di Karl Heinz Roth e Zissis Papadimitriou
Alla
vigilia delle elezioni europee proponiamo l’estratto del volume appena
pubblicato da DeriveApprodi, un manifesto per il futuro dell’Europa come unica
possibilità per evitare la catastrofe:
«nessun ritorno alle sovranità nazionali, politiche o economiche, è
ormai possibile. La risposta sta in altri presupposti. Se vuole guardare al
proprio futuro, l’Europa deve infatti ascoltare quei movimenti che contestano
l’addebito dei costi della crisi alle classi più popolari; rispondere alle
richieste delle fasce sociali maggiormente colpite; promuovere processi di
cambiamento in tutti gli ambiti della vita sociale, economica e culturale
dentro un nuovo progetto di Europa democratica e federale» (K.H. Roth/Z. Papadimitriou, Manifesto
per un’Europa egualitaria. Come
evitare la catastrofe, DeriveApprodi,
2014, pp.144)
La situazione attuale
L’Europa
si sta impoverendo. I poteri forti stanno trascinando le classi lavoratrici
verso la rovina. Sono gli agenti di un sistema definito dai principi del
massimo profitto e della concorrenza. Un sistema instabile che può sopravvivere
soltanto finché continuerà a espandersi in maniera spasmodica: in pochi
continueranno ad arricchirsi ricorrendo alla progressiva espropriazione, allo
sfruttamento e all’immiserimento della maggioranza. Questa dinamica rischia di
subire una battuta d’arresto a causa del crollo dei profitti, per questo le
classi dominanti corrono ai ripari per mantenere ben salde le disuguaglianze e
accelerare lo sfruttamento selvaggio delle risorse naturali.
Le
loro strategie più rilevanti al riguardo sono l’accrescimento e la
stabilizzazione delle riserve economiche, il consolidamento dei processi di
produzione, la riduzione dei salari e la privatizzazione dei beni pubblici e
dei servizi sociali, cosi come l’introduzione di un sistema creditizio più
restrittivo. Il risultato saranno fenomeni complessi di precarizzazione e di
impoverimento di massa. Le classi subalterne si vedranno deprivate dei loro
fondamentali diritti all’esistenza e saranno costrette a sopportare la
pressione di una disoccupazione sempre crescente, di insicurezza sociale e rapporti
di lavoro sempre più malpagati e limitati nel tempo. Contemporaneamente,
perderanno il controllo sulle condizioni della propria riproduzione: i loro
risparmi e i loro debiti consegnati all’arbitrio delle banche, delle grandi
compagnie di assicurazioni e delle autorità di regolamentazione. Da quando è
iniziata la grande recessione, tra il 2007 e il 2009, il processo di
impoverimento europeo ha compiuto un salto di qualità. Il numero dei
disoccupati e cresciuto costantemente: si parla oggi di 26,2 milioni di persone
(10,8%) in tutta l’Unione europea e di 19 milioni di persone (12,0%)
nell’eurozona.
Di
questi disoccupati, rispettivamente il 23,6% e il 24,2% sono giovani tra i 15 e
i 24 anni. La ripartizione geografica della disoccupazione varia notevolmente.
In alcuni paesi periferici la soglia di disoccupazione è ben sopra la media,
come in Grecia (27%), Spagna (26,2%), Portogallo (17,6%) e Irlanda (14,7%).
Diversa è la situazione dei paesi più interni, quali Germania, Paesi Bassi e
Austria, dove la disoccupazione, pressoché stabile da trent’anni, è variata ben
poco. Ancora più drammatiche sono le differenze tra i giovani disoccupati. Nei
paesi periferici si registrano quote dal 58% della Grecia, il 55,5% della
Spagna, il 38,7% dell’Italia, il 38,6% del Portogallo, il 30,9% dell’Irlanda,
fino al 28,1% della Polonia; all’opposto delle cifre nettamente più basse di
nazioni quali Olanda, Austria e Germania, dove si parla rispettivamente del
10,3%, del 9,9% e del 7,9%.
