di
Giorgio Cremaschi
chiusosi il congresso
di Rimini della CGIL, il leader dell’Area programmatica “Rete28Aprile” metta a
fuoco la crisi attraversata dal maggiore sindacato italiano e da tutto il
sindacalismo confederale, senza risparmiare lo stesso sindacalismo di base che,
pur promotore di “conflitti generosi ed
importanti”, ha mostrato di non avere la forza, anche per le sue divisioni, di
coprire gli spazi vuoti della rappresentanza con nuovi modelli organizzativi e
partecipativi che guardino ai movimenti sociali, collegando i conflitti
tradizionali alle nuove insorgenze conflittuali
Il
caso sindacale italiano degli '70 del secolo scorso si sta rovesciando oggi nel
suo opposto. Quello che è stato a lungo
considerato uno dei più forti e innovativi movimenti sindacali dell'occidente
sta diventando uno dei più burocratizzati e ininfluenti. Le generalizzazioni
sulla crisi della rappresentanza sindacale nell'epoca della globalizzazione non
ci portano da nessuna parte. È ovvio che la ritirata è generale, ma quella
italiana è tanto più rilevante in quanto parte da una avanzata superiore a
tante altre. E questo oggi diventa sentire comune: la caduta di consenso verso
le grandi organizzazioni confederali è poco distante da quella verso la
rappresentanza politica. E in essa si sommano sia la perdita di fiducia del
mondo del lavoro organizzato, sia l'estraneità al sindacato dei milioni di
precari, sia un sentimento antisindacale reazionario che di fronte alla crisi
esplode.
La
contestazione al sindacato perché troppo rigido e quella perché non fa nulla
finiscono così per diventare un sentimento
diffuso, sul quale giocano tutti gli schieramenti politici per
conquistare facile consenso. Mai i gruppi dirigenti di CGIL CISL UIL hanno
subito tanta caduta di stima e prestigio, al di fuori di quella struttura di
apparato ed attivisti tanto vasta quanto chiusa verso l'esterno.
Ripeto
questa è una particolarità Italiana della crisi sindacale, come lo è il fatto
che il nostro paese è in Europa quello con la massima devastazione nel campo
della sinistra radicale ed anticapitalista. Magari tra i due fatti c'è qualche
rapporto.
La
crisi sindacale italiana è prima di tutto la crisi della CGIL. CISL e UIL nella crisi son tornate alle loro identità
originarie, moderatismo, aziendalismo, a volte la CISL solidarismo. Non credo
che siano davvero così diverse da come erano negli anni 50 del secolo scorso.
La
CGIL invece è in una terra di nessuno, non ha certo recuperato antiche
identità, anzi le rifiuta, e non ne ha di nuove. Come una volta ammise Susanna
Camusso, è proprio questa l'organizzazione oggi più confusa ed incerta sulle
sue basi culturali.
Quindi
la crisi attuale del sindacato italiano è prima di tutto quella della CGIL,
della sua cultura , delle sue pratiche, dei suoi gruppi dirigenti.
Non
era scontato, non era tutto scritto nel declino della centralità dell'operaio
fordista. La tendenza tutta nostra di spiegare e alla fine giustificare
sociologicamente i disastri di questi anni è parte del problema, non della
soluzione. Non che la realtà non cambi profondamente, come è ovvio, ma proprio
per questo i limiti dell'azione soggettiva diventano ancora più importanti. È
sicuramente più facile fare buon sindacato quando esiste in larghi strati del
mondo del lavoro la spinta rivendicativa e all'azione diretta. Più difficile è
quando tutte le condizioni economiche e sociali diventano sfavorevoli, e tutto
il mondo del lavoro subisce il ricatto della disoccupazione di massa.
Questa
è la condizione attuale e i gruppi dirigenti che giustificano se stessi con la
passività diffusa in realtà si autoaccusano. È proprio nelle difficoltà che si
costruiscono le condizioni della ripresa della iniziativa. Lo fece la CGIL
negli anni 50 e 60 del secolo scorso, non è assolutamente in grado di farlo la
CGIL di oggi.
Non
siamo ingenerosi. È chiaro che alla CGIL è venuto meno il retroterra politico e
culturale delle grandi organizzazioni politiche della sinistra. Non c'è più il
Partito Comunista e il Partito Democratico, che pure ne è formalmente ancora
l'erede e da questa eredità riceve ancora un bel premio elettorale, non è
neppure un classico partito socialdemocratico. L'alternanza politica
ventennale tra berlusconismo e liberismo
temperato, ha totalmente devastato nella cultura popolare il senso comune del
movimento operaio, e non a caso il primo partito operaio in vaste zone del nord
è stato una volta la Lega e ora il movimento 5 stelle.
