di Roberto Ciccarelli
nella
storia recente del pensiero politico radicale non si può non osservare la
distanza tra la teoria del conflitto e il contesto politico in cui essa si
inserisce… il conflitto non riesce a saldare coalizioni sociali che mettano in
relazione il pensiero e la prassi. E, quando ci riescono, si ferma al dialogo
tra identità specifiche e non alla promozione di una sintesi tra molteplicità
Italian Theory, Italian Radical
Thought, The Italian Difference: viene il dubbio che nella filosofia
politica italiana sia riemersa una rivendicazione nazionalista. Per di più
usando l’inglese, non la lingua patria. Se così fosse, in fondo sarebbe
prevedibile: il revanscismo ispira partiti e movimenti oggi coinvolti nella
tornata elettorale europea del 25 maggio. Con tonalità diverse, partiti e
movimenti cercano di conquistarsi il voto a suon di populismi di destra,
sinistra e personali. Tutti a invocare il ritorno alla sovranità nazionale
contro la globalizzazione neoliberista o l’austerità. Sarà questo il tema del convegno di Napoli da giovedì 15 a
sabato 17 maggio Italian Theory.
Categorie e problemi della filosofia italiana contemporanea? Il
pensiero italiano si è fatto catturare dal desiderio di tornare al calore della
piccola patria?
Essere di parte
Non
è così. Quando si parla di “pensiero italiano” si vuole segnalare il punto di
vista parziale, e situato anche dal punto di vista geografico. Più in generale,
significa parlare di politica. E la politica, in Italia, ha significato
prendere partito. L’essere di parte è stato il presupposto di una lotta
mortale, per l’egemonia, la direzione delle anime, la cultura, il governo. A
differenza di altri paesi europei, la Spagna, l’Inghilterra o la Francia, e poi
la Germania, la filosofia italiana non ha accompagnato la creazione di uno
Stato nazionale. Non ne ha costruito l’apologo, né celebrato la fine. La politica,
come la storia, sono state pensate da Machiavelli e Bruno, Vico o Leopardi al
di là della costituzione di uno Stato, radicandosi in una dimensione prestatale
che ha alimentato una critica contro l’autorità politica, ma anche l’opposto:
una radicale diffidenza rispetto ad ogni forma di vincolo politico statale a
beneficio dei legami comunitari o municipalisti.
La
storia di questo “pensiero italiano” non è mai stata riducibile a quella di una
“nazione” europea. Sin dall’inizio, il pensiero italiano ha maturato una
vocazione per il conflitto. Ancora oggi, quando per fare filosofia bisogna
emigrare oppure affrontare in patria una minacciosa condizione di precariato,
di umiliazione e di invisibilità che caratterizza tutto il lavoro della
conoscenza, la distanza con i poteri costituiti è la forza di chi pensa in
Italia, come in continenti lontani. Non avere costruito un’identità a partire
da un territorio omogeneo, con una capitale e una sovranità unica, è stata da
sempre considerata la debolezza di questo pensiero – elemento non trascurabile
in quella “storia degli intellettuali” fatta da Antonio Gramsci.
Machiavelli,
Giordano Bruno, Giacomo Leopardi, Muratori o Cattaneo sono alcuni dei
pensatori, pur nelle loro grandi differenze, che hanno teorizzato un pensiero
intimamente conflittuale, materialista, federalista o illuminista radicale in
una società senza Stato, al di là dei particolarismi dialettali così come dalla
costruzione di un’egemonia moderata che si è poi voluta condensare in
un’essenza nazionale, in un carattere “popolare” che è stato sequestrato da un
moderatismo liberale, dall’egemonia cattolica, e oggi dall’egemonia
dell’impresa.
Senza Stato, né territorio
La
curiosità, l’interesse politico, l’ingegnosità analitica che oggi il pensiero
italiano e la sua storia riscuotono in tutto il mondo – e di cui è
manifestazione l’incontro napoletano così come quello
precedente a Parigi Ouest Nanterre La Défense e a Parigi La Sorbonne –
sono il segno di un cortocircuito avvenuto nell’epoca della globalizzazione, e
in particolare nei primi sei anni della crisi globale. L’elemento della
separazione dallo Stato, e quindi dal territorio, del pensiero italiano viene
oggi considerato come una risorsa costituente del pensiero politico
contemporaneo. Non è una mancanza, il segno di un lutto, come invece viene
giudicato in Italia.
