Intervista a Vittorio Rieser (3 Ottobre 2001)
In ricordo di Vittorio Rieser
riprendiamo l’intervista raccolta anche nel suo saggio “L'inchiesta nella
fabbrica e nella società” pubblicato nel volume curato da Enrico Pugliese “L'inchiesta
sociale in Italia” (Carocci, Roma 2008). «L’inchiesta non è uno dei
possibili metodi di analisi sociologica. La sua caratteristica principale
consiste nel particolare modo di porsi nei confronti del tema della ricerca e
dei soggetti sociali che ne sono coinvolti. Essi non rappresentano “l’oggetto
di ricerca” ma le persone, i lavoratori, gli operai dei quali si vuole
conoscere gli orientamenti, le convinzioni e i bisogni per produrre insieme a
loro rivendicazioni sindacali, politiche e sociali. Questo metodo sarà seguito
da Vittorio nel corso di tutta la sua esistenza nei diversi ambiti politici e
istituzionali nei quali si troverà a lavorare» (Enrico Pugliese)
Qual
è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e quali le eventuali
figure di riferimento nell’ambito di tale percorso?
Il
fatto di essere arrivato presto alla politica è legato anche alle mie origini
famigliari: i miei genitori erano antifascisti, tutti e due hanno avuto periodi
più o meno lunghi di militanza comunista. Mia madre è stata in carcere un anno,
condannata dal Tribunale Speciale perché era responsabile del Partito Comunista
clandestino a Grosseto; mio padre era un ebreo polacco comunista che ha fatto
per alcuni anni il rivoluzionario di professione, poi si è rifugiato in Italia
perché in Polonia era colpito da mandato di cattura. Qui non era noto in quanto
comunista e il fatto di essere ebreo prima delle leggi razziali non era un
problema, per cui è venuto in Italia e poi ci è rimasto. Tutti e due
antistalinisti, mia madre è uscita nel ’30 dal Partito Comunista ed è entrata
in Giustizia e Libertà, mio padre ci è rimasto ed entrambi, un anno o due dopo
la Liberazione, hanno smesso di fare politica. Quindi, questo è il clima di
partenza, per cui era abbastanza inevitabile il mio precoce interessamento
politico. L’altro elemento è costituito dalla situazione torinese, dalla
repressione antioperaia alla Fiat: al di là delle cose politiche solite che uno
fa, nella propria scuola, nei circoli di istituto ecc., per me impegnarmi in
politica fin dall’inizio è stato occuparmi della questione operaia. A Torino,
per esempio, c’è stata la prima manifestazione studentesca su questi temi nel
’57, poi nel ’59 ci fu una grossa partecipazione degli studenti ai picchetti
per lo sciopero contrattuale. Inizialmente la mia formazione ha riguardato il
tentativo di organizzare gruppi abbastanza consistenti di studenti sulla
questione operaia, da lì il rapporto con il sindacato e quindi l’impegno anche
nel lavoro di lega, la FIOM. Si tenga conto che il sindacato torinese già
allora e poi per molto tempo (adesso non più) era molto avanzato: è quello che
dopo la sconfitta alla Fiat e la svolta della CGIL ha tentato in modo più
innovativo di ricostruire un rapporto con la classe operaia. Quindi, nel
periodo dal ’57 al ’61 l’impegno era questo, al di là poi delle forme di
militanza politica, perché inizialmente sono stato nel gruppo di Valdo Magnani,
i comunisti titoisti; con esso sono entrato nel PSI, lì ho conosciuto Panzieri,
prima semplicemente perché eravamo diffusori di Mondo Operaio nel
periodo in cui è stato diretto da Raniero, poi questi è arrivato a Torino. In
quel periodo si è formato un gruppo di studenti che svolgeva un lavoro di
autoformazione politica che aveva come interlocutori principali da un lato i
sindacalisti, da Garavini a Pugno, che venivano a spiegarci la fabbrica, la
struttura contrattuale e via dicendo, e dall’altra invece politici studiosi
prevalentemente anarchici, di ispirazione libertaria o comunista eretica. A
Torino, infatti, c’erano alcuni anarchici (che ora sono quasi tutti morti) e
poi venivano a tenerci delle relazioni Pier Carlo Masini, Luciano Raimondi,
Giorgio Galli, che allora facevano una rivista che mi sembra si chiamasse Sinistra
Comunista, una fronda da sinistra del PCI, il che era una cosa abbastanza
rara all’epoca; c’era anche Cervetto in questo gruppo, il quale poi ha preso un
altro filone. Quindi, avevo una formazione abbastanza eterodossa rispetto alle
linee dominanti del Movimento Operaio, ma anche eterodossa rispetto ad una
formazione marxiana. Io Marx l’ho conosciuto attraverso Panzieri, allora noi
andavamo direttamente a queste varie fonti antistaliniste del movimento operaio
ma senza avere una base teorica marxiana.
