giovedì 15 maggio 2014

Echi della rivoluzione nel pensiero

di Roberto Ciccarelli


nella storia recente del pensiero politico radicale non si può non osservare la distanza tra la teoria del conflitto e il contesto politico in cui essa si inserisce… il conflitto non riesce a saldare coalizioni sociali che mettano in relazione il pensiero e la prassi. E, quando ci riescono, si ferma al dialogo tra identità specifiche e non alla promozione di una sintesi tra molteplicità

Italian Theory, Italian Radical Thought, The Italian Difference: viene il dubbio che nella filosofia politica italiana sia riemersa una rivendicazione nazionalista. Per di più usando l’inglese, non la lingua patria. Se così fosse, in fondo sarebbe prevedibile: il revanscismo ispira partiti e movimenti oggi coinvolti nella tornata elettorale europea del 25 maggio. Con tonalità diverse, partiti e movimenti cercano di conquistarsi il voto a suon di populismi di destra, sinistra e personali. Tutti a invocare il ritorno alla sovranità nazionale contro la globalizzazione neoliberista o l’austerità. Sarà questo il tema del convegno di Napoli da giovedì 15 a sabato 17 maggio Italian Theory. Categorie e problemi della filosofia italiana contemporanea? Il pensiero italiano si è fatto catturare dal desiderio di tornare al calore della piccola patria?

Essere di parte
Non è così. Quando si parla di “pensiero italiano” si vuole segnalare il punto di vista parziale, e situato anche dal punto di vista geografico. Più in generale, significa parlare di politica. E la politica, in Italia, ha significato prendere partito. L’essere di parte è stato il presupposto di una lotta mortale, per l’egemonia, la direzione delle anime, la cultura, il governo. A differenza di altri paesi europei, la Spagna, l’Inghilterra o la Francia, e poi la Germania, la filosofia italiana non ha accompagnato la creazione di uno Stato nazionale. Non ne ha costruito l’apologo, né celebrato la fine. La politica, come la storia, sono state pensate da Machiavelli e Bruno, Vico o Leopardi al di là della costituzione di uno Stato, radicandosi in una dimensione prestatale che ha alimentato una critica contro l’autorità politica, ma anche l’opposto: una radicale diffidenza rispetto ad ogni forma di vincolo politico statale a beneficio dei legami comunitari o municipalisti.
La storia di questo “pensiero italiano” non è mai stata riducibile a quella di una “nazione” europea. Sin dall’inizio, il pensiero italiano ha maturato una vocazione per il conflitto. Ancora oggi, quando per fare filosofia bisogna emigrare oppure affrontare in patria una minacciosa condizione di precariato, di umiliazione e di invisibilità che caratterizza tutto il lavoro della conoscenza, la distanza con i poteri costituiti è la forza di chi pensa in Italia, come in continenti lontani. Non avere costruito un’identità a partire da un territorio omogeneo, con una capitale e una sovranità unica, è stata da sempre considerata la debolezza di questo pensiero – elemento non trascurabile in quella “storia degli intellettuali” fatta da Antonio Gramsci.
Machiavelli, Giordano Bruno, Giacomo Leopardi, Muratori o Cattaneo sono alcuni dei pensatori, pur nelle loro grandi differenze, che hanno teorizzato un pensiero intimamente conflittuale, materialista, federalista o illuminista radicale in una società senza Stato, al di là dei particolarismi dialettali così come dalla costruzione di un’egemonia moderata che si è poi voluta condensare in un’essenza nazionale, in un carattere “popolare” che è stato sequestrato da un moderatismo liberale, dall’egemonia cattolica, e oggi dall’egemonia dell’impresa.