Non
si deve essere ingenerosi, ma resta il fatto che i gruppi dirigenti che si sono
succeduti alla guida della organizzazione in questi anni hanno progressivamente
rinunciato a costruire una identità indipendente della CGIL. Certo hanno
vissuto e manifestato nel rosso delle bandiere e nel ricorso alla iconografia
classica del movimento operaio. A volte hanno persino accentuato questi tratti
di immagine, ma sempre di più è stata una immagine che copriva una realtà ben
diversa.
Accettando
o subendo la legge Fornero sulle pensioni e la messa in discussione
dell'articolo 18, il gruppo dirigente ha segato le basi di sostegno di tutta
l'organizzazione. Nel passato la CGIL aveva posto sempre dei limiti alla
propria disponibilità negoziale. Non aveva mai accettato riforme delle pensioni
senza accordo sindacale, e aveva portato milioni di persone in piazza per
difendere, con successo, l'articolo 18. Erano questi i tratti identitari della
CGIL che, pure nel pieno di una grande ritirata contrattuale, ne definivano
ancora un ruolo sociale e politico nel paese. A partire dal governo Monti
questo ruolo è venuto meno e la CGIL ha rinunciato ad esso senza lottare.
La
FIOM di Maurizio Landini in questi anni ha rappresentato una sorta di altra
CGIL, anzi ha finito per occupare nel sentimento
collettivo lo spazio una volta occupato dalla confederazione.
Il
no al diktat della Fiat a Pomigliano ha raccolto un consenso senza precedenti
per una vertenza di fabbrica. Segno che il conflitto capitale lavoro conserva
una sua centralità politica e culturale anche nella società di oggi.
Dal
no della FIOM alla Fiat sarebbe potuto partire un processo di ricostruzione,
pure scontandone le difficoltà ed i costi. Ma questo non è avvenuto, il gruppo
dirigente della CGIL ha subìto come un problema le posizioni della FIOM, e ha
persino registrato fastidio per il troppo consenso verso di esse. D'altra parte
il gruppo dirigente della FIOM ha scelto
di non consolidare in un percorso alternativo il consenso ricevuto, si è così
trovato progressivamente isolato in CGIL e alla fine ha persino tentato un
accordo con il gruppo dirigente confederale, accordo che è poi saltato con
l'accordo del 10 gennaio 2014. E questa intesa ha un significato e una portata
costituente per il sistema delle relazioni sindacali e per la stessa CGIL .
Va
detto che i contenuti di fondo di quella intesa erano già definiti nell'accordo
del 28 giugno 2011 e in quello del 31 maggio 2013, il primo contrastato, il
secondo accettato dal gruppo dirigente della FIOM.
Con
il Testo Unico sulla rappresentanza si formalizza un modello di relazioni sindacali incompatibile con la
storia e la natura passate della CGIL.
Il
contratto nazionale viene sottoposto al
regime delle deroghe a livello aziendale, nella sostanza da livello minimo diventa il massimo possibile per
milioni di lavoratori. Il sistema delle relazioni si polarizza tra un centro
confederale che diventa la fonte di ogni diritto, e il luogo di lavoro ove si
formalizza la complicità con l'impresa. Il dissenso non è ammesso a nessun
livello, chi non accetta il sistema è fuori dalla rappresentanza. E chi lo
accetta deve subire il principio della dittatura della maggioranza che è sempre
inaccettabile, ma nelle relazioni sociali è una mostruosità.
La
FIOM e tutto il sistema dei contratti nazionali vengono messi in discussione
nelle loro basi fondative: il
sindacalismo industriale. Il nuovo modello si fonda sulla complicità aziendale
che , come scriveva nel suo libro bianco l'allora ministro Sacconi, deve
sostituire la concertazione. La differenza è rilevante.
Nella
concertazione le parti in campo sono tre. Il governo il sistema delle imprese, le
grandi organizzazioni sindacali. È chiaro che questo sistema è
compatibilista per sua natura, ma le tre
parti conservano una propria autonomia e giungono ad accordi partendo dai
rispettivi punti di vista.
Il
nuovo sistema invece prevede la corporativizzazione preventiva degli interessi.
Il linguaggio politico ha già registrato il cambiamento con la diffusione del
termine "Parti Sociali". Che racchiude assieme sindacati ed imprese,
che prima definiscono tra loro gli interessi comuni, poi assieme li pongono al
governo e al sistema politico.
Renzi
può facilmente vantarsi di non dipendere più dalla concertazione, perché essa è
già stata abbandonata dai suoi attori principali e in primo luogo dalla
CGIL.