Panzieri
è arrivato a Torino nel ’59 e, avendo già avuto prima contatti con lui, abbiamo
subito cominciato a lavorare insieme. Nel frattempo qui c’era questo lavoro
studenti-operai, a Milano invece abbiamo conosciuto Alquati, Gasparotto e gli
altri; Panzieri aveva una serie di legami con intellettuali come Tronti e Asor
Rosa già dall’epoca di Mondo Operaio. Tutto questo poi quaglia nel
’60 attorno a due cose: una è il progetto di una rivista, cioè Quaderni
Rossi, che poi si realizzerà l’anno dopo; dall’altra parte c’è l’inchiesta
alla Fiat, che inizia nell’estate ’60. Lì l’influenza di Panzieri è stata
determinante, nel senso che noi lavoravamo in quel momento con il sindacato non
sulla Fiat ma in altre fabbriche torinesi, sostanzialmente quelle dove c’erano
già delle lotte, e dicevamo "continuiamo a fare il lavoro su queste cose,
alla Fiat come si fa?". Panzieri, invece, diceva: "no, dobbiamo
affrontare la questione e il nodo della Fiat, e l’unico modo per farlo è lo
strumento dell’inchiesta". Quindi, a quel punto sull’inchiesta alla Fiat
si coagularono tutti. Alquati e Gasparotto vengono qui, quindi il nucleo
torinese dei Quaderni Rossi è nato sostanzialmente attraverso
questo lavoro. All’inizio si è trattato di un lavoro fatto in collaborazione
con il sindacato, anche con il PSI torinese che aveva una federazione di
sinistra: fummo attivi alla Fiat ma anche alla Olivetti. Tanto è vero che il
primo numero dei Quaderni Rossi ha una larga collaborazione di
sindacalisti, a partire da Vittorio Foa che è una figura che prima avevo
dimenticato di citare: si trattava di uno degli interlocutori principali, che
era comune sia al gruppo torinese (perché lui aveva radici torinesi, in
particolare io lo conoscevo personalmente fin da quando era uscito dal
carcere), sia romane (perché Panzieri aveva ovviamente molti rapporti con lui).
Quindi, sul primo numero metà degli articoli sono fatti da sindacalisti. Nel
frattempo, però, quando è uscito il primo numero c’era appena stata la rottura
con il sindacato a Torino, che probabilmente dal lato sindacale obbediva anche
alla classica logica staliniana, per cui siccome il sindacato di Torino era
sotto processo in quanto troppo di sinistra, doveva compiere un atto riparatore
di rottura; dall’altra parte, era secondo me un nostro errore di infantilismo.
L’episodio su cui nacque la rottura si riferiva ad uno sciopero d’estate alla
manutenzione delle Ferriere Fiat, che venivano seguite da Gasparotto e Gobbi:
ci fu un primo volantino che si decise di fare non come FIOM, anche se si era
lì con loro, ma come gruppo di operai, invitando gli operai a organizzarsi. Fin
qui la cosa non ebbe conseguenze, visto che poi il volantino fu avallato
dall’unico funzionario FIOM presente. Un secondo volantino venne fatto dicendo:
"bisogna organizzarsi autonomamente fuori dai sindacati", fu
ciclostilato clandestinamente in FIOM e distribuito da noi. Su questo,
ovviamente, ci fu la rottura, aggravata dal fatto che noi introducemmo come
base per l’incontro chiarificatore con il sindacato un documento in cui
dicevamo che, siccome i partiti di sinistra erano opportunisti, il sindacato
doveva farsi carico dei compiti politici e doveva essere l’embrione
dell’organizzazione rivoluzionaria della classe operaia. Questo, secondo me,
era una forma di anarcosindacalismo infantile. A quel punto ci fu la rottura,
nell’autunno del ’61. Per combinazione il numero di Quaderni Rossi,
che era pronto da mesi, per ragioni di lentezza tipografica uscì proprio subito
dopo questa rottura, per cui si creò una situazione per i sindacalisti molto
imbarazzante. Ci fu un’intera pagina de l’Unità con un
articolo di Garavini che polemizzava con i Quaderni Rossi: il povero
Garavini era preso in una tenaglia nella logica staliniana, in cui se avesse
parlato dei Quaderni Rossi la gente sarebbe andata a comprarli
e avrebbe detto "ma tu hai collaborato". Quindi, c’era questo
misterioso articolo molto duro, che però non nominava il nemico. La storia dei Quaderni
Rossi la si conosce, è inutile raccontare cose che si sono già sentite
da altri.
Quali
sono stati, secondo te, i limiti e le ricchezze dell’esperienza dei Quaderni
Rossi?
Ovviamente
quella che faccio è una selezione molto soggettiva. Le ricchezze sono state
tre. Innanzitutto un elemento teorico, cioè un ritorno a Marx non attraverso i
vari marxismi più o meno dogmatici, ma un attingere direttamente a Marx come
strumento molto più attuale per l’analisi del capitalismo di allora che non la
vulgata del marxismo che si era tramandata nei partiti comunisti. In questo
Panzieri è stato decisivo, i suoi articoli esprimevano questa cosa. Legato a
ciò, c’era un’analisi del capitalismo come formazione dinamica: teniamo conto
che allora nel Movimento Operaio era ancora presente, anche se non più in modo
esclusivo, la visione del capitalismo italiano straccione, arretrato. Già a
quel tempo, però, ciò si scontrava con altre posizioni, soprattutto nel
sindacato ma non solo. Nello schema vecchio del PCI c’era il fatto che la lotta
di classe è prodotta dalle arretratezze del capitalismo, mentre noi dicevamo
che la lotta di classe può e deve essere prodotta proprio ai livelli più
avanzati. Quindi, terzo elemento, c’era il rifiuto dello schema
dell’integrazione della classe operaia, cioè che "è là dove il capitalismo
è più avanzato che la classe operaia si integra": su questo non ci siamo
mai cascati. La lettura di Marx era una peculiarità dei Quaderni Rossi,
questi altri aspetti erano condivisi da pezzi consistenti di Movimento Operaio.
L’idea che la classe operaia alla Fiat non fosse integrata era un’ipotesi di
lavoro di tutto il sindacato torinese: tuttavia, il fatto di aver tradotto
questo in lavoro di inchiesta era importante. Fu uno dei casi in cui
l’inchiesta non si è limitata a confermare ipotesi già date; da essa, in
anticipo sull’esplodere delle lotte alla Fiat, venne fuori che la tensione e il
livello di conflittualità latente era enorme. Tra l’altro confrontammo ciò
anche con situazioni come l’Olivetti, dove c’era lo stesso una conflittualità
ma che fin da allora aveva un’espressione sindacale e quindi era più
"normale".