Dietro
questi dati si nascondono situazioni individuali e familiari catastrofiche. Il
lavoro definisce, infatti, anche la partecipazione alla vita sociale, per
quanto instabile e malpagato possa essere. Perciò, la perdurante assenza di un
lavoro innesca una reazione a catena, che il limitato sostegno economico per i
disoccupati non fa che ritardare. Dopo la cessazione del periodo di erogazione
dei sussidi, infatti, si spalanca l’abisso sociale, poiché ne deriva
l’esclusione da ulteriori reti di sicurezza sociale: l’assicurazione sanitaria
scade e la pensione diventa soltanto un lontano miraggio. Poiché salari e
servizi sociali hanno cominciato a disintegrarsi ben prima dell’inizio della
crisi, molte famiglie hanno cercato una stabilità finanziaria ricorrendo
all’acquisto, con mutui, di proprietà e abitazioni, per tutelarsi di fronte a
eventuali imprevisti. Quando poi la crisi ha svalutato gli immobili ancora da
pagare, l’illusione di costruirsi un reddito in questo modo è crollata.
Nell’Europa centrorientale, in Gran Bretagna e nei paesi periferici
dell’eurozona, a oggi, si contano oltre un milione di procedure di pignoramento
immobiliare in corso: più della metà delle quali sono state eseguite. Solo in
Spagna, 400.000 famiglie disoccupate si ritrovano con un pugno di mosche; in
Ungheria sono 120.000 e in Irlanda 85.000. Devono trasferirsi nei quartieri
poveri, nei sobborghi e nei ghetti, dove le infrastrutture sono a dir poco
carenti.
La
perdita delle case e delle abitazioni, tuttavia, è soltanto una delle
conseguenze più eclatanti della disoccupazione di massa. Chi si allontana dalla
famiglia d’origine spesso non riesce più a sostenere i costi di riscaldamento,
di affitto, elettricità e telefono. Anche i membri più anziani della famiglia
non sono in grado di offrire aiuto, poiché nel frattempo la loro pensione è
stata decurtata. Le malattie diventano un rischio di cui si deve cominciare a
tenere conto, e costringono a dar fondo agli ultimi risparmi. I senzatetto sono
centinaia di migliaia, affidati alle cure di strutture d’accoglienza, centri
sanitari senza scopo di lucro e mense dei poveri.
Particolarmente
drammatica è la situazione dei giovani disoccupati. Già negli anni precedenti,
dopo la deregolamentazione dei rapporti di lavoro, essi si erano visti negare
l’accesso a un posto fisso in qualche modo equamente retribuito. Ora i giovani
perdono anche le occupazioni a breve termine e malpagate: soltanto in Spagna,
dall’inizio della crisi, due milioni di giovani precari sono finiti in mezzo a
una strada. Per loro e per tutti gli altri disoccupati europei questo destino è
più di un episodio biografico: caratterizzerà la loro vita per decenni. In
tutta Europa, sta emergendo l’idea di una generazione perduta, deprivata delle
premesse elementari per l’inizio di una vita autonoma. In Grecia, al momento, l’80%
dei giovani è tornato a casa dei genitori. Centinaia di migliaia di neolaureati
e neodiplomati dell’est e del sud Europa emigrano nei paesi dell’interno, ma
anche in Nord America, negli Stati arabi del Golfo e negli ex territori
coloniali africani. In aggiunta, si assiste a un incremento delle migrazioni
interne, dai quartieri poveri degli agglomerati urbani verso le aree rurali.
Questi sono solo alcuni degli aspetti più salienti del profondo impoverimento e
della destabilizzazione sociale, che coinvolge non soltanto le classi più
svantaggiate ma sempre di più anche i settori indeboliti del ceto medio.
