non evadendo nel virtuale, ma sul
terreno solido della potenzialità umana di creare il reale, il comune appunto.
Contro la riproduzione allargata del capitale che comporta rigonfiamento,
stupefatto e abnorme, del consumo – nonché la crisi, per via della saturazione
periodica, dei valori di scambio; contro l’imperialismo dei diritti umani:
consumare di più per lavorare di più – ecco che va prendendo forma una sorta di
attività produttiva, ancora bambina certo, ma già capace di incidere
materialmente nella riproduzione semplice dei luoghi, ovvero nel produrre per
soddisfare i bisogni radicali del luogo e scoraggiare i bisogni alienati. Questo
praticare “qui ed ora” l’attività creatrice di valori d’uso è la via maestra
perché riaffiori nel senso comune la centralità della vita quotidiana – l’idea
forza, antica quanto lo è l’umanità, che fonda, abita e pensa la città in
quanto luogo della buona vita, del riconoscimento del proprio singolare
destino, della realizzazione del sé nell’autorganizzazione degli abitanti.
A
grandi linee sono queste le questioni agitate nel libro, questioni che proprio
per il loro essere inattuali permettono una visione dei luoghi, delle città,
nelle loro identità molteplici.
Si
tratta di processi in corso perché le città vengono continuamente rifondate.
Così, per chiudere senza concludere, ci piace pensare a questo libro come la
prima parte di una guida ad uso dei comunisti smarriti, per strappare la gioia
al futuro. Guida che vorremmo fosse completata al più presto.
[1] L. Ferrari Bravo e A. Serafini, Stato
e sottosviluppo. Il caso del Mezzogiorno italiano, ombre corte, Verona 2007
(1972)