I
limiti. Intanto, in questa stessa impostazione c’era un primo limite: proprio
in polemica contro le visioni tutte arretrate del capitalismo, noi tendevamo a
prendere per buone le formulazioni più avanzate dal lato capitalistico
borghese, ritenendole reali e non contando sul loro aspetto e sulla loro
dimensione ideologica. Che fossero ideologiche nel senso dell’essere fatte per
ingabbiare la classe operaia era chiaro, ma le abbiamo spesso prese per
espressioni di un programma concreto quando invece non lo erano. Io ero un
chiosatore di Carli, Mario Tronti era un chiosatore di Moro, e l’uno come
l’altro prendevamo questi come ideologia che però rivelava una tendenza, ma tra
l’ideologia e la tendenza reale c’era un vasto spazio in cui poi giocavano
mille contraddizioni interne. Quindi, per noi il capitalismo italiano era
quello che Aldo Moro, Pasquale Saraceno, Guido Carli indicavano, mentre la cosa
era un po’ più complicata. Poi c’era una contraddizione che probabilmente non
poteva essere risolta: la forza culturale e teorica dei Quaderni Rossi nasceva
proprio dal fatto di non essere un semplice gruppo di intellettuali ma di
essere fortemente legato a una pratica politica; nel momento in cui c’è stata
la rottura con il sindacato si doveva autorganizzare come gruppo politico, ma
c’era una sproporzione enorme tra la tematica che noi affrontavamo e l’esiguità
della nostra pratica politica. Quindi, da allora in poi ci si è mossi
affrontando grandi temi e attingendo a una pratica politica nostra che era
limitata: serviva quel tanto ad evitare che facessimo gli intellettuali di
sinistra nel senso deteriore, ma provocava anche dei grossi abbagli. I nostri
riferimenti operai poi divennero più importanti nel caso di Porto Marghera,
però lì il rapporto con i Quaderni Rossi fu molto breve,
perché poi ci fu la rottura del ’63. A Torino, dopo la rottura con il
sindacato, avevamo sì contatti operai: c’era, per esempio, un operaio molto
bravo che veniva scherzosamente definito il nostro "operaio
collettivo". Poi cercavamo di avere altri elementi, ma non era facile.
Inchiesta
e conricerca: quali sono, secondo te, le differenze e le analogie, le ricchezze
e i limiti dell’una e dell’altra?
Ci
furono delle dispute tremende fin dall’inizio su questo. In un seminario a
Meina (a cui tra l’altro Panzieri non venne perché era fuori dall’Italia) ci fu
uno scontro tra quelle che venivano chiamate l’inchiesta dall’alto e
l’inchiesta dal basso, che era sostenuta da Romano e da altri. In realtà,
secondo me anche quella era una disputa abbastanza astratta, tra due metodi
sociologici. La conricerca è il metodo fondamentale, ma vuol dire disporre di
una forza organizzata, va bene se la fai con degli operai che stai organizzando
o che sono organizzati e quindi si lega strettamente a una pratica di lotta;
noi non eravamo in condizioni di fare questo, tanto meno quando poi eravamo da
soli, ma anche il sindacato era in una fase in cui alla Fiat non era in grado
di organizzare la lotta. Fra l’altro, noi giustamente (e questa è stata una
scelta comune) abbiamo fatto l’inchiesta non solo con i pochi operai legati
alla FIOM, ma attraverso canali vari si trattava di raggiungere operai
ordinari: con quelli non potevi fare conricerca perché non avevi un progetto
comune. Eravamo in una situazione in cui poi di fatto venne adottato un metodo
di ricerca tradizionale, il che non significa che quello sia il metodo
migliore. È per questo che dico che la
disputa era astratta, perché quando hai la possibilità di fare conricerca è
chiaro che è questo il metodo migliore, però se sei all’esterno di una situazione
e l’inchiesta è il primo strumento di presa di conoscenza di quella realtà
ovviamente devi ricorrere a metodi tradizionali, non nel senso di fare
questionari quantitativi (quando puoi farli vanno bene anche quelli), ma devi
usare con il dovuto senso critico dei metodi tradizionali di ricerca. Allora,
anche grazie a Panzieri, eravamo frequentati e potevamo attingere a sociologi e
studiosi importanti, da Pizzorno a Momigliano a Gallino, che venivano ai nostri
seminari. Devo dire che un elemento risolutore fu Gallino, il quale di fronte
alle nostre dispute elaborò un’esemplare analisi marxista della situazione di
classe e di tutto il resto, e in qualche modo ci fece fare un salto in avanti.
Adesso Gallino è un po’ ritornato a questo, il suo percorso è stato vario, le
ultime cose sono di nuovo di quel tipo.
Da
come tu affronti il problema dell’inchiesta e della conricerca emerge il nodo
di che soggettività ci si trova. Come avete affrontato in quel periodo la
questione della soggettività all’interno del gruppo dei Quaderni Rossi e in una
dimensione più ampia di settori di classe? C’è infatti un grosso interrogativo:
è stato posto il problema della soggettività all’interno di questo progetto
politico oppure no?
È
stato posto, però qui vanno proprio
distinte due fasi. Inizialmente è stato affrontato in modo sostanzialmente
unitario, tenendo conto che in tutto questo periodo, almeno fino al ’62, noi ci
misuravamo con la Fiat, non ancora con la situazione di classe complessiva.