Al
contrario è diventata una sensazione che accomuna molti studiosi, ben al di là
della professione. Oggi parliamo di un pensiero che non afferma un’identità, ma
una deterritorializzazione, un conflitto e non la nostalgia per
l’identificazione con una teologia economica che mortifica la vita e con essa
il pensiero.
L’assenza
di una vocazione nazionale del pensiero non rappresenta più il sintomo di una
condizione «cosmopolita», espressione con la quale Gramsci stigmatizzava
l’intellettuale distaccato dalla politica delle masse, ma l’insorgenza di un
materialismo radicale. Un rovesciamento che sarebbe avvenuto dopo la fine della
guerra fredda, facendo emergere un tratto della filosofia italiana largamente
trascurato visto che la figura del pensatore, come quella dello scrittore o
poeta, è stata presa in considerazione solo per la sua individualità.
È
un retaggio della cultura storicista, affascinata più da singolarità esemplari
che dalle storie politiche di cui esse erano l’espressione. Un limite che,
paradossalmente, torna anche nell’«Italian Theory» quando sottolinea la
risonanza internazionale riscontrata dai libri di Giorgio Agamben, di Toni
Negri o Roberto Esposito. Questa diffusione è stata possibile perché nelle
filosofie «italiane» – il plurale è obbligatorio considerata la diversità degli
approcci e delle prospettive – risuona favorevolmente un contesto politico
sensibile alla radicalità del pensiero e alla ricerca del conflitto contro le
politiche dell’austerità imposte dal neoliberismo.
Prima viene la resistenza
Un
capovolgimento che spiega l’incontro tra il pensiero italiano e altre prassi
filosofiche. In primo luogo con autori francesi, molto studiati anche in
Italia, come Michel Foucault e Gilles Deleuze. Questa attitudine al conflitto
epistemico, politico, culturale maturato dal pensiero italiano è spiegata con
un’osservazione scritta da Deleuze nel suo ritratto di Foucault del 1986. In
quello scritto Deleuze chiariva il contesto in cui è maturata la ricerca di
Foucault su una soggettività che cerca di sottrarsi dalla presa del potere
neoliberale sulla sua vita per istituire una nuova norma di vita affermativa.
Prima viene la resistenza, poi l’istituzione; prima il divenire, poi l’identità
di parte ha scritto il filosofo francese rinviando ad un passaggio dell’opera di Mario
Tronti Operai e capitale che ha costituito uno degli esiti
più alti dell’operaismo.
Su
questa base è possibile stabilire una cooperazione tra storie del pensiero
differenti che, pur mantenendo al centro l’interrogazione sul rapporto tra
economia e lavoro, si sporgano verso diversi campi del sapere umanistici,
giuridici, economici o sociali. L’ambizione è quella di confrontarsi e
rilanciare l’analisi di chi riflette oggi sugli scambi crescenti con i saperi
scientifici, della biologia, dell’informatica o della matematica, insomma con
tutte quelle ricerche che dalla fenomenologia in poi hanno chiarito che al
centro del fare e del vivere in comune esiste un’interrogazione sul vivente e
la sua storia. In questo modo chi si interroga sul “pensiero italiano”
dimostrerebbe di volere contribuire a costruire dispositivi che analizzano la
nostra vita per produrre una forza performativa, pensiero e movimento che
trasformino la realtà.
Un problema comune
La
filosofia politica moderna, buona parte di quella del Novecento, ha sempre
lavorato per neutralizzare il conflitto o per renderlo impensabile, per non
dire ridicolo e impotente. Il problema non dovrebbe essere vissuto
esclusivamente come un’imposizione dall’esterno, sotto forma di una negazione o
di un rifiuto da parte di un potere. Per intenderci, c’è anche questo, ma nella
storia recente del pensiero politico radicale non si può non osservare la
distanza tra la teoria del conflitto e il contesto politico in cui essa si
inserisce. Se parliamo di conflitto, allora bisogna anche affrontare quello che
esiste tra il pensiero e l’ontologia attiva di tipo sociale o politica. Questa
distanza ha assunto varie forme: quella storica che caratterizza il pensiero
italiano e vede la separazione tra i pensatori radicali e la loro difficoltà nel
siglare un’alleanza tra la borghesia e le classi lavoratrici. E quella attuale:
il conflitto non riesce a saldare coalizioni sociali che mettano in relazione
il pensiero e la prassi. E, quando ci riescono, si ferma al dialogo tra
identità specifiche e non alla promozione di una sintesi tra molteplicità.