Chi
oggi visita l’Europa, non può fare a meno di notare i segnali della povertà e
della disperazione. Questo è vero soprattutto nei paesi periferici, rispetto a
quelli più interni. La nuova povertà di massa colpisce un terzo della società
delle nazioni dell’est e del sud Europa e ha il risultato di accorciare le
aspettative di vita. Ma la situazione non è positiva nemmeno nel resto degli
Stati membri. Anche nell’Europa continentale, la soglia di povertà si aggira
intorno al 20% del totale della popolazione. In Germania questa cifra raggiunge
i 16,1 milioni di persone (il 19,9% del totale): la più alta in assoluto. La
depressione sociale è una diretta conseguenza di questo modello di
distribuzione della ricchezza: negli Stati periferici il numero di suicidi è
drammaticamente aumentato – nei quartieri più poveri si diffondono
prostituzione, microcriminalità, violenza domestica e tossicodipendenza. In
tutta Europa, le associazioni neofasciste approfittano dell’autodistruzione
sociale ed economica della democrazia rappresentativa per guadagnare consensi
con discorsi demagogici e azioni di violenza contro i rifugiati e le minoranze.
Fanno il vecchio gioco del fascismo: si appropriano della questione sociale e
la canalizzano in una etno-politica ipernazionalista.
L’impatto della crisi economica mondiale e il
passaggio alla politica di austerità
Nel
corso del 2007, la grande recessione porto a una fine improvvisa del boom.
Malgrado la percezione generale, questa evoluzione verso la crisi non fu
causata esclusivamente dal crollo del settore immobiliare americano, ma ebbe
anche origini interne. Dopo trent’anni di stagnazione e calo di massa delle
retribuzioni, lo stock di capitale europeo mostrò significative eccedenze. Per
questo tutte le economie nazionali europee furono inizialmente colpite,
indipendentemente dal fatto se avessero intrapreso un modello di sviluppo
basato sul debito o sul modello tedesco del dumping del prezzo delle
esportazioni. Tuttavia, le prime a vacillare furono le nazioni periferiche:
come negli Stati Uniti, crollarono i mercati immobiliari nell’Europa centrale
dell’est e nei paesi periferici dell’eurozona: Irlanda, Portogallo e Spagna,
seguiti dal collasso delle banche e dal ritiro degli investitori stranieri. A
causa di questi sviluppi e della rapida contrazione del commercio mondiale,
anche gli altri paesi europei subirono gli effetti della crisi. Il prodotto
interno lordo degli Stati membri si contrasse di percentuali oscillanti tra il
5 e il 15%. Alcune economie nazionali si ripresero nella seconda meta del 2009
ed entrarono in un periodo di stagnazione; diversi Stati periferici, tuttavia,
caddero in una pesante depressione che ancora oggi perdura. Nella seconda metà
del 2012 è seguita una nuova recessione che ha coinvolto anche la Gran Bretagna
e la maggior parte dei paesi centrali dell’eurozona. È a cavallo tra
il 2007 e il 2008 che i primi governi hanno cominciato a prendere contromisure.
Fu
data priorità al salvataggio delle banche – che malgrado il disastro
finanziario continuavano a concedere prestiti e garanzie –, accordando crediti
pubblici per la loro ricapitalizzazione, e operando alla creazione di «Bad
Bank» che si facessero carico dei crediti non più esigibili. Queste
attività per la stabilizzazione dell’architettura finanziaria vennero
parzialmente associate a programmi congiunturali anticiclici. Le azioni di
supporto per la stabilizzazione delle prestazioni sociali per i disoccupati, dei
minimi salariali, dei debiti ipotecari e delle pensioni sociali vennero
combinate con investimenti per l’innovazione dell’infrastruttura economica
complessiva. Poiché il governo tedesco rifiutava azioni sovranazionali sul
piano dell’Unione europea, la Commissione europea, nel novembre del 2008, legò
l’insieme di queste iniziative a un pacchetto di stimoli del valore di 200
miliardi di euro, al quale aggiunse essa stessa 30 miliardi di euro. Anche la
Banca centrale europea comprò sporadicamente i bond di alcuni degli Stati
membri in maggiore difficolta da mercati finanziari secondari; la Banca europea
per gli investimenti concesse prestiti considerevoli all’Europa centrale e
dell’est, per evitare crolli finanziari annunciati in quei paesi.