Nella fase prima dell’esplodere delle lotte alla Fiat c’era una soggettività
perlomeno conflittuale della classe operaia, verificavamo su cosa si sviluppava
e quali erano gli ostacoli alla sua traduzione in lotta. Quindi, questo era il
livello di allora, e sin qui la cosa ha funzionato. Il problema è diventato
molto più avanzato quando, già prima del ’62, ma soprattutto in quell’anno sono
esplose le lotte, anche alla Fiat, e comunque la lotta di classe ha raggiunto
livelli alti pure nel resto d’Italia, dove non era una novità. Dunque, a quel
punto c’era il problema se affrontare il tema della soggettività sul piano di
classe complessivo, che rapporto c’era con la strategia politica ecc.: lì noi
non siamo stati all’altezza. Da un lato, quelli che poi hanno dato vita a Classe
Operaia secondo me hanno dedotto idealisticamente una soggettività
della classe operaia anticapitalistica, che andasse al di là del piano del
capitale, che non aveva fondamenti reali, portava direttamente sul piano
ideologico. Quelli come me che in questo non credevano, a quel punto si
riducevano però a fare le pulci al sindacato, cioè a partire da quello che era
il dato di fatto delle lotte sindacali e a fare una continua critica da
sinistra a queste lotte sostenendo che la soggettività della classe operaia
avrebbe richiesto una strategia più avanzata e più adeguata. Panzieri scomparve
troppo presto perché, secondo me, lui avrebbe avuto una capacità di sintesi. La
rottura con i compagni che poi hanno dato vita a Classe Operaia l’ha
decisa lui, pur essendo stato quello che li conosceva meglio ed era loro più
vicino: quindi, respingeva radicalmente quelle posizioni, considerava la
visione di Tronti idealistica, più alla Bruno Bauer che alla Karl Marx. Però,
Panzieri forse avrebbe avuto una capacità di sintesi. Di fatto, poi a quel
punto queste due anime si sono mosse su terreni molto diversi: noi abbiamo
continuato a fare le pulci al sindacato, a organizzare gruppi di sinistra di
lavoratori, per esempio all’Olivetti, che facevano una battaglia nel sindacato,
mentre Classe Operaia sapete meglio di quanto possa dire io
che percorso ha seguito.
C’è
un interrogativo che si pone sul nodo tra soggettività e progetto. O la
soggettività viene intesa come qualcosa di dato, che c’è e quindi come tale
mette in campo una sua caratterizzazione, una sua forza, una sua capacità di
essere contro, e può essere un’ipotesi; oppure l’altra potrebbe essere che
comunque la soggettività ha una sua dimensione di formazione e di sviluppo
all’interno di un percorso. In quest’ultimo caso, come la categoria del
progetto entra in rapporto con la questione della soggettività?
Su
questo io do una risposta adesso, ma non so dire allora. Torno ai miei
itinerari formativi: rispetto ai grandi pensatori e leader politici del
marxismo, io ho cominciato con Marx attraverso Panzieri, poi sono arrivato a
Mao dopo, quando Raniero era già morto, diciamo all’epoca delle rivoluzione
culturale, e da lì sono giunto anche a Lenin. Quindi, la risposta che do è di
tipo maoista: la soggettività deve essere molto reale, non è qualcosa di
costruito dall’avanguardia, dal partito. La soggettività nasce dalle
contraddizioni di classe e però molto spesso è disorganica, contraddittoria,
che esprime una spinta o rivoluzionaria o comunque di trasformazione: il
compito del partito è di tradurla in progetto, cioè di sistematizzare gli
elementi e di riproporla a livello di massa. Secondo me, dal punto di vista
teorico l’impostazione maoista resta l’unica valida, perché in Lenin c’è
un’accentuazione kautskiana molto forte sul ruolo dell’avanguardia, mentre la
risposta di Mao è la più realistica.
Nello
specifico della situazione italiana, ma anche più in generale nella tradizione
comunista (forse con qualche diversità proprio per la dimensione maoista), il
procedere dei percorsi dà sempre luogo a dei gruppi (siano essi piccoli o
grandi), in cui poi il rapporto dialettico e di crescita nella critica e nel
confronto tra posizioni non convergenti dà luogo a fratture. Ad esempio, in
Italia ciò è stato un grande handicap per le possibilità di sviluppo di un
progetto politico: se si guarda alla storia dagli anni ’50 in poi le dimensioni
di certi tipi di proposta di trasformazione o rivoluzionaria sono sempre
attraversati da storie di frantumazione in gruppi che però, mentre si
frammentano, sicuramente motivati da differenze teoriche e di percorsi, in realtà
abbandonano quello che è uno dei problemi grossi, ossia il come si accumula una
forza per avere un progetto che sia in grado di contare. Forse Mao ha, almeno
in parte, avuto la capacità di rompere e poi riutilizzare in una sintesi
diversa. Mentre il progetto dei capitalisti riesce comunque a utilizzare le
proprie differenze per poi arrivare ad una sintesi che lo porta in avanti in
termini di progetto, come mai, secondo te, da parte di chi cerca di costruire
delle alternative a questo sistema non c’è mai stata la capacità di utilizzare
le differenze nella visione di una sintesi progettuale?
C’è
comunque il fatto che la situazione è disuguale perché il capitalismo ha il
potere, che deve conservare e gestire, e questo è un poderoso fattore di
sintesi: ovviamente quando tu sei fuori e lotti contro non hai questo elemento.
Dopo di che ci sono dei fattori poltico-culturali: nel Partito Comunista ha
pesato una logica staliniana ma prima ancora leninista, cioè una logica di
rottura e di settarismo, non nel senso solo spicciolo ma proprio teorico.