Senza Stato, né territorio
La curiosità, l’interesse politico, l’ingegnosità analitica che oggi il pensiero italiano e la sua storia riscuotono in tutto il mondo – e di cui è manifestazione l’incontro napoletano così come quello precedente a Parigi Ouest Nanterre La Défense e a Parigi La Sorbonne – sono il segno di un cortocircuito avvenuto nell’epoca della globalizzazione, e in particolare nei primi sei anni della crisi globale. L’elemento della separazione dallo Stato, e quindi dal territorio, del pensiero italiano viene oggi considerato come una risorsa costituente del pensiero politico contemporaneo. Non è una mancanza, il segno di un lutto, come invece viene giudicato in Italia.
Al contrario è diventata una sensazione che accomuna molti studiosi, ben al di là della professione. Oggi parliamo di un pensiero che non afferma un’identità, ma una deterritorializzazione, un conflitto e non la nostalgia per l’identificazione con una teologia economica che mortifica la vita e con essa il pensiero.
L’assenza di una vocazione nazionale del pensiero non rappresenta più il sintomo di una condizione «cosmopolita», espressione con la quale Gramsci stigmatizzava l’intellettuale distaccato dalla politica delle masse, ma l’insorgenza di un materialismo radicale. Un rovesciamento che sarebbe avvenuto dopo la fine della guerra fredda, facendo emergere un tratto della filosofia italiana largamente trascurato visto che la figura del pensatore, come quella dello scrittore o poeta, è stata presa in considerazione solo per la sua individualità.
È un retaggio della cultura storicista, affascinata più da singolarità esemplari che dalle storie politiche di cui esse erano l’espressione. Un limite che, paradossalmente, torna anche nell’«Italian Theory» quando sottolinea la risonanza internazionale riscontrata dai libri di Giorgio Agamben, di Toni Negri o Roberto Esposito. Questa diffusione è stata possibile perché nelle filosofie «italiane» – il plurale è obbligatorio considerata la diversità degli approcci e delle prospettive – risuona favorevolmente un contesto politico sensibile alla radicalità del pensiero e alla ricerca del conflitto contro le politiche dell’austerità imposte dal neoliberismo.

Prima viene la resistenza
Un capovolgimento che spiega l’incontro tra il pensiero italiano e altre prassi filosofiche. In primo luogo con autori francesi, molto studiati anche in Italia, come Michel Foucault e Gilles Deleuze. Questa attitudine al conflitto epistemico, politico, culturale maturato dal pensiero italiano è spiegata con un’osservazione scritta da Deleuze nel suo ritratto di Foucault del 1986. In quello scritto Deleuze chiariva il contesto in cui è maturata la ricerca di Foucault su una soggettività che cerca di sottrarsi dalla presa del potere neoliberale sulla sua vita per istituire una nuova norma di vita affermativa. Prima viene la resistenza, poi l’istituzione; prima il divenire, poi l’identità di parte ha scritto il filosofo francese rinviando ad un passaggio dell’opera di Mario Tronti Operai e capitale che ha costituito uno degli esiti più alti dell’operaismo.
Su questa base è possibile stabilire una cooperazione tra storie del pensiero differenti che, pur mantenendo al centro l’interrogazione sul rapporto tra economia e lavoro, si sporgano verso diversi campi del sapere umanistici, giuridici, economici o sociali. L’ambizione è quella di confrontarsi e rilanciare l’analisi di chi riflette oggi sugli scambi crescenti con i saperi scientifici, della biologia, dell’informatica o della matematica, insomma con tutte quelle ricerche che dalla fenomenologia in poi hanno chiarito che al centro del fare e del vivere in comune esiste un’interrogazione sul vivente e la sua storia. In questo modo chi si interroga sul “pensiero italiano” dimostrerebbe di volere contribuire a costruire dispositivi che analizzano la nostra vita per produrre una forza performativa, pensiero e movimento che trasformino la realtà.