A
livello internazionale, tuttavia, i programmi anticrisi europei ebbero effetti
considerevolmente modesti. La potenza egemone tedesca bloccò qualunque
tentativo che consentisse di lanciare un piano di stimoli europeo, emulando
Stati Uniti e Giappone. Questa riluttanza non consentì di sperare che accadesse
nulla di buono. Sebbene la situazione nell’est e negli Stati periferici
continuasse a peggiorare, le istituzioni europee e la Bce sospesero le misure
anticicliche, spostandosi su una posizione di politiche di austerità. L’inizio
di tale tendenza si era già palesato nel novembre del 2008, quando la Banca, in
accordo con il Fondo monetario internazionale, concesse prestiti di supporto
agli Stati a rischio di bancarotta – Lettonia e Ungheria – unicamente a
condizione di severi tagli di bilancio. Nel corso del 2009, i governi di
diversi paesi periferici dell’eurozona vennero invitati in modo perentorio a
interrompere una politica economica orientata verso la domanda e a tornare alla
riduzione del debito statale. Nell’autunno del 2009, la Banca centrale europea
bloccò inoltre un’operazione segreta per la stabilizzazione del debito pubblico
greco. La maggior parte dei governi accelerarono questo processo.
Nel
gennaio del 2010 il governo socialdemocratico spagnolo attuò una svolta
radicale proclamando un duro programma di austerità. La Grecia seguì l’esempio
due mesi dopo; anche la nuova amministrazione laburista britannica cominciò a
praticare una rigida austerity. Dalla primavera del 2010, all’interno
dell’Unione europea non esisteva più alcun governo che potesse permettersi di
prendere contromisure ricorrendo all’idea di un incremento anticiclico della
domanda. Tutti i governi che nella fase del boom si erano sottratti al diktat
neomercantilistico dell’orientamento deflazionistico all’esportazione,
ricorrendo all’indebitamento, venivano adesso messi alla gogna.
Le
classi meno agiate e il ceto medio di queste nazioni ora dovevano espiare:
erano costretti a sottomettersi a brevissimo termine alle misure di
impoverimento dei lavoratori e degli anziani, di degradazione sociale e di
riduzione della domanda. La premessa decisiva per questa redistribuzione dei
costi della crisi fu rappresentata dal blocco dell’accesso delle economie
nazionali indebitate al libero mercato di obbligazioni e di capitali, per via
del ritiro degli investitori e dei creditori internazionali. Cosi come era
successo a Lettonia e Ungheria, anche i governi degli Stati periferici
dovettero recarsi a Canossa e chiedere alla Commissione europea e alla Bce
fondi per la stabilizzazione del settore bancario e a sostegno della
popolazione. Come già era accaduto per Lettonia e Ungheria, le istituzioni
chiamarono in causa il Fondo monetario internazionale e concessero prestiti a
condizione che i paesi acconsentissero ad accettare un vasto programma di
aggiustamenti strutturali.
Nel
maggio del 2010, il governo greco si sottopose alle prime misure di austerità,
alle quali ne seguirono molte altre. Nel novembre dello stesso anno toccò
all’Irlanda; nel maggio 2011 al Portogallo. Nel complesso, l’importo del
prestito monetario concesso agli Stati dalla troika (Commissione europea, Bce,
Fondo monetario internazionale) è stato fino a oggi di 240 miliardi di euro per
la Grecia, 63,5 miliardi di euro per l’Irlanda e 78 miliardi di euro per il
Portogallo. Inoltre, nel giugno del 2012 la troika pretese dal governo spagnolo
un ulteriore inasprimento della politica di austerità – in cambio, avrebbe
concesso un prestito per un massimo di 100 miliardi di euro per il salvataggio
e la ristrutturazione del settore bancario. Nel marzo del 2013 seguì
l’approvazione di un prestito a Cipro della portata di 10 miliardi di euro.