Mentre nei paesi a dominanza socialdemocratica i gruppi di estrema sinistra
spesso avevano caratteristiche leniniste o addirittura staliniste, in Italia,
essendoci un grosso partito comunista, pochi gruppetti hanno avuto caratteristiche
staliniste o anche solo leniniste ortodosse. Lì, però, secondo me c’era il
fatto che i gruppetti erano comunque dominati da intellettuali di sinistra, nei
quali la logica della rottura era basata non tanto su uno schema teorico rigido
e settario, quanto sull’amore per le proprie idee, quindi sul litigio. Il
radicamento di classe che comunque era limitato più la tendenza degli
intellettuali a litigare, a essere pronti a sacrificare l’organizzazione per
difendere una propria idea, faceva sì che non ci fosse un senso di
responsabilità verso la classe, perché non si aveva un rapporto così forte da
essere richiamati a questo. In più c’era il fatto che si era in una dimensione
di ricerca. Il tema che ha percorso la storia dei Quaderni Rossi ma
anche dopo era: quali possono essere le vie di una rivoluzione nei paesi di
capitalismo avanzato. Quindi, si era in una dimensione di ricerca, non si aveva
qualche cosa di consolidato da difendere e su cui dire "a partire da
questo ci confrontiamo": invece, ogni ipotesi diversa di ricerca portava a
costruire la piccola organizzazione che la seguiva. Per quanto riguarda la
storia del Partito Comunista Cinese ciò può essere vero per la prima fase, ma
quando poi Mao riesce a vincere la dialettica interna non è più di tipo
staliniano. Prima gli avversari vengono in certi casi consegnati alla polizia
di Chiang Kai-shek o cose di questo tipo. Dopo di che il problema si ripresenta
dopo la presa del potere e Mao ha questa intuizione geniale che poi si
manifesta nella rivoluzione culturale, ossia il fatto che le contraddizioni
interne al partito vanno affrontate a livello di massa, traducendole fino al
livello della guerra civile, perché poi la rivoluzione culturale fu per certi
versi una guerra civile. Da un lato era un’intuizione geniale, però alla fine è
stata sconfitta. Quindi, sul come affrontare questo tema in condizioni di
dittatura del proletariato probabilmente non c’è risposta possibile. Mao ci
provò, e questo significava quindi una lotta insieme molto più dura però con
una logica non burocratica: non era un processo, magari di eliminazione fisica
sì ma non ad opera dello Stato, quindi emergevano momenti di lotta armata
all’interno proprio nella società. Ciò è certamente diverso da qualsiasi altra
cosa, purtroppo poi non ha però funzionato neanche questo.
Hai
già citato alcune figure particolarmente importanti nei tuoi percorsi
formativi: complessivamente, quali sono i tuoi numi tutelari?
Di
fatto ho citato Panzieri, Marx, Mao e Lenin. Probabilmente ce ne sono tante
altre, ma è una cosa a cui non ho mai pensato. Le altre sono figure che hanno
inciso sotto aspetti diversi: visto che bene o male io come mestiere ho fatto
il sociologo, ci sono una serie di autori di riferimento che, anche se
indirettamente, poi incidono pure sull’azione politica, nel senso che provi a
fare pezzi di analisi della società o pezzi di inchiesta, però non c’entrano,
sono su un altro livello. Per esempio, Max Weber è un riferimento importante,
con implicazioni anche politiche: le cose che lui diceva sulla nascente Unione
Sovietica erano profetiche e offrono strumenti per una lettura critica della
società sovietica non di tipo anticomunista. Io poi, anche per ragioni
pratiche, sono un intellettuale molto ignorante, per cui non ho letto mica tanto:
però, qualche volta uno ha degli autori particolari, tipo appunto Weber o
Herbert Simon (che è morto l’anno scorso), quindi due o tre riferimenti
all’interno di quella che si può chiamare la scienza sociale borghese. Marx
distingueva l’economia borghese, cioè Ricardo, dall’economia volgare: anche
Panzieri, nell’ultima cosa che fece, un seminario nel ’64, distinse tra la
scienza sociale borghese, con elementi di verità importanti, e poi buona parte
della letteratura sociologica che è di tipo volgare.
Quali
sono stati i tuoi percorsi successivi alla fine dell’esperienza dei Quaderni
Rossi?
Intanto
c’è stata una tappa intermedia importante, nel senso che dopo la scissione di Classe
Operaia, la morte di Panzieri, ci fu una fase complicata e confusa che coincideva
anche con un momento di riflusso delle lotte, nel ’64-’65 c’era la recessione.
Se vogliamo, però, fu una fase di allargamento di Quaderni Rossi,
per cui c’era il rapporto con Sofri, con Cazzaniga, con Mimmo Bianchi (leader
delle organizzazioni autonome dei ferrovieri romani) ecc. C’era, quindi, un
processo di crescita organizzativa, ma secondo me non c’era un’elaborazione
strategica oppure ciascuno aveva la sua, tanto è vero che Sofri, Cazzaniga e
Bianchi nel ’66 hanno fatto un documento che diceva: "dobbiamo costruire
il partito rivoluzionario". Noi torinesi (i Lanzardo, io ecc.) non ci
credevamo, e quindi si ebbe una nuova rottura. Tra l’altro, il ’66 è anche
l’anno dell’ultimo numero di Quaderni Rossi. Nel ’67 c’è stata a
Torino un’esperienza importante, cioè il giornale La Voce Operaia.
Alla Fiat la grande esplosione di lotta non si era tradotta in organizzazione
all’interno della fabbrica, quindi c’era stato un passo indietro, non un
ritorno alla situazione precedente: gli scioperi contrattuali del ’66 alla Fiat
hanno avuto esiti alterni, con anche momenti di riuscita. In questa situazione Quaderni
Rossi (che esistevano ancora come gruppo, anche se la rivista non
usciva e non sarebbe più uscita) costruirono questo giornale operaio: lì c’era
una spinta se vogliamo di operaismo, ma secondo me saggio. Era scritto
interamente da operai, nel senso che alcuni scrivevano gli articoli, in molti
altri casi si parlava con uno e si tirava fuori testualmente quello che aveva
detto: era un giornale di informazione e denuncia sulle varie forme di
sfruttamento in fabbrica. Riuscimmo anche ad organizzare una lotta in forme che
poi sarebbero diventate normali: avevano accelerato la velocità della linea, si
doveva fare 3 o 4 vetture in più, gli operai si fermarono al numero di vetture
precedenti, mentre il compagno che la organizzò fu spostato per rappresaglia.
Lì fu quindi un momento di ripresa effettiva di contatto con la situazione
operaia; i sindacalisti meno settari e più avanzati vi guardarono con
interesse.