C’è
chi cerca un’alternativa nella teologia politica. È un tentativo rispettabile,
anche perché cerca di individuare un conflitto potenziale lì dove massima è la
neutralizzazione. Assistiamo negli Stati Uniti, come in Inghilterra, in Francia
come in Germania, e non ultima l’Italia dove dagli anni Ottanta si riflette su
questo con o contro Carl Schmitt, a un tentativo di contrapporre la teologia
politica a quella economica dell’austerità. Visto che la vita sarà dominata
dalla teologia economica, e dal suo imperativo al debito sovrano con l’ipoteca
sul futuro, l’alternativa dovrebbe essere cercata ai bordi, sui margini, o nei
risvolti impensati della storia della teologia politica cristiana.
Echi della rivoluzione
Il
problema non è se credere o meno in Dio, ma se dentro la teologia esista un
modo per fare parlare la rivoluzione. Ne è passato di tempo da quando Benjamin
usava il fantoccio del materialismo per far parlare il nano della teologia.
Oggi la teologia si è presa tutto lo spazio, è diventato il linguaggio della
politica e dell’economia. Chi desidera la rivoluzione può farlo, ma a
condizione di restare nel suo ambito e usarne le categorie. In questo
rovesciamento delle parti, rivelatore dell’attuale egemonia, la teologia
politica sembra l’unica a potere esprimere un desiderio di radicale
discontinuità. Nelle sue pieghe emergerebbero il soggetto, e la forma di vita,
capaci di praticarla.
C’è
chi predica una teologia messianica della liberazione, chi un’altra
apocalittica. Da Laclau a Zizek a Badiou, da Butler ad Agamben molti autori e
autrici negli ultimi vent’anni si sono confrontati su questi temi, alla ricerca
di una possibile via d’uscita rispetto ai dilemmi della soggettività
contemporanea. Pur rimandando ad una doverosa, e analitica, disamina di queste
e di numerose altre posizioni, dal punto di vista di una storia del presente
non possiamo non vedere come questa riscoperta della trascendenza segni la
rinuncia alla congiunzione tra immanenza, storia e politica. La soggettività
che si vorrebbe rilanciare viene nei fatti neutralizzata e legata allo stesso
ceppo della teologia economica che domina il nostro orizzonte.
Le catene del debito da rompere
Tra
la spoliazione della vita attraverso la povertà assoluta e l’amore per gli
uomini che si esprime in quello di Dio o dei suoi santi verso i poveri, esiste
un’alternativa che va cercata al di fuori della teologia dominante. Esiste una
corrente sotterranea del pensiero, un’immanenza non teologica ma materialistica
che si afferma anche, ma non solo, nel “pensiero italiano”. Vari sono gli
autori: Averroé, Bruno, Spinoza, Schelling, Marx, Nietzsche, Bergson, il cui
obiettivo è potenziare la vita e dimostrare che il pensiero non è di Dio ma è
quello di una potenza anonima e collettiva, espressione di un’intelligenza
umana costituita dall’interazione delle singole menti nell’unità del cervello
sociale. A cosa, dunque, dovremmo destinare i nostri sforzi comuni di pensiero?
A rovesciare la catena oppressiva del debito in un circuito di solidarietà e
comunanza.
Il
conflitto può essere virtuoso, quindi vincente, quando si prova a credere in
questo mondo e in questa vita. Impresa non semplice, visto che tutte le teologie
insegnano a diffidare della vita e a disperarsi per la propria impotenza. Una
volta riconquistato l’amore per il mondo, come creazione di infinite
possibilità, allora potrebbe aprirsi uno spiraglio verso un modo di esistenza
che coincida con la libertà di esistere.