Questi esempi furono sufficienti perché i restanti governi dei paesi periferici
insolventi avviassero autonomamente programmi di risanamento della loro
economia interna. A questo occorre ricondurre le successive crisi di governo e
le nuove elezioni, mentre in Grecia e in Italia a novembre del 2011 salivano al
potere tecnocrati della finanza – privi di qualunque legittimazione politica –
insediando governi di transizione. In questo modo, tutte le nazioni indebitate
dell’Unione europea, in particolare quelle dell’eurozona, si sottomisero al
diktat della politica di austerità. Per coordinare le attività, nel maggio del
2010, le autorità europee misero a disposizione un fondo di stabilizzazione
temporaneo per la concessione di aiuti economici per un ammontare complessivo
di 750 miliardi di euro: 60 miliardi provenivano dal bilancio della Commissione
europea, 440 miliardi provenivano dal contributo di un ente di scopo, fuori
dagli statuti dell’Unione, mentre il Fondo monetario internazionale mise a
disposizione 250 miliardi.
Nel
2013 questi fondi vennero sostituiti da un Fondo salva-Stati (o Meccanismo
europeo di stabilità) permanente che disponeva di mezzi finanziari ugualmente
ampi. I compratori di bond e gli investitori internazionali furono inizialmente
poco convinti dell’efficacia di tali provvedimenti, poiché il Fondo salva-Stati
non sembrava in grado di compensare la mancanza di buoni del Tesoro emessi a
livello europeo e l’atteggiamento passivo della Banca centrale europea.
Soltanto quando il presidente della Bce Mario Draghi spiegò, nell’agosto del
2012, che la Banca centrale avrebbe sostenuto gli Stati membri in difficolta
con l’acquisto illimitato dei loro bond, l’eurocrisi cessò di essere il
principale titolo dei giornali.
Il diktat della zona centrale neomercantilista e il
programma di austerità per la periferia
I
programmi di austerità nati all’inizio del 2010, nella prospettiva dell’Unione
europea, hanno avuto effetti devastanti. Hanno distrutto le reti di sicurezza
sociale e il sistema dei servizi degli Stati membri, senza i quali nessuna
società complessa e sviluppata può esistere. A questo proposito, i governi sono
stati sottomessi alla pressione diretta o indiretta della troika (Commissione
europea, Bce, Fondo monetario internazionale), sempre a partire dallo stesso
schema. I programmi di risanamento hanno infuriato per diversi anni nei
parlamenti, ai quali era stato affidato il compito di effettuare tagli sulla
spesa pubblica e aumentare le entrate. In un primo momento sono stati ridotti i
salari dei lavoratori del pubblico impiego, parallelamente a tagli salariali di
massa in tutti i settori del pubblico: istruzione, salute, trasporti, servizi
sociali, ecc. Da qui ha avuto inizio una prima fase di aumento della
tassazione, che si e concentrata soprattutto sulle tasse indirette sul consumo
(imposta sul valore aggiunto). A questo è seguita, tra i sei e i nove mesi più
tardi, una seconda serie di «tagli», attraverso i quali le misure messe in
campo sono state ulteriormente inasprite ed estese a coloro che beneficiavano
di servizi sociali pubblici, quali disoccupati, ammalati cronici e pensionati.
Un anno più tardi si è arrivati a un ulteriore peggioramento. È stato
colpito il diritto del lavoro – in particolare la protezione contro il
licenziamento e la contrattazione collettiva –, sono stati decurtati i salari
minimi, le retribuzioni del settore privato sono state adeguate ai tagli
salariali dei servizi pubblici e i diritti di accesso alle prestazioni sociali
ridotti all’osso con misure ad hoc. Sebbene la disoccupazione sia schizzata di
nuovo in alto, il consumo di massa si sia ridotto di circa un terzo e la crisi
in diversi Stati membri si sia trasformata in depressione, i programmi di
austerità hanno continuato imperturbabilmente a essere applicati, fino a oggi.