Le
parti sociali non sono più in conflitto, ma complici fra loro nel nome della
competitività del sistema. La segretaria generale della CGIL e il presidente
della Confindustria assieme hanno sfiduciato l'incolore governo Letta e assieme
hanno presentato una piattaforma sul fisco. In impresa si accordano sulla
flessibilità, poi i produttori vincolati dal patto comune assieme si rivolgono al governo. Il sistema
non è più triangolare, ma bilaterale, imprese e sindacati da un lato, governo e
politica dall'altro.
La
CGIL di fronte alla crisi del proprio ruolo e potere aveva di fronte a sé due
strade. La prima era quella di uscire da sinistra dal sistema concertativo,
facendo propria la scelta di rottura della FIOM a Pomigliano. L'altra era
quella di accettare il sistema della complicità, di uscire dalla concertazione
da destra.
Hanno
ovviamente prevalso l'istinto di autoconservazione dei grandi apparati e la paura
del vuoto, alimentati da tutta la pratica della concertazione di un
ventennio. E così la CGIL ha finito per
sottomettersi ad un modello che corrisponde perfettamente alle elaborazioni
della CISL degli anni 50.
Il
testo unico formalizza in CGIL una mutazione genetica e organizzativa di fondo
che, come sempre avviene in questi passaggi, verrà sdegnosamente negata fino a
che non potrà dispiegare tutti i suoi effetti.
La
sostanza è dunque che la particolarità sindacale italiana finisce in una
normalizzazione simile a quella che si è verificata nel sistema politico.
Nei
vecchi contratti dei metalmeccanici la Federmeccanica soleva pretendere
all'inizio della trattativa la definizione del "perimetro" entro il
quale essa poteva svolgersi. Naturalmente questo perimetro corrispondeva
esattamente agli interessi delle imprese e un contratto decente si
sottoscriveva dopo che il conflitto era riuscito ad infrangerlo.
Oggi
il perimetro sociale e politico viene definito preventivamente da sistemi che
si pongono l'obiettivo di escludere ogni legittimità al conflitto. Ecco, dentro
questo perimetro la CGIL con tutte le sue ambiguità e contraddizioni non è
ammessa, deve emendarsi, come già fece la CISL venti anni fa, da ogni
anima radicale e conflittuale.
La
omologazione della CGIL a CISL e UIL
pone una questione di fondo a tutte e tutti coloro che rifiutano la
normalizzazione sociale.
Si
deve dare per scontata la perdita del campo dei grandi conflitti, e rifugiarsi
nel particolare delle realtà locali, oppure bisogna operare per la
ricostruzione di un fronte generale di lotta? È la stessa questione che
percorre l'arcipelago della sinistra e dei movimenti radicali. Ci si deve
rassegnare ad un sindacalismo conflittuale a chilometro zero, senza ambizioni
di dimensione più vasta, così come questa tentazione percorre la sinistra
politica dopo le tante sconfitte?
Credo
che si debba provare ad essere più ambiziosi per tre ragioni di fondo.
Perché
la pratica conflittuale diffusa ha bisogno di progetti e strumenti unificanti,
come hanno sempre insegnato tutti i percorsi di ricostruzione.
Perché
il sistema che emerge dalla crisi è
fondato su una catena di comando che parte dal locale e giunge rapidamente ai
vincoli europei, ai diktat di banche, finanza, tecnocrazia.
Perché
anche la più semplice ed immediata delle lotte ha oggi bisogno, per reggere, di
un punto di vista generale che le dia maturità e forza.
La
scomparsa del ruolo politico storico della CGIL, venti anni dopo quella del
PCI, ripropone quindi la questione dello spazio che quel ruolo ricopriva.
Il
sindacalismo di base, pure promotore di conflitti generosi ed importanti, ha
mostrato di non avere la forza, anche per le sue divisioni, di coprire quello
spazio.
La
sinistra CGIL in tutte le sue anime e il gruppo dirigente della FIOM hanno
visto chiudersi progressivamente gli spazi di condizionamento interno delle
politiche della confederazione, e il congresso ha sanzionato questa involuzione.
I
movimenti sociali hanno mostrato grande capacità di mobilitazione, come hanno
mostrato le giornate del 18 e 19 ottobre 2013, ma rischiano di rifluire ed
esaurirsi verso passate esperienze, se non riescono a collegarsi al conflitto
di lavoro più tradizionale.
Nessuna
delle forze e delle componenti del
conflitto sociale è oggi in grado di essere o proporre una prospettiva
autosufficiente.
Ma
forse è proprio da questa consapevolezza
tutta politica che bisogna ripartire qui ed ora, per costruire le
condizioni e le forze per infrangere il perimetro che si sta costruendo.
da Alternative per il Socialismo, maggio/giugno 2014, n.31