Poi
è arrivato il movimento del ’68 e a quel punto i Quaderni Rossi furono
l’unico gruppo che si sciolse. Ciò non perché pensasse che il movimento avrebbe
risolto tutto, ma perché riteneva che si fosse aperta una nuova fase in cui per
i Quaderni Rossi come gruppo non avrebbe avuto senso mantenere
una continuità organizzativa. È una cosa
che altri gruppi non fecero, come ad esempio quello di Sofri: infatti, ci fu un
elemento di continuità che andava dal Potere Operaio pisano attraverso il
movimento e arrivava a Lotta Continua. A quel punto io lavoravo con il
movimento studentesco, anche se sempre con un occhio alle lotte operaie. Lì ci
sono esperienze come quella della Lega Studenti-Operai, su cui Liliana Lanzardo
credo che abbia pubblicato uno studio. Nel movimento studentesco c’era uno
scontro tra chi voleva proiettarsi sulle lotte operaie e chi no, per cui
all’inizio del ’69 davanti ai cancelli non c’era la corrente dominante del
movimento studentesco, la quale in qualche modo era collegata a Sofri, ma c’erano
dei frammenti residui di Quaderni Rossi e dei gruppi che
facevano riferimento a Classe Operaia che nel frattempo era
diventata La Classe, c’era ad esempio Mario Dalmaviva, più un po’
di gente che arrivava dal movimento studentesco di Medicina. Poi via via che le
lotte di reparto si estesero arrivarono un po’ tutti. Quindi, c’era la fase
dell’assemblea studenti-operai, la nascita della sigla Lotta Continua, che
inizialmente è nata non come sigla di un gruppo: mi ricordava Mario Dalmaviva
che, a quanto pare, l’abbiamo inventata io e lui perché ogni giorno si faceva
un volantino e, siccome le lotte si estendevano, una volta l’abbiamo titolato La
Lotta Continua, dunque era un titolo descrittivo che poi è rimasto. Sofri poi
si è impadronito di questo, ha rotto l’unità molto confusa dell’assemblea
studenti-operai, ha costruito il suo gruppo e a quel punto io non l’ho seguito
nel suo progetto. Successivamente siamo andati a Parigi da Thiennot, che aveva
dato vita al gruppo da cui sarebbe nato Servire il Popolo in Italia, che però
ne era la versione caricaturale, mentre quello era un gruppo maoista serio, con
cui io avevo avuto già rapporti. Un elemento che prima ho dimenticato è che, a
partire dalla questione della rivoluzione culturale, erano iniziati dei
rapporti con le Edizioni Oriente, che non costituivano un gruppo politico, ma
erano di fatto l’unico nucleo realmente maoista: mentre qui si avevano i vari
partiti leninisti (Linea Rossa, Linea Nera ecc.) di tipo dogmatico, questi
facevano una bellissima rivista, Vento dell’Est, in cui sceglievano
testi, traducendoli direttamente dal cinese, ed era uno strumento di
informazione ma anche di educazione politica. Quindi, c’era questo rapporto che
continuò fino alla fine dell’esperienza delle Edizioni Oriente. Attraverso loro
io ho avuto contatti con Thiennot e altri del suo gruppo. Quindi, quando ci
trovammo in quattro gatti, io e la mia compagna di allora andammo a chiedere
consiglio a Thiennot su cosa dovevamo fare, e lui ci disse che anche tre o
quattro persone possono essere una cellula comunista senza avere un partito.
Dunque, noi iniziammo a reintervenire alla Fiat, mi ricordo inizialmente con un
opuscoletto su cosa insegnava la rivoluzione culturale agli operai nella
situazione di qui. Eravamo chiamati il gruppo "leggete e fate
passare" perché non avevamo una firma. Dopo di che ci mettemmo insieme al
Collettivo Lenin e quindi nacque un gruppo abbastanza consistente che ebbe un
salto di qualità nel ’71 perché vi aderirono una serie di delegati di punta
della Fiat, in particolare delle carrozzerie, che erano critici verso la linea
sindacale ma non condividevano la linea avventurista di Lotta Continua, che
diceva "siamo tutti delegati"; questi invece erano delegati e ci
credevano, ma erano spesso in scontro con il sindacato. Da qui nacque
un’organizzazione che aveva in Fiat un ruolo che poi divenne crescente con il
declino di Lotta Continua. Nel ’73 confluimmo in Avanguardia Operaia, rispetto
a cui avevo inizialmente delle diffidenze per la loro matrice trotzkista, ma
non di tipo stalinista ovviamente: i trotzkisti li ho sempre frequentati, c’è
una storiella che dice che un trotzkista fa il partito, due trotzkisti fanno
l’internazionale, tre trotzkisti fanno la scissione! È una logica di questo tipo, dovuta anche al
loro tragico destino originario. Quindi, sono stato in Avanguardia Operaia fino
allo scioglimento nel ’77, quando poi nacque Democrazia Proletaria io vi ho
aderito formalmente ma mi sembrava un qualcosa di sopravvissuto. Per dovere di
cronaca, sono poi entrato nel PCI. Con il ’77 il mio impegno politico vero è
finito, dopo di che non è che abbia smesso di occuparmi di queste cose, ho
sempre collaborato con il sindacato, ho fatto ricerche; quando Bassolino era
responsabile del lavoro di massa nel Partito Comunista, nel tentativo di
rilanciare il rapporto PCI-classe operaia, ha promosso una grossa inchiesta e
mi ha chiesto di coordinarla. A quel punto io mi sono iscritto al partito,
anche se devo dire che lui non me l’ha chiesto, dicendomi che anzi non era una
condizione. Ci ho provato un po’, sono rimasto ancora un anno dopo la
scissione, poi più tardi sono entrato in Rifondazione, rispetto a cui non ho un
ruolo politico rilevante: lavoro molto, ma sempre con inchieste e cose di
questo genere. Dunque, una militanza politica organica come quella dei periodi
precedenti non c’è più stata.