Dovunque
volgiamo lo sguardo, o quasi, la situazione e la medesima: in Gran Bretagna,
Belgio e Olanda, in Italia, Francia, nel blocco dell’Europa dell’est e del
sud-est, cosi come nei paesi periferici dell’eurozona. Solo in Germania la
situazione è relativamente tranquilla. La ragione è semplice da comprendere: in
Germania i programmi di austerità sono stati anticipati già nei primi anni del
nuovo millennio, nel contesto dell’«Agenda 2010» e dei «Piani Hartz».
Per questo, dopo la crisi, il governo tedesco ha avuto poco da fare: ha
ampliato il numero degli impieghi a breve termine, permettendo cosi ai vertici
delle imprese di mantenere un nucleo centrale di maestranze stabilmente
occupate. Il governo si è incaricato, inoltre, di imporre una fedele
riproduzione dell’«Agenda 2010» a livello europeo: si pensi soltanto ai
progetti relativi alla povertà degli anziani o all’innalzamento dell’età
pensionabile a 67 anni.
Attraverso
la svolta politica dell’austerità, i poteri decisionali europei perseguivano
due scopi. Anzitutto volevano impedire che i costi sostenuti dallo Stato per il
salvataggio dell’architettura finanziaria venissero ripartiti ricorrendo a
riduzioni dei debiti o ad altre soluzioni di compromesso tra debitori e
creditori. Si tratta di un fenomeno inedito della storia finanziaria del
capitalismo: fin dal XIV secolo, nelle operazioni di sdebitamento statale sono
sempre stati invitati alla cassa anche i sottoscrittori di titoli pubblici,
spesso persino prima degli altri. Ma oggi a essere spremuti sono esclusivamente
i contribuenti e chi usufruisce dei servizi sociali. Al contrario, i creditori
degli Stati insolventi possono contare sull’illimitata soddisfazione dei loro
diritti sugli interessi e al rimborso del debito, sebbene siano stati proprio
loro a creare lo squilibrio dei bilanci pubblici. Un simile favoritismo a senso
unico e in realtà singolare. Dimostra l’emergere di una classe globale di
possidenti e capitalisti che, ormai diventata élite dominante, ha assoggettato
le istituzioni mondiali, i blocchi economici e le economie nazionali. A causa
di questo spostamento degli assetti economici di potere del sistema mondiale,
si è arrivati al punto che le classi subalterne di interi paesi, oltre allo
sfruttamento individuale all’interno del processo di produzione, vengono
sfruttate anche collettivamente sul piano delle loro condizioni sociali di
riproduzione. A esse vengono imposti inoltre contributi economici supplementari
dai programmi di austerità, che producono il drenaggio di ricchezza dal
patrimonio pubblico alle tasche dei creditori.
Questi
eventi drammatici vengono giustificati dall’assurda considerazione che il
debito pubblico sia l’origine della crisi e che il suo risanamento coincida con
una mossa decisiva per il superamento della crisi. Questo goffo rovesciamento
di cause ed effetti sembra essere sufficiente, come riportano i media, a
rafforzare il rigoroso meccanismo di drenaggio dei programmi di austerità. Il
secondo intento di tali programmi verte sul rapporto tra retribuzione e
prestazione lavorativa (i cosiddetti costi per unità lavorativa). In
particolare, le misure introdotte a cavallo tra 2011 e 2012 hanno perseguito il
fine di ridurre i costi del lavoro dei paesi periferici, al punto da
raggiungere le peggiori retribuzioni delle nazioni della zona centrale, in
particolare quelle della Germania. Per garantire questo risultato, inoltre, il
settore pubblico è stato privatizzato e razionalizzato, come non era mai
successo dall’inizio della crisi. Dunque è chiaro: i programmi di austerità
hanno il compito aggiuntivo di insediare a breve termine in tutta Europa il
modello economico della potenza tedesca, sfruttando l’attuale situazione di
crisi. E infatti evidente il crollo del costo del lavoro negli Stati
dell’«espansione a est» e nelle nazioni periferiche dell’eurozona dal
2011-2012.