Un problema comune
La filosofia politica moderna, buona parte di quella del Novecento, ha sempre lavorato per neutralizzare il conflitto o per renderlo impensabile, per non dire ridicolo e impotente. Il problema non dovrebbe essere vissuto esclusivamente come un’imposizione dall’esterno, sotto forma di una negazione o di un rifiuto da parte di un potere. Per intenderci, c’è anche questo, ma nella storia recente del pensiero politico radicale non si può non osservare la distanza tra la teoria del conflitto e il contesto politico in cui essa si inserisce. Se parliamo di conflitto, allora bisogna anche affrontare quello che esiste tra il pensiero e l’ontologia attiva di tipo sociale o politica. Questa distanza ha assunto varie forme: quella storica che caratterizza il pensiero italiano e vede la separazione tra i pensatori radicali e la loro difficoltà nel siglare un’alleanza tra la borghesia e le classi lavoratrici. E quella attuale: il conflitto non riesce a saldare coalizioni sociali che mettano in relazione il pensiero e la prassi. E, quando ci riescono, si ferma al dialogo tra identità specifiche e non alla promozione di una sintesi tra molteplicità.
C’è chi cerca un’alternativa nella teologia politica. È un tentativo rispettabile, anche perché cerca di individuare un conflitto potenziale lì dove massima è la neutralizzazione. Assistiamo negli Stati Uniti, come in Inghilterra, in Francia come in Germania, e non ultima l’Italia dove dagli anni Ottanta si riflette su questo con o contro Carl Schmitt, a un tentativo di contrapporre la teologia politica a quella economica dell’austerità. Visto che la vita sarà dominata dalla teologia economica, e dal suo imperativo al debito sovrano con l’ipoteca sul futuro, l’alternativa dovrebbe essere cercata ai bordi, sui margini, o nei risvolti impensati della storia della teologia politica cristiana.

Echi della rivoluzione
Il problema non è se credere o meno in Dio, ma se dentro la teologia esista un modo per fare parlare la rivoluzione. Ne è passato di tempo da quando Benjamin usava il fantoccio del materialismo per far parlare il nano della teologia. Oggi la teologia si è presa tutto lo spazio, è diventato il linguaggio della politica e dell’economia. Chi desidera la rivoluzione può farlo, ma a condizione di restare nel suo ambito e usarne le categorie. In questo rovesciamento delle parti, rivelatore dell’attuale egemonia, la teologia politica sembra l’unica a potere esprimere un desiderio di radicale discontinuità. Nelle sue pieghe emergerebbero il soggetto, e la forma di vita, capaci di praticarla.
C’è chi predica una teologia messianica della liberazione, chi un’altra apocalittica. Da Laclau a Zizek a Badiou, da Butler ad Agamben molti autori e autrici negli ultimi vent’anni si sono confrontati su questi temi, alla ricerca di una possibile via d’uscita rispetto ai dilemmi della soggettività contemporanea. Pur rimandando ad una doverosa, e analitica, disamina di queste e di numerose altre posizioni, dal punto di vista di una storia del presente non possiamo non vedere come questa riscoperta della trascendenza segni la rinuncia alla congiunzione tra immanenza, storia e politica. La soggettività che si vorrebbe rilanciare viene nei fatti neutralizzata e legata allo stesso ceppo della teologia economica che domina il nostro orizzonte.

Le catene del debito da rompere
Tra la spoliazione della vita attraverso la povertà assoluta e l’amore per gli uomini che si esprime in quello di Dio o dei suoi santi verso i poveri, esiste un’alternativa che va cercata al di fuori della teologia dominante. Esiste una corrente sotterranea del pensiero, un’immanenza non teologica ma materialistica che si afferma anche, ma non solo, nel “pensiero italiano”. Vari sono gli autori: Averroé, Bruno, Spinoza, Schelling, Marx, Nietzsche, Bergson, il cui obiettivo è potenziare la vita e dimostrare che il pensiero non è di Dio ma è quello di una potenza anonima e collettiva, espressione di un’intelligenza umana costituita dall’interazione delle singole menti nell’unità del cervello sociale. A cosa, dunque, dovremmo destinare i nostri sforzi comuni di pensiero? A rovesciare la catena oppressiva del debito in un circuito di solidarietà e comunanza.
Il conflitto può essere virtuoso, quindi vincente, quando si prova a credere in questo mondo e in questa vita. Impresa non semplice, visto che tutte le teologie insegnano a diffidare della vita e a disperarsi per la propria impotenza. Una volta riconquistato l’amore per il mondo, come creazione di infinite possibilità, allora potrebbe aprirsi uno spiraglio verso un modo di esistenza che coincida con la libertà di esistere.