Che
rapporto c’è tra la tua formazione politica e quello che è poi stato il tuo
percorso professionale?
Il
problema è che le mie scelte professionali sono sempre state subordinate a
quelle politiche. Per fare un esempio, io volevo laurearmi in Storia perché mi
piaceva, poi mi sono laureato in Sociologia in quanto ciò serviva per
l’inchiesta alla Fiat e queste cose qui. Successivamente, per un po’ sono stato
assistente volontario di Gallino, con il movimento del ’68 sono andato via
dall’Università, insegnavo alla scuola serale perché questo andava benissimo
con i turni alla Fiat, in quanto noi facevamo la riunione alle 14.30 all'uscita
del turno, poi io alle 19 andavo a scuola, finivo alle 22.30 e arrivavo in
tempo per il secondo turno. Successivamente sono andato ad insegnare a Modena
per ragioni di nuovo organizzativo-politiche, in quanto, avendo responsabilità
nazionali in Avanguardia Operaia, dovevo potermi spostare: la scuola serale
aveva un gran vantaggio dal punto di vista degli orari, ma non potevo muovermi
da Torino. In più AO era interessata alla facoltà di Modena proprio come luogo
di elaborazione. Per cui io sono andato lì sostanzialmente per "meriti
politici": siccome quelli che insegnavano lì erano compagni, erano stati
vicini ai Quaderni Rossi o addirittura dentro, come Salvati, e
avevano un po’ la coda di paglia perché non avevano fatto il movimento del ’68
e invece avevano fatto carriera in università, mi hanno preso. Quindi, mi sono
inserito all’università perché era più compatibile con la mia militanza, dopo
di che il mio impegno politico è scomparso e sono rimasto lì. Però, quando poi
sono stato stabilizzato e quindi la cosa è diventata possibile, nell’89 mi sono
fatto mettere in distacco sindacale lavorando all’IRES CGIL qui a Torino, e
adesso sono in pensione. Dunque, la mia carriera professionale non ha una sua
logica, anche se a un certo punto mi sono trovato a fare il professore
universitario in sociologia. Come diceva un compagno mio collega: gran brutto
mestiere il professore di università, ma sempre meglio che lavorare! A quel
punto la logica era quella.
Secondo
te, c’è o c’è stata una specificità torinese nelle lotte e nella militanza?
Nella
militanza non so, nelle lotte sì. Cito due aspetti. Una era una specificità che
si riflette proprio nella storia del sindacato torinese, per esempio negli anni
’70. Torino ha avuto una rottura di continuità nell’organizzazione operaia più
drastica che qualsiasi altra città: anche a Milano negli anni ’50 la CGIL andò
indietro, gli scioperi magari non riuscivano, ma c’era un elemento proprio di
continuità organizzativa e non c’era una cesura così grossa. Quindi, il
sindacato torinese doveva ricostruire da zero il suo rapporto con la classe.
Anche nei periodi di lotta alla Fiat, il primo sciopero non riusciva mai,
quindi era sempre una scommessa. In Emilia si aveva una situazione in cui il
90% degli operai era iscritto al sindacato, sapevi che lo sciopero riusciva,
spesso non lo facevi, nelle vertenze aziendali a volte non c’era bisogno di
farlo perché il padrone sapeva già che lo sciopero sarebbe riuscito. Quindi,
ciò non era dovuto a particolari posizioni "di destra" del sindacato,
ma al fatto che tu andavi lì con la piattaforma, lui sapeva che lo sciopero
sarebbe riuscito e non c’era bisogno di farlo. A Torino è sempre stato molto
diverso: non a caso i delegati sono nati qui, in quanto il sindacato di Torino
ha dovuto riproporsi il problema dell’organizzazione e del rapporto con le
masse, non ha potuto semplicemente coltivare quello che già c’era,
rafforzandolo solo. Quindi, le lotte hanno queste caratteristiche meno
routinarie: a volte, anche nei periodi di forza, hai degli scioperi che non
riescono, e a volte hai invece la classe operaia che scavalca il sindacato.
L’altro elemento che riguarda la Fiat, e non Torino in generale, anche se poi
influenza il resto, è la composizione di classe, quello che è stato chiamato
l’operaio-massa. Già allora ma soprattutto adesso io tendo probabilmente ad
avere una visione eccessivamente critico-riduttiva della soggettività
dell’operaio-massa. Allargo un po’ il discorso. Avendo avuto la fortuna di
occuparmi di Fiat con il sindacato fin dagli anni ’50 ho potuto misurare il
salto di soggettività: andando ai cancelli e parlando quando distribuivo i
volantini si capiva ciò che dal ’68 in poi si è manifestato a Torino, ti
accorgevi proprio dell’emergere di una coscienza di classe, di una spinta anche
antagonistica, dunque c’era una conoscenza molto quotidiana. Però, spesso in
questo c’era un fondo qualunquista, del tipo che gli accordi, qualsiasi
fossero, erano tutti uguali: la Fiat ha fatto degli ottimi accordi, ma venivano
tendenzialmente considerati un bidone, l’idea che i sindacati fossero un po’
venduti non è mai scomparsa del tutto. Tra l’altro anche la qualità dei
dirigenti operai emersi dalle lotte alla Fiat è rimasta bassa, salvo per i casi
in cui hanno incontrato degli strumenti di formazione: spesso però queste
situazioni, guarda caso, riguardavano operai relativamente più qualificati. Noi
abbiamo fatto un po’ di formazione con i nostri operai, il sindacato la faceva
ma anche in modo abbastanza superficiale, però all’interno di questo c’era per
esempio tutto il gruppo che si era raccolto attorno a Ivan Oddone, uno
psicologo del lavoro che è stato il primo che fin dagli anni ’60 con la CGIL ha
impostato la lotta contro la nocività, l’analisi dei nuovi fattori di nocività
legati all’organizzazione taylorista del lavoro e ha contribuito all’idea dei
delegati in una forma moderna. Gli operai che hanno lavorato con lui avevano
livelli molto elevati di coscienza politica. Però, c’era un elemento pesante
dell’operaio-massa che era un limite. Alleggerisco quanto ho detto con un
aneddoto, perché appunto del termine operaio-massa io ho sempre un po' diffidato, anche se è efficace. Un compagno sindacalista, Gianni Marchetto,
sostiene di avere l’itinerario opposto a quello che per la classe operaia
teorizza Toni Negri: in quanto giovane immigrato ha cominciato come operaio
sociale, scioperava solo per spaccare i vetri; poi è diventato operaio-massa,
cioè operaio dequalificato in una grande fabbrica; infine, è diventato operaio
di mestiere. Quando gli si chiede che esperienza ha avuto dell’operaio-massa,
lui risponde: "quando ero segretario della lega di Mirafiori ne ho
conosciuti due: Massa Giacomo, che era della manutenzione e iscritto al sindacato,
e Massa Giuseppe, che era uno combattivo delle carrozzerie non iscritto".