Prima
dell’inizio della crisi lo scarto tra questi paesi e la zona centrale era
riconducibile a una forbice tra il 30 e il 35%; successivamente e sceso al
20-25%, mentre alcuni paesi dell’Unione europea sono riusciti ad aumentare le
loro esportazioni, soprattutto verso i paesi terzi. Tuttavia, questo non ha
migliorato in nessun modo la loro situazione economica complessiva. Osserviamo piuttosto
il contrario. Quando in Grecia, in Portogallo o in Spagna i costi del lavoro
crollano, subentra in primo luogo un ulteriore declino della prestazione
economica complessiva e aumenta il numero di disoccupati.
Per
questo, l’aumento delle esportazioni all’interno dell’Unione europea si rivela
un boomerang. In confronto alle nazioni della zona centrale, la produzione
industriale dei paesi periferici e esigua: e costantemente diminuita a causa dello
sviluppo diseguale degli ultimi trent’anni. La conseguenza e che queste nazioni
devono necessariamente aumentare in proporzione le importazioni di beni e
servizi, se vogliono rafforzarsi sul fronte delle esportazioni. Ma per farlo a
livello europeo mancano fattori determinanti. Con le attuali premesse
strutturali, ogni tentativo di avvicinarsi al modello economico tedesco
somiglia alla ben nota gara tra la lepre e la tartaruga.
Persino
Italia e Francia, entrambe cofondatrici del processo di integrazione europeo,
sono rimaste molto indietro: il tentativo di recuperare lo svantaggio nei
confronti dello stock di capitale tedesco, continuamente rinnovato e
all’avanguardia, attraverso programmi di esportazioni mirati o
l’internazionalizzazione di piccole imprese dei nuovi distretti industriali,
non è riuscito a ridurre significativamente la distanza tra questi paesi e la
Germania. La situazione è in realtà quella descritta da un alto funzionario
tedesco dell’Unione europea in occasione di una conferenza interna: l’Europa e
come un campionato di calcio, in cui la capoclassifica che non può mai essere
raggiunta determina le regole del gioco e decide la posizione delle altre
squadre. Idee alternative non sono ammesse. Il neomercantilismo è una struttura
di potere politico-economica che esclude qualsiasi cooperazione internazionale:
crea squilibri e fa di tutto per renderli sempre più profondi.
L’Europa come epicentro della stagnazione globale
Nel
frattempo l’Europa è diventata l’epicentro della stagnazione globale: l’Unione
europea e il blocco economico del sistema mondiale che dal 2012 si trova di
nuovo in recessione. Su questo fatto tutti gli osservatori sono della stessa
opinione: i programmi di austerità inaspriscono la crisi, mettono in
discussione la sopravvivenza dell’Unione – in particolare dell’eurozona – e
rallentano il processo di ripresa globale. Certamente le ultime statistiche
parlano chiaro. La produzione industriale europea dall’inizio della crisi si e
ridotta del 10% e il calo dei salari, la disoccupazione di massa e i tagli alla
spesa pubblica hanno portato a un lungo declino della domanda. Di conseguenza,
le importazioni da oltreoceano sono diminuite. Di questo hanno sofferto soprattutto
le economie nazionali dei paesi in via di sviluppo, ma anche gli altri partner
della Triade: gli Stati Uniti e il Giappone. Il commercio mondiale è fermo
nella stagnazione, dopo essersi ripreso abbastanza bene a cavallo del
2010-2011. La crescita economica cinese, attualmente del 7,4% annuo, ha toccato
il livello più basso dalla primavera del 2009. Il Giappone comincia
gradualmente a uscire dalla recessione nella quale era nuovamente precipitato
dopo la catastrofe di Fukushima. Nel frattempo, l’economia americana si trova
in un momento di chiara ripresa. Eppure, le capacità industriali sono ben lungi
dall’essere sfruttate completamente. I più alti profitti ricavati dalle imprese
americane sono dovuti soprattutto alla persistenza di bassi salari, che non
tengono il passo con il rapido aumento della produttività lavorativa.
Con
le loro politiche di austerità a senso unico, i centri decisionali europei si
ritrovano soli. È vero che, per poter evitare il collasso
dell’eurozona che sembrava imminente nell’estate del 2012, la Banca centrale
europea ha in qualche modo eluso il dogma tedesco del rifiuto di concedere
prestiti agli Stati e di una politica dei bassi tassi di interesse. Tuttavia, i
fondamenti dell’austerità prociclica non sono cambiati affatto: anche il Fondo
salva-Stati ha l’unica funzione di stabilizzare i processi di ridistribuzione
dal basso verso l’alto dettati dalla necessità di risparmiare. La transizione
verso un lungo periodo di depressione e di conseguenza tuttora probabile. Una
via d’uscita sarebbe pensabile, nelle condizioni attuali, solo se venissero
introdotte rivoluzionarie innovazioni tecnologiche strutturali, capaci di dare
un forte impulso alla crescita, o se l’economia mondiale si risollevasse tanto
in fretta da aprire nuove prospettive di esportazione sostenibili. Ma tali
aspettative sono mere speculazioni e poco realistiche. Eppure le autorità
europee sembrano basarsi proprio su queste illusioni, come dimostrano le loro
attività più recenti per intensificare gli investimenti tecnologici.
Anche
negli Stati Uniti, in Giappone e nei principali paesi emergenti la politica di
innovazione tecnologica viene messa in primo piano. Ma si tratta di iniziative
che si inseriscono in contesti macroeconomici profondamente diversi. Le
autorità di regolazione politico-economica della Repubblica popolare cinese,
per esempio, sono riuscite a compensare il declino del surplus di bilancio
attraverso la stimolazione della domanda interna e l’incremento degli
investimenti per le infrastrutture pubbliche. La maggior parte dei governi del
sud del mondo seguono questa linea di condotta. L’amministrazione Obama lavora
invece con la Federal Reserve per un totale superamento della crisi finanziato
illimitatamente dai debiti, continuando a stimolare i mercati finanziari e
mantenendo il tasso di interesse vicino allo zero; predisponendo, inoltre,
programmi specifici per rilanciare l’economia. Tutto ciò può essere fatto senza
problemi, perché il dollaro americano e ancora la valuta di riserva mondiale
dominante e la sua continua svalutazione facilita il rifinanziamento
dell’ancora enorme deficit interno degli Stati Uniti. Anche i protagonisti
della politica economica giapponese seguono lo stesso esempio. La Banca del
Giappone acquista un gran numero di bond statali e di titoli di credito, per
migliorare le possibilità di esportazione tramite una sistematica svalutazione
dello yen.
Contemporaneamente,
vengono sviluppati programmi ad hoc per rilanciare l’economia. Si tratta di
tentativi interni al sistema di superare la stagnazione e rimettere in moto un
nuovo periodo di crescita economica. Essi rivelano un’enorme instabilità degli
atteggiamenti, a fronte di un equilibrio tra i singoli interessi delle economie
nazionali e i blocchi economici con la loro reciproca cooperatività ancora
tutto da valutare. Non sta a questo libro dare giudizi sull’uno o l’altro
criterio, poiché non siamo interessati a una possibile riproposizione della
dinamica globale, bensì ricerchiamo il suo rovesciamento. Rimane comunque un
dato di fatto che le modalità europee nell’ambito della gestione della crisi
politico-economica rappresentano la variante meno cooperativa di operare. Tale
modalità è strettamente collegata, senza compromessi, al riversamento dei costi
della crisi sulle classi subalterne.