E poi da lì chiede: "come vi spiegate che a Mirafiori il turno A ha sempre
scioperato meglio del turno B malgrado avessero ovviamente la stessa
composizione di classe? Perché la soggettività del singolo operaio c’entra,
perché in uno c’erano certi operai e nell’altro certi altri". Questo è un
contributo teoricamente importante per il rapporto tra composizione di classe e
soggettività.
Che
cosa ci dici di Cesare Del Piano, che è stata una figura sicuramente
significativa a Torino?
Del
Piano io non l’ho conosciuto molto direttamente, quindi lo conosco più per
sentito dire. Torino fu uno dei rari casi in cui non solo ci fu l’unità dei
metalmeccanici, che c’era dappertutto, ma ci fu l’unità delle confederazioni e
su una linea estremamente avanzata: basti pensare all’autoriduzione delle
bollette, considerata uno scandalo anche nella CGIL nazionale, che a Torino fu
fatta. Sostanzialmente l’unità tra i tre sindacati voleva dire Del Piano e
Pugno, quindi CISL e CGIL. Dunque, Del Piano è una figura straordinaria, credo
che ci sia una monumentale biografia su di lui. Era proprio un cattolico
sindacalista, di quelli che per onestà da un lato e lucidità di idee dall’altro
arrivava poi alle posizioni più avanzate. Quindi, è stato un fattore decisivo,
prima nel dare una sponda ai sindacati di categoria, ma poi proprio per il
fatto che Torino è uno dei pochi casi in cui c’è stato anche il tentativo (più
convinto che altrove) di fare i consigli di zona. Dunque, lì è proprio una
situazione in cui ha pesato l’influenza e il ruolo di Del Piano, anche perché
era un’autorità indiscussa nel sindacato, ha avuto un ruolo molto importante.
Da
questa ricerca si può ricavare un’interessante ipotesi. Da una parte
l’operaismo è andato avanti proponendo una lettura socio-economica
completamente nuova dell’entrata ritardata dell’Italia nel taylorismo-fordismo
rispetto ad un PCI e ad un Movimento Operaio completamente impantanati nelle
teorie del ristagno e dei monopoli. L’operaismo, dunque, ha rotto con una certa
tradizione individuando nell’operaio-massa una figura nuova non solo per un
percorso anticapitalista, ma anche nell’ipotesi dirompente di una classe contro
se stessa, contro il lavorismo, lo scientismo, il tecnicismo, lo sviluppismo su
cui si è formata la tradizione del Movimento Operaio. Dall’altra parte, però,
non è riuscito a rielaborare nuovi obiettivi e un progetto politico che fosse adeguato
a quella lettura dirompente. Romano sostiene che l’operaismo si è mosso
all’interno di un particolare poligono, in parte riuscendo ma in parte fallendo
nel tentativo di fare i conti con i suoi vertici, rappresentati dalla politica
e dal politico (intesa come gestione e come progetto di trasformazione), dalla
cultura (quanto l’operaismo ha criticato la tradizionale figura
dell’intellettuale organico e la concezione esclusiva della cultura
umanistica?), dagli operai e dall’operaietà (intesa nell’interrelazione tra
soggettività collettiva e soggettività individuale, cose molto o del tutto
trascurate), dalla questione generazionale (per la composizione sia delle
esperienze politiche sia dei giovani operai).
Sono
d’accordo. Vorrei sottolineare, ma credo che questo sia scontato, che
l’operaismo dei Quaderni Rossi non è mai stato operaismo
riferito agli operai in senso stretto. Penso a Romano, il quale fin dall’inizio
(parlo ancora dei Quaderni Rossi) propose di usare al posto di
"operai" il termine "produttori": la cosa scandalizzò molto
Panzieri. Al di là del termine, c’era il fatto che l’attenzione di uno come
Romano, ma anche la mia, è sempre stata all’insieme del lavoro dipendente. Lui
poi aveva un amore particolare per i quadri intermedi, ha fatto le interviste
con loro nella prima inchiesta Fiat, da cui veniva fuori una figura che è un
intreccio di contraddizioni. Quindi, era un operaismo non gretto, non del tipo
che se uno non aveva la tuta blu non ci interessava.
Come
affronteresti tu il nodo della politica e del politico, categoria che oggi
resta di centrale attualità?
È
un discorso che necessita di un grande
approfondimento che parta dall’analisi della situazione attuale. Però, è da
tanto che io non penso in termini organicamente politici, le mie riflessioni
sono individuali: diverso è quando uno milita in un’organizzazione e allora in
ogni momento cerca di interpretare quello che succede e collegarlo ad una